
La corsa all’oro si sposta negli oceani
Si chiama deep-sea mining, è favorita dalla deregulation delle convenzioni sui mari e ha conseguenze ambientali potenzialmente devastanti
Stiamo vivendo una delle estati più calde di sempre – forse la più fresca dei prossimi 10 anni – eppure nel dibattito pubblico italiano – viziato dalla retorica di una destra che non vuole ancora fare i conti con la crisi climatica – la transizione ecologica fatica a emergere. Le emissioni climalteranti a livello globale continuano a crescere segnalandoci come ci sia bisogno di un radicale superamento dell’attuale sistema economico.
La transizione ecologica può essere immaginata come un profondo ripensamento dell’esistente, ma può anche essere forzata all’interno degli schemi del capitalismo cannibale. L’ultimo report dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) sui materiali critici per la transizione ecologica evidenzia come in qualsiasi scenario ci sarà un forte aumento dell’estrazione delle risorse minerarie, nel caso del litio tra il 2021 e il 2030 l’aumento dovrebbe essere del 600%. Al tempo stesso sono soprattutto le batterie dei veicoli elettrici – e non i pannelli fotovoltaici, le turbine eoliche e le batterie d’accumulo – a trainare la domanda di litio (pesandovi per il 90%) e degli altri minerali.
Ciononostante il rischio che la transizione ecologica possa sposare la strada della fallimentare crescita economica, declinata sotto l’egida della cosiddetta green economy, è più vivo che mai. Sono diverse le aziende e gli stati alla costante ricerca di un modo per trovare «soluzioni vincenti» – per il capitale, verrebbe da dire – alla crisi climatica. L’ultima frontiera, sia sul piano ecologico che dell’accumulazione primaria, potrebbero essere gli oceani, una porzione rilevante del nostro pianeta in cui a oggi non vigono regole definite sul piano dello sfruttamento delle risorse minerarie.
Data la proporzione degli interessi in gioco le multinazionali che più spingono nella direzione di un’apertura della frontiera oceanica a un massivo sfruttamento delle risorse sono del Nord globale, un ulteriore sintomo delle asimmetrie della comunità internazionale. Alcuni di questi attori, necessitando del benestare da parte degli altri stati, starebbero infatti usando il proprio potere economico come fattore decisivo.
In un grigio palazzo di Kingston
È però intorno a una minuscola isola oceaniana, Nauru, che si sta giocando la partita decisiva dello sfruttamento dei fondali dell’alto mare. L’arbitro che ne deciderà le sorti è anch’esso inusuale: ha sede in un grigio palazzo nel centro di Kingston, in Giamaica, e si chiama International Seabed Authority (per i giuristi del mare Isa, o più semplicemente l’Autorità).
Prevista nel 1982 dalla Convenzione di Montego Bay (la più importante codificazione del diritto del mare) essa «governa» su una parte del pianeta che approssimativamente equivale a 17 volte la Russia: i fondali marini dell’alto mare (più noto come «acque internazionali»), ciò che sorregge quella colonna di acque che gli stati decisero di sottrarre al principio della nazionalità per ricondurle invece a quello della libertà. Per i fondali la libertà avrebbe costituito però la maschera di un diseguale trattamento: nonostante un accesso formalmente aperto a tutti le risorse custodite in quella che nei trattati è definita come «Area» sarebbero state sfruttate solo dagli stati in possesso di capitali e tecnologie adeguati a tali imprese. Si optò quindi per una nozione diversa: patrimonio comune dell’umanità (common heritage of mankind), un concetto proposto da Arvid Pardo, diplomatico maltese, alla fine degli anni Sessanta, e che venne raccolto e concretizzato in una regolamentazione su esplorazione e sfruttamento orientata a favorire i paesi in via di sviluppo. Al punto che molti stati sviluppati inizialmente non aderirono e lo fecero soltanto nel 1994, dopo che un sostanziale emendamento ridefinì in senso marcatamente market-friendly (rimuovendo ad esempio gli obblighi di trasferimenti tecnologici verso i paesi in via di sviluppo) la precedente regolamentazione. Con l’eccezione degli Usa, per cui la parte XI della convenzione, quella che a noi qui interessa e che regola lo sfruttamento dei fondali, era piena di «norme inaccettabili», come dichiarò il presidente Reagan nel 1982, e che ancora oggi non hanno aderito.
Grazie alle modifiche apportate nel 1994 coesistono diverse vie per poter esplorare e sfruttare i fondali. Mettendo da parte il sistema che vede al centro la cosiddetta «Impresa», un organo dell’Autorità, la strada per molti più allettante è quella di un accordo tra l’Autorità e un’impresa privata che abbia il patrocinio di uno stato membro dell’accordo, con annessi obblighi e profili di responsabilità dello stato stesso. Inoltre, se dal lato dell’esplorazione sono già stati assegnati 31 permessi a partire dal 2001, per l’estrazione non vi è ad oggi alcun precedente.
È qui che torna in gioco Nauru e il nostro inadeguato arbitro giamaicano. Nauru (un minuscolo stato ma dalle tormentate avventure estrattive e finanziarie) sponsorizza, attraverso una richiesta presentata nel giugno del 2021, una controllata della canadese Metals company, la Nauru Ocean Resources. La Metals Company ha l’obiettivo di sfruttare la Clarion-Clipperton Zone, una porzione del fondale marino situata nel pacifico e compresa fra le Hawaii e il Messico. Nel presentare la richiesta lo stato oceaniano ha invocato una clausola di un allegato al trattato, la cosiddetta regola dei due anni: entro tale termine, provenendo l’istanza da uno stato, l’Isa avrebbe dovuto finalizzare la regolamentazione per lo sfruttamento. Altrimenti sarebbe stata costretta a dare un via libera provvisorio ai soggetti, come la Metals Company, che ne avessero fatto richiesta. La scadenza cadeva il 10 luglio e non è stata rispettata. A oggi di regole non ce ne sono e il futuro – su cui si sta forse definitivamente decidendo in questi giorni a porte chiuse nell’annuale riunione dell’Isa a Kingston – si presenta oscuro e incerto.
Il Far West degli abissi oceanici
Questa assenza di regole, dinanzi alla quale potrebbero emergere scenari di libera estrazione, ridefinirebbe il nostro rapporto con gli oceani, aprendoli a una nuova corsa all’oro al cui centro ci sarebbero una serie di metalli, considerati strategici ai fini della transizione ecologica. Così all’interno di un’economia in costante e febbrile espansione anche i mari verrebbero toccati dalla Grande Accelerazione, diventando – proprio sulla base del particolare status giuridico del mare internazionale – una vera e propria terra di conquista di stati e multinazionali.
In questo modo la strategicità degli oceani è emersa non sulla base della loro straordinarietà dal punto di vista della biodiversità o della capacità di immagazzinamento dei gas climalteranti, ma in virtù della presenza di noduli polimetallici. Noduli presenti soprattutto in alcune aree dell’Oceano Pacifico, dove vi è una maggiore presenza di stati insulari, e che risultano essere ricchi di manganese, nichel, cobalto, rame e terre rare.
Ancora una volta, il rapporto del nostro sistema economico con l’habitat che ci ospita è scandito dal paradigma estrattivista, per cui per riuscire a riconoscere il valore di qualcosa l’unica strategia è l’estrazione e la messa a valore. Si ripropone l’oggettivazione della natura a cui ci ha abituato la modernità: un’irrazionale attribuzione di un valore economico a un ecosistema – come premessa per la sua messa a profitto – che però, per il ruolo che riveste, non può avere alcun valore misurabile.
A chiudere il cerchio della narrativa sul deep sea mining ci sono le dichiarazioni delle aziende e degli stati che vorrebbero promuovere questa modalità di estrazione e che sostengono come questa formula si possa considerare meno impattante sia sul piano sociale che sul piano ecologico. Il tutto evidentemente solo se applichiamo una prospettiva per cui ciò che è lontano da noi, come specie, pur impattando altri tipi di ambienti – in questo caso quello marino – non ci tange.

I rischi ambientali
Il recupero dei noduli polimetallici avverrebbe infatti attraverso una tecnica fortemente invasiva che prevede un iniziale raschiamento dello strato superiore del fondale marino, con la successiva separazione dei noduli dal fango, il pompaggio degli stessi attraverso un tubo flessibile su una nave o piattaforma off-shore e infine il ri-pompaggio dei resti in mare.
Davvero, come affermano investitori e società interessate, avverrebbe tutto a impatto zero? Uno studio pubblicato proprio in questi giorni su Current Biology, riferendosi a un primo test sugli effetti del deep sea mining, evidenzia come questa modalità di estrazione delle risorse possa avere un impatto rilevante sulla flora e sulla fauna marina. Nelle aree interessate dal test di estrazione, durato circa 2 ore, a distanza di un anno è stato possibile individuare una serie di effetti negativi, come la riduzione del 43% di densità della popolazione di pesci e crostacei nell’area direttamente interessata e una riduzione del 52% nelle aree circostanti. Secondo lo studio il tutto potrebbe essere attribuito alla riduzione della qualità del cibo nell’area.
Il deep sea mining a pieno regime potrebbe avere delle conseguenze devastanti. Ciò è evidenziato anche dall’European Academies Science Advisory Council (Easac), che ha ribadito come i rumori causati dalla rimozione dei noduli polimetallici e dei sedimenti potrebbero allontanare le specie marine, senza considerare inoltre il possibile rilascio di tossine e la divisione delle specie marine, con risultante perdita di variabilità del patrimonio genetico.
Al tempo stesso secondo un’ulteriore ricerca pubblicata pochi giorni fa su Nature esisterebbe una potenziale relazione perversa tra uno degli effetti della crisi climatica, cioè la migrazione di banchi di tonno, e il deep sea mining come metodo di estrazione. Infatti proprio le aree più ricche di noduli polimetallici, come la già citata Clarion–Clipperton Zone, sarebbero soggette alla migrazione della suddetta specie. Per questo anche la Global Tuna Alliance, allarmata dalla possibile sovrapposizione, ha preso una posizione dichiarandosi contraria al deep sea mining.
In un ecosistema così fragile come quello marino, messo già a dura prova dall’aumento delle temperature e dalla progressiva acidificazione degli oceani, un metodo di estrazione così invasivo rappresenterebbe un elemento di aggravio eccessivo per l’ambiente, contribuendo anche a ridurne la capacità di assorbimento delle emissioni climalteranti.
In difesa di un bene comune
Il business as usual è in splendida forma. Gli interessi in gioco sono moltissimi. La già citata Metals Company, ad esempio, se ne fa direttamente carico attraverso dichiarazioni pubbliche e campagne di promozione del deep sea mining. Il tutto sostenendo la necessità di estrarre i minerali per la transizione ecologica direttamente dagli oceani garantendo continuità alla domanda – vista in inevitabile aumento – di mobilità elettrica privata. La sua narrativa si focalizza proprio sulle auto elettriche: «a battery in a rock» è lo slogan con cui, riferendosi ai noduli polimetallici della Clarion-Clipperton Zone, riassumono il proprio progetto e la sua inderogabilità. L’urgenza di attaccare i fondali ha però anche un fondamento geopolitico. È infatti richiamandosi alla necessità di costruire una filiera di approvvigionamento statunitense concorrenziale con quella – solo terrestre – cinese, che la stessa Metals Company legittima i propri piani, richiama gli investitori e ricerca l’attenzione istituzionale. Un’attenzione che non ha tardato ad arrivare: poche settimane fa l’House Armed Services Committee del Congresso Usa ha infatti ribadito come l’affrancamento dalla Cina della filiera dei veicoli elettrici sia una priorità di sicurezza nazionale, includendo nel suo atto di indirizzo sulle politiche energetiche e militari un’apertura allo sfruttamento delle risorse minerarie dei fondali marini.
La Metals Company pone l’accento sulla ricerca – quasi spasmodica e incessante – di risorse minerarie nei fondali marini in quanto sostiene che la domanda di veicoli elettrici, anche all’interno degli Usa, tenderà ad aumentare, auspicando di conseguenza una totale sostituzione delle auto a combustione interna, rispetto alle quali le auto elettriche comportano un aumento fino a 5 volte della massa metallica. Ed evidenzia, sulla base della sua attenzione al mercato statunitense e con la ricerca di appoggio istituzionale, come dalla sola estrazione di minerali all’interno della Clarion-Clipperton Zone sarebbe possibile fabbricare 280 milioni di auto elettriche, l’equivalente dell’attuale parco auto Usa.
Al tempo stesso però, come ribadito anche dalla succitata Easac, dovremmo dare priorità alla riduzione della domanda e inoltre, sulla base degli attuali dati circa la richiesta di minerali, apparirebbe a oggi insensata una corsa accelerata all’accaparramento dei noduli polimetallici dai fondali marini, cosa giustificabile, sempre secondo l’ente, solo sulla base degli interessi economici più che delle prospettive di transizione ecologica. Per quanto riguarda la mobilità quindi, resta prioritario ribadire politicamente l’insostenibilità della sostituzione uno a uno dei veicoli elettrici ai veicoli a combustione interna attualmente in circolazione, evidenziando invece l’opportunità di incentivare e investire in mobilità pubblica e in mobilità dolce.
I fondali marini sono – e devono restare – un bene comune. La nozione di patrimonio comune dell’umanità, nonostante le sue complesse modalità di sfruttamento pur ispirate a un principio di sostanziale eguaglianza fra gli stati, risiede ancora stabilmente nell’alveo di un approccio antiecologico. L’unica regolamentazione auspicabile per lo sfruttamento dei fondali dell’alto mare è quella che li vieti radicalmente.
I beni comuni infatti, erosi nei secoli dall’individualismo proprietario, sono tali perché accessibili a tutti, funzionali più all’essere che all’avere. Carlo Maria Cipolla in un suo noto saggio di alcuni anni fa (Uomini, tecniche, economie) notava come le generazioni successive alla rivoluzione scientifica siano paragonabili a un fanciullo che abbia scoperto come aprire un forziere in cui sono custodite immense fortune che le generazioni passate non sapevano di possedere né in che modo utilizzare. Il deep sea mining ne è la più attuale espressione in quanto ultima frontiera di un continuo e inarrestabile processo di accumulazione originaria.
In una delle sue molte dichiarazioni la Metals Company sostiene che il deep sea mining porti a salvaguardare la biodiversità terrestre messa a repentaglio dagli attuali processi di estrazione mineraria. In quanto faccia della stessa medaglia del capitalismo estrattivista però, la startup canadese mente sapendo di mentire. Perché attaccare i fondali non implica salvare la terra, ma soltanto aprire una nuova frontiera di estrazione e accumulazione che accompagnerà quelle già esistenti.
Di fronte a chi vorrebbe mettere a profitto uno degli ultimi beni comuni del pianeta rimasti intangibili, i movimenti per il clima sono alla ricerca di consenso e di nuovi alleati istituzionali che possano incidere all’interno dell’Isa (e non solo) per chiedere una moratoria al deep sea mining. Una resistenza doverosa per impedire che, in una delle estati più calde di sempre, si decida definitivamente di scavarci la fossa.
*Giorgio De Girolamo studia Giurisprudenza all’Università di Pisa, è attivista di Fridays For Future Italia. Si interessa e ha scritto di ambiente, clima e diritto su varie testate nazionali. Ferdinando Pezzopane studia Scienze Internazionali, dello sviluppo e della cooperazione presso l’Università degli Studi di Torino, è attivista di Fridays For Future Italia. Si interessa di lavoro, ecologia e del loro rapporto conflittuale con il sistema capitalistico.
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