La democrazia e il potere del capitale
Intervista a Yanis Varoufakis sulla guerra a Gaza, il ruolo dei movimenti nella lotta per la pace e la giustizia ambientale
Negli ultimi mesi sono cresciute ovunque le mobilitazioni in solidarietà con il popolo palestinese. In Germania, in occasione del Congresso per la Palestina a Berlino, a Yanis Varoufakis è stato impedito di intervenire in una videoconferenza, con persino un divieto al suo ingresso fisico nel paese. L’ex ministro delle finanze greco è da diverso tempo attivamente impegnato con Diem25 – l’organizzazione paneuropea critica dell’Ue e delle sue politiche da lui fondata – nel sostegno alla Palestina e nella denuncia delle politiche genocidarie di Israele, così come della complicità di tutto l’Occidente.
All’interno degli Stati membri dell’Unione europea la repressione del dissenso si sta intensificando sempre di più, con governi come quello tedesco – di centrosinistra – che impediscono le manifestazioni per la Palestina contro il genocidio in corso, arrivando anche ad arrestare attivisti ebrei anti-sionisti come quelli di Jewish voices for peace, i quali si sono visti bloccare il proprio conto bancario. Anche lei e il rettore dell’università di Glasgow siete stati destinatari di una sospensione all’ingresso in Germania, dietro l’accusa di antisemitismo. In tutta Europa chiunque critichi Israele, il suo regime di apartheid e chieda l’immediato stop al genocidio viene tacciato di antisemitismo, in un crescendo di islamofobia da parte di coloro che sono al potere. Cosa sta succedendo?
Fino a un paio di mesi fa non pensavo che fosse possibile che lo Stato tedesco arrivasse a impedirmi l’ingresso nel paese, soprattutto alla luce della mia partecipazione a un evento per lo stop al genocidio e per la pace. Il fatto che il divieto sia stato esteso anche alla mia partecipazione digitale a eventi nel paese, non fa altro che aumentare l’assurdità di quanto siano disposti a fare per silenziare le voci per la Palestina e per la pace.
È ormai evidente che non ci sono limiti a quanto questa Europa sia disposta a fare per mettere a tacere qualsiasi voce che non si presti a questo gioco. La ragione di ciò sta nella trasformazione dell’Unione europea in un’Unione di guerra, dell’Ue in un burattino della Nato.
Josep Borrell, alto rappresentante degli affari esteri dell’Ue, ci ha dato un’anteprima del passaggio dal cosmopolitismo a una forma di etnoregionalismo quando ha descritto l’Ue come un bel «giardino» minacciato dalla giungla non europea annidata fuori dai suoi confini. Più recentemente, il Presidente francese Emmanuel Macron e Charles Michel, Presidente del Consiglio europeo, hanno chiesto agli europei non solo di prepararsi alla guerra, ma soprattuttodi fare affidamento sulla propria industria delle armi per l’avanzamento tecnologico e la crescita economica dell’Ue. Avendo fallito nel convincere la Germania e i cosiddetti Frugal Four [Danimarca, Svezia, Olanda e Austria, i paesi schierati per una linea più restrittiva rispetto ai fondi del Recovery Fund, ndr] sulla necessità di un’unione fiscale, la loro disperata posizione di ripiego è adesso il sostegno a un’unione militare. I nostri partiti Mera25 [il nome condiviso da tutti i partiti politici nazionali di Diem25, Ndr] in Germania, Italia [dove ha aderito alla lista Pace, Terra e Dignità, Ndr] e Grecia e i nostri alleati Clare Daly e Mick Wallace, tutti candidati in queste elezioni europee, considerano la nostra opposizione a questi piani come una delle più importanti battaglie politiche nel prossimo Parlamento europeo.
I suoi ultimi studi si sono focalizzati sul rapporto tra tecnologia e sistema economico, portandola a coniare il concetto di tecnofeudalesimo. Israele nella sua azione di occupazione militare dei territori palestinesi fa un largo uso della tecnologia militare, di complessi software e Intelligenza artificiale, tutti prodotti principalmente all’interno degli atenei israeliani a loro volta fondati sull’espropriazione delle terre palestinesi e su un sostegno quasi del tutto acritico alla costante espansione dello stato israeliano. Così si produce una conoscenza che dall’ingegneria all’archeologia, passando per le scienze dure, legittima e alimenta l’azione militare israeliana e il genocidio. Cosa ci dice un’analisi di questo tipo sulla tecnologia e la produzione di conoscenza in un contesto capitalistico in guerra?
Non sono d’accordo con la tua premessa: Israele non ha sviluppato le sue armi hi-tech in modo indipendente così come non ha sviluppato le sue bombe, i suoi jet, carri armati e missili in maniera indipendente. Ogni importante tecnologia che Israele ha adottato nella soppressione e nell’uccisione dei palestinesi arriva dagli Stati uniti.
Quello che ha fatto Israele è stato sviluppare le proprie impressionanti capacità di ricerca e sviluppo per permettere all’Idf, le forze di difesa israeliane, e alle altre agenzie statali di modificare e far evolvere le tecnologie statunitensi. E si è specializzata nella sorveglianza algoritmica o basata su cloud. Comunque non c’è dubbio che Washington DC potrebbe spegnere con un click l’hi-tech israeliano, esattamente come Elon Musk se lo decidesse potrebbe spegnere la vostra scintillante Tesla.
È questo il motivo per cui in Tecnofeudalesimo, il mio ultimo libro, mi soffermo poco su Israele: non è un attore nello scontro tra i due paesi che hanno il duopolio del cloud capital: Stati Uniti e Cina.
Il settore della conoscenza non è però l’unico che ha legami particolarmente serrati con Israele. Le aziende di combustibili fossili occidentali, tra tutte anche l’italiana Eni, vedono infatti Israele come uno dei partner commerciali considerati come più «realiable», affidabile, nel contesto mediorientale, continuando a stringere accordi per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi, nello stesso mare territoriale palestinese. Anche l’Unione europea con il RePowerEU considera Israele un partner strategico fondamentale. Il neocolonialismo energetico rinforza le strutture di oppressione. Questa Unione europea nel suo funzionamento continua dunque ad avere delle radici fortemente eurocentriche e di matrice colonialista. Come Diem e Mera25, dite sempre che questa Europa o verrà democratizzata o imploderà e sicuramente non possiamo essere un giardino – come dichiarato da Borrell – mentre fuori contribuiamo a bruciare il futuro di interi popoli, armando i loro oppressori. Che futuro abbiamo davanti e come possiamo rompere le catene del fossile che alimentano il neocolonialismo?
Senza pace e giustizia ambientale non c’è futuro. Negli ultimi decenni abbiamo permesso all’energia di essere privatizza, di diventare un monopolio privato. L’energia è un bene essenziale, non possiamo vivere senza. Questo significa a sua volta che le compagnie private che possiedono il settore energetico accumulano potere, riuscendo a imporre ai governi accordi per la trivellazione dei nostri mari alla ricerca di combustibili fossili e accordi con Stati genocidi come Israele. La risposta è semplice ma implica una grande battaglia: l’energia deve tornare a essere un bene comune, interamente di proprietà del settore pubblico, che operi per il bene collettivo e non per il profitto. Ai capitalisti non interessa l’ambiente. A loro interessa solo il profitto. Dobbiamo riappropriarci del settore energetico.
Il genocidio in Palestina sembra essere il punto di caduta di una serie di crisi del sistema di oppressione: dalla conoscenza al complesso militare-industriale, fino all’energia. In tutto il mondo emergono mobilitazioni, soprattutto nelle università – anche qui in Italia gli studenti sono in fermento – a supporto del popolo palestinese per chiedere il boicottaggio accademico e produttivo delle università israeliane e di Israele. Qualcuno ha parlato di un nuovo ‘68. Lei che è anche professore universitario, come vede queste manifestazioni per il boicottaggio accademico?
Mi riempiono di speranza e ottimismo. Mi riportano alla mente le memorie dello storico movimento contro la guerra in Vietnam negli Stati uniti e la ribellione del Maggio del ‘68. L’onda di censura e repressione scatenata dagli Usa, ma anche dai governi dell’Ue, in supporto alla macchina da guerra israeliana alle spese degli intellettuali, di chi protesta e di ogni voce per la pace, non piegherà il movimento per la solidarietà alla Palestina. Al contrario, i movimenti studenteschi stanno guadagnando slancio in tutto il mondo e l’elemento chiave per la necessaria crescita è la partecipazione, insieme agli studenti, dei sindacati e dei movimenti dal basso per la pace.
Il boicottaggio di Israele è fondamentale. Diem, Mera25 e io personalmente, abbiamo dei legami stretti con Bds, il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. Bds sostiene il semplice principio per il quale i palestinesi hanno gli stessi diritti del resto dell’umanità. Per dimostrare questo principio, Bds chiede il boicottaggio dei beni e dei servizi israeliani da parte di tutti noi cittadini, consumatori, accademici, per fare pressione su Israele affinché rispetti il diritto internazionale. Possiamo contare solo sulla nostra classe, i nostri governi sono pienamente in linea con gli interessi degli oligarchi e dell’establishment Ue e della Nato.
Tutte le forme di oppressione si alimentano a vicenda. Dovremmo avere la capacità di superare una serie di frammentazioni nelle mobilitazioni e contribuire a costruire una convergenza per insorgere. In Italia i lavoratori portuali del Calp nei loro scioperi portano avanti rivendicazioni antimilitariste rifiutandosi di imbarcare le armi, i SiCobas – altro sindacato di base – si muovono nella logistica per boicottare Carrefour e altri grandi aziende con legami in Israele e i lavoratori del collettivo Gkn manifestano chiedendo una riconversione industriale pubblica della loro fabbrica per la transizione ecologica. Quest’ultimo Collettivo sta dando vita a mobilitazioni con la comunità palestinese e con i movimenti per il clima, con l’obiettivo di convergere tutti insieme per insorgere, come fatto nella manifestazione del 18 maggio a Firenze. Per il primo giugno diversi gruppi si stanno organizzando per una manifestazione generale a Roma. Come possiamo alimentare queste fiamme, superare le divisioni e provare in Europa a definire dei momenti che abbiano l’obiettivo di convergere per insorgere, bloccando l’economia della guerra e definendo un’agenda contro-egemonica rispetto a quella delle classi dominanti?
Stando al fianco dei movimenti dal basso che stanno emergendo adesso in Europa, che chiedono la giustizia ambientale e la pace e chiaramente con i sindacati. La classe dominante usa la paura per controllare le masse, noi, come vera sinistra radicale, dobbiamo rompere questa paura con la visione di un’utopia tangibile. La nostra rivoluzione deve usare la tecnologia che le Big Tech stanno sviluppando, che può garantirci i mezzi per comunicare, cooperare e per colpire l’Impero del capitale in lungo e in largo. Tutto quello che dobbiamo fare è usarla per unirci e per rendere il sogno impossibile un piano di buon senso. Ma cosa significa in pratica rovesciare l’Impero del capitale? Come può l’umanità reclamare i suoi beni comuni saccheggiati sulla terra, negli oceani, nell’aria e presto anche nello spazio?
In due modi: legiferando per far sì che le aziende appartengano a coloro che vi lavorano, sulla base del principio «un dipendente, una quota, un voto». E negando alle banche il monopolio sulle transazioni dei cittadini. Le banche e i profitti a quel punto si esauriranno come forze trainanti delle nostre economie, perché saranno disinnescate e la distinzione tra profitti e salari non avrà più senso: tutti saranno azionisti alla pari delle aziende in cui lavorano. La morte simultanea del mercato delle azioni e del mercato del lavoro, insieme al disinnesco delle banche, automaticamente re-distribuirà il benessere, rendendo possibile l’offerta di un reddito di base a tutti e, come magnifico sottoprodotto, rimuovendo gli incentivi dei salari di guerra. La fine del potere del capitale sulla società permetterà alle comunità di decidere collettivamente su sanità, istruzione e investimenti per salvare l’ambiente dalla nostra crescita virale. Sarà finalmente possibile una vera democrazia, da praticare nelle assemblee dei cittadini e dei lavoratori, e non a porte chiuse dove si riuniscono in segreto gli oligarchi.
Questa duplice democratizzazione, del capitale e del denaro, sembra un sogno impossibile. Ma non è più impossibile di quanto lo fossero un tempo le idee del diritto di voto universale e della fine dei diritti divini per i re.
*Ferdinando Pezzopane studia Scienze Internazionali, dello sviluppo e della cooperazione presso l’Università degli Studi di Torino, è attivista del Collettivo di Comunicazione Chrono. Si interessa di lavoro, ecologia e del loro rapporto conflittuale con il sistema capitalistico.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.