La crisi tedesca e noi
Le difficoltà del mercantilismo della Germania produrranno conseguenze anche per l'Italia. Ed è difficile pensare di uscirne restituendo centralità all'iniziativa imprenditoriale
L’estate sta finendo e di economia si torna a parlare, al solito, in funzione della prossima legge finanziaria.
Percentuali di tagli che devono apparire invisibili, operazioni di maquillage contabili, critiche a tali provvedimenti. Tutto dentro una cornice minimalista, dove si cerca di far finta di non scontentare nessuno, in particolare il proprio elettorato di riferimento. Raramente si apre un confronto di ampio respiro, per comprendere il contesto e le prospettive possibili. Raramente si prova a misurarsi con i problemi strutturali che stanno a monte, quei problemi che in definitiva determinano i margini di manovra di una politica economica.
Invece Giancarlo Giorgetti da una delle postazioni governative strategiche, il ministero dell’Economia e Finanza, in un intervento al Meeting di Comunione e Liberazione ha sollevato, seppur superficialmente, il problema del ruolo dell’impresa e delle competenze dell’imprenditore. Il ministro ha preso spunto dal tema della formazione professionale sostenendo che possa essere spinta «dallo Stato o tirata dalle imprese». Convinto che la scelta sia «una grande scelta di fondo», ritenendo che l’apprendimento debba essere gestito dalle imprese e «tarato a misura rispetto alle necessità delle imprese, rispetto a quello immaginato da qualche politico o burocrate». Il presupposto (in tal caso sì) strategico, di queste affermazioni è che «l’imprenditore è il motore dello sviluppo». Salvo poi lamentarsi che il Patto di Stabilità dell’Unione europea vincoli gli Stati membri «a fare valutazioni di breve respiro, in quanto il concetto d’investimento, cioè il pensiero lungo, non è adeguatamente valutato».
Insomma una visione che si colloca tra il pensiero ordoliberale, che concepisce lo Stato unicamente come facilitatore del mercato e dell’impresa privata, e una visione ottocentesca, che rimarca come vi sia unicamente l’impresa privata a costituire il motore della crescita. La seconda dimensione appare preponderante. Non solo per fare di necessità virtù in termini di modeste risorse pubbliche in relazione all’ammontare del debito sovrano, ma anche per quell’intento predatorio che si ha nei confronti della sfera pubblica. Lo Stato appare, in Italia in particolare, come un attore da spolpare per quanto possibile anziché una risorsa per tutti. La preminenza data all’impresa privata non è nuova, ma va ammesso che questo governo sembra farne quasi l’unico elemento caratterizzante, il profilo programmatico centrale. A partire dal motto della presidente Giorgia Meloni sul «non disturbare chi vuol fare», l’impresa va «sostenuta e agevolata non vessata». Torna, dunque, l’impresa privata come motore primo, per non dire unico, dell’economia e del benessere.
Complessivamente una visione che risulta piuttosto arcaica se paragonata a quel che sta accadendo per il mondo. Una visione aggrappata al primo paradigma capitalistico, quello della sua epopea primigenia, e riattizzata nella fase neoliberale di stampo bostoniano a partire dalla seconda metà dei Settanta. Dalle crisi finanziarie d’inizio secolo per arrivare al Covid-19, dalla crisi della globalizzazione al ritorno di una nuova geopolitica, il sistema di accumulazione è andato però cambiando pelle, prendendo atto dei limiti del libero mercato senza limiti. Proviamo, dunque, a vedere quali porte si sono chiuse e quali hanno mostrato nuovi spiragli.
La crisi del debito privato ha evidenziato che persino i processi di finanziarizzazione hanno dei limiti. L’economia al traino della finanza è stata il modo per superare i vincoli del sistema fordista-keynesiano, ma dopo esser riusciti a mettere politicamente nell’angolo il lavoro, il libero sviluppo delle forze di mercato ha posto le basi per nuove contraddizioni. Da qui l’intervento degli Stati e delle relative banche centrali. Salvare la finanza a mezzo della finanza ha consentito di evitare il precipizio, ma non di ritrovare i ritmi di crescita economica attesi.
Le forze e gli squilibri sprigionati dalla globalizzazione hanno prodotto crescenti tensioni, conducendo i paesi promotori della globalizzazione a una progressiva ri-regionalizzazione degli scambi commerciali e a un ritrovato ruolo degli Stati in campo tecnologico, strategico, economico. Il protezionismo per fronteggiare il combinato cinese di mercato e Stato è iniziato con Barack Obama ed è stato poi radicalizzato da Donald Trump. Il Covid-19, infine, ha reso chiaro come il capitalismo non possa fare a meno dello Stato, ma non nella sua dimensione residuale o marginale, quanto come strumento indispensabile per rendere sopportabile la crisi e, persino, governare almeno una parte della sfera economica.
Lo Stato torna a essere funzionale al capitalismo, ammesso che avesse mai perso tale funzione. Oggi questa missione appare meno contestabile anche per quella parte di classi dirigenti occidentali impregnate di conservatorismo. Anzi, una loro preminenza a livello internazionale, al di là dell’immediata retorica, finirebbe per accelerare scontri e processi di ripiegamento su scala locale, quindi con un recupero della funzione statale. La geopolitica è tornata, la polarizzazione dello scontro sino-statunitense rende così meno credibile una semplice prospettiva mercantilista. Alla tedesca per intenderci.
L’impietosa crisi economica e politica di Berlino sta lì a dimostrarlo. Un paese concentrato sulle sue capacità competitive, con una decisa stagnazione dei salari, teso prevalentemente alle esportazioni di prodotti di qualità e di beni intermedi utili in particolare ad alcuni paesi emergenti come la Cina. Tale modello di potenza industriale competitiva finisce ora per arrancare. Recentemente la rivista Limes ha sottolineato come la Germania continui a costituire un’importante garanzia per il debito pubblico italiano e al contempo continui a ergersi a rigido disciplinamento dell’indebitamento altrui e proprio. Oggi, però, Limes evidenzia anche come la Germania sarebbe chiamata al grande salto dall’economicismo alla geopolitica per uscire dalla stretta in cui è finita con il suo unico orizzonte mercantilista. Debito e competitività insomma. Due temi che ci riguardano molto da vicino. A pagare, infatti, il prezzo della crisi tedesca ci sono anche paesi come l’Italia che costituiscono un anello del suo sistema industriale. Eppure l’austerità e lo smantellamento di una sfera pubblica sembrano ancora una prospettiva credibile in Europa.
Negli ultimi due anni Roma ha gioito di un tasso di crescita del Pil superiore a Berlino, pensando forse che fosse sufficiente far ripartire il turismo (segmento che indubbiamente sta aumentando il proprio valore nella produzione di ricchezza complessiva) per sostituire i limiti di una vocazione industriale. Ma neppure un paese turisticamente interessante come l’Italia può fare a meno della sua industria: non si sfama un paese delle nostre dimensioni unicamente con valanghe di turisti. Esiste un problema di sostenibilità complessiva.
L’industria nostrana fatica e il tasso di crescita previsto quest’anno attorno allo 0,6% (recentemente corretto al ribasso dall’Istat) ci parla proprio di tali difficoltà. Possibile, dunque, in Italia affrontare le intemperie globali a colpi di concorrenza e austerità? Senza l’aiuto dello Stato (per via della sua modesta capacità di spesa)? Una via politicamente regressiva e al contempo economicamente liberista? Necessario piuttosto sarebbe riorganizzare gli assetti ed equilibri economici, ripensando al ruolo del debito, a quanto e chi lo dovrebbe ripagare, ma anche alla funzione della domanda interna. Per non parlare di come sarebbe urgente affrontare i suddetti temi privilegiando un’ottica di riequilibrio dei redditi e della ricchezza, riducendo quelle insopportabili sperequazioni sociali da tempo affermatesi.
Tutti temi indubbiamente complessi, ma inaggirabili. Sebbene non siano esclusivamente italiani. Oppure si pensa che riconoscendo un’ulteriore dose di centralità all’impresa e all’imprenditore privati si possano superare le attuali gigantesche contraddizioni?
*Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, collabora con il manifesto ed è autore di saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre, 2014) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023).
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