La cultura nell’epoca dell’immersione
Il dilagare delle rappresentazioni immersive mette al primo posto le sensazioni individuali a scapito delle esperienze condivise e dei ragionamenti collettivi. Esiste una via d'uscita?
Cosa significa vedere un’opera da dentro? Di recente ho sperimentato Il giardino delle delizie di Hieronymus Bosch in realtà virtuale in un museo locale. Collegato l’auricolare, ho rotolato su una pista invisibile attraverso colline verdeggianti, oltre figure animate di angeli vendicativi e creature ibride, sussultando e salutando. Ho osservato il mondo di Bosch come se fosse illuminato dalle luci di Natale.
Il viaggio si è interrotto dopo circa cinque minuti, allora mi sono tolto gli occhiali, ho sbattuto le palpebre e mi sono strofinato gli occhi. Il formicolio della nausea ha lasciato il posto a un senso di delusione per la grafica di basso livello e l’animazione rudimentale. Non si era era trattato del brillante futuro promessoci in film recenti come Ready Player One, e di certo non è un posto in cui mi piacerebbe passare molto tempo. Come l’originale trittico attraverso il mare al Prado di Madrid, è fuorviante che si trovi in un museo, come se il tunnel degli orrori di un luna park venisse presentato come una mostra sull’aldilà.
Le tecnologie della realtà virtuale e aumentata fanno parte di un settore in crescita multimiliardario, evidenziato dal recente rebranding di Facebook di Mark Zuckerberg come Meta e dai suoi piani per costruire il metaverso, un mondo virtuale che esiste in tandem con il mondo fisico in cui dobbiamo «vivere, giocare e lavorare». Tuttavia, oltre al rumore e la pubblicità che circondano questo annuncio, qualcos’altro è sfuggito alla nostra attenzione: i modi più sottili in cui la realtà virtuale come forma simbolica – un modello per il mondo e come la pensiamo – si manifesta sempre più nella cultura con la nascita di forme immersive di teatro, film, musica e arte.
L’industria dell’«intrattenimento immersivo», che comprende installazioni non digitali come stanze di fuga ed esperienze in cui il partecipante avverte un senso di presenza in un ambiente artificiale, è vasta e in crescita e abbraccia contesti come eventi dal vivo, spettacoli artistici e musei. DesignMyNight attualmente prevede non meno di trentuno diverse esperienze immersive a Londra, da un cocktail bar della prigione di Alcatraz a un «Wizard Exploratorium». Nel 2019, l’industria culturale immersiva statunitense è stata valutata 61 miliardi di dollari.
Nel Regno Unito c’è stato il successo commerciale di aziende specializzate in proiezioni di film immersivi (Secret Cinema), teatro (Punchdrunk) e, sempre più, musica dal vivo. Esiste un’industria redditizia nel commercio delle esperienze di Van Gogh (cinque distinte aziende nel 2021 gestiscono pop-up in città di tutto il mondo, due delle quali a Londra). Qui i visitatori «entrano» in un dipinto di Van Gogh – tipicamente lo spazio industriale dismesso all’interno del quale vengono proiettati suoi dipinti – cui a volte si aggiungono profumi per «trasportare le persone in frutteti, giardini e campi». Cosa significa «entrare» in un’opera d’arte? Poiché la scala, la composizione e il colore sono impossibili da misurare, l’unica destinazione off-limits sono i dipinti stessi.
Il marchio di teatro immersivo di Punchdrunk adotta un approccio Scegli la tua avventura col quale il pubblico esplora individualmente un set a più piani, portando a una miriade di combinazioni di narrazioni ed esperienze. Sebbene un’esperienza atomizzata come questa possa essere eccitante per ogni partecipante, inevitabilmente sostituisce l’esperienza sociale di vivere insieme la stessa performance, rendendo individuali opere che erano state precedentemente condivise.
Come dice il protagonista di Ready Player One dopo aver indossato una cuffia, «Non hai bisogno di una destinazione quando corri su un tapis roulant omnidirezionale». Per Raymond Williams, la fantascienza popolare rappresentava «il desiderio soppiantato dall’alienazione»: la trasformazione che offre non è sociale o morale, ma quella della natura stessa: «la società alternativa è sulla luna di un pianeta lontano».
Influenzati dai videogiochi e dai giochi di ruolo fantasy, gli esperimenti nel cinema VR consentono agli spettatori di scegliere dove guardare in una determinata scena e come interagire con oggetti e personaggi. Save Every Breath, un adattamento VR del film Dunkirk di Christopher Nolan, fa sedere lo spettatore letteralmente sul sedile del pilota mentre missili e proiettili squarciano il cielo. Centoventisei anni di storia del cinema e siamo tornati alla stazione di La Ciotat ad assistere all’arrivo del treno dei fratelli Lumière.
In effetti, il cinema in VR è ancora alle prese con problemi fondamentali come il «paradosso narrativo»: l’azione individuale e la personalizzazione dello spettatore compromettono il controllo della narrazione da parte del regista (per questo motivo il formato del libro di gioco non è ampiamente utilizzato nella narrativa letteraria) e lo spettatore Fomo avverte l’ansia per la mancanza di elementi importanti della storia, che porta a frustrazione e basso coinvolgimento emotivo.
Un buon libro, una commedia o un film possono essere avvincenti, consentendo alla nostra immaginazione di impegnarsi e prendere il volo, ma raramente ci sommergono; c’è ancora spazio per la riflessione e la contemplazione. Privilegiando l’immediatezza e l’affetto, l’immersione ci richiede di sottometterci ai nostri sensi. Ma la cultura non è solo una questione di sensazione. È anche un modo per conoscere e comprendere il mondo. L’immersivo preclude il discorsivo riducendo la distanza necessaria per la critica.
La cultura immersiva ha dunque un potenziale più creativo e progressista? Nel recente lavoro VR di Laurie Anderson Chalkroom, creato con Hsin-Chien Huang, lo spettatore vola attraverso un’enorme struttura nera fatta di parole, disegni e storie. Le caratteristiche intrinseche di disincarnazione, dislocazione e isolamento diventano punti di forza dell’opera. In Habeas Corpus, Anderson ha usato la telepresenza per trasmettere l’immagine dell’ex prigioniero di Guantanamo Mohammed el Gharani, a cui è ancora vietato l’ingresso negli Stati uniti nonostante sia stato rilasciato senza accusa nel 2010. La sua presenza virtuale dal vivo come parte di un’installazione immersiva ha avuto un chiaro messaggio politico. Massimizzando le possibilità di disincarnazione e presenza insite nella tecnologia, Anderson propone nuove modalità creative per la tecnologia immersiva. Eppure la logica strutturale dell’industria culturale lascia ai margini un lavoro più sperimentale e stimolante come questo.
Le tecnologie che produciamo producono anche noi, plasmando non solo la cultura in quanto tale ma anche il modo in cui la viviamo. Le esperienze immersive non dovrebbero sostituire le forme di cultura comuni e discorsive, o il piacere e la discussione del lavoro collettivo. Poiché l’immersione diventa un paradigma culturale sempre più dominante, è importante togliere l’auricolare, uscire e riemergere.
*Adam Stoneman vive e lavora a Londra. Scrive su thecolumn.net. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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