La destra, da sola, non può uccidere il futuro
Quasi un diario del quartetto elettorale che ha unito Francia e Gran Bretagna con un occhio all’Italia e agli Usa. La morte cerebrale del centrismo liberale e le possibilità che si aprono per una sinistra che sia radicalmente riformista
Roma, 10 giugno 2024
Chi l’avrebbe mai detto. Mesi di editoriali che ci spiegavano che il «radicalismo» di Elly Schlein avrebbe condotto il Pd al disastro, e invece… Non ho seguito la campagna elettorale con entusiasmo. Sul piano tattico, la composizione delle liste del Pd aveva senso, e ha funzionato. Ognuno poteva votare il suo, senza troppo imbarazzo. C’erano i candidati «pacifisti» e quelli «occidentalisti», e si poteva scegliere secondo le proprie convinzioni. La segretaria ha fatto il possibile per galvanizzare i militanti, lasciando sullo sfondo le domande imbarazzanti. Alla fine erano tutti contenti, il Pd ha presentato l’immagine di una «grande chiesa» – come cantava il bardo della mia generazione – e per dividersi ci sarà occasione una volta assicurata la propria presenza a Bruxelles. Schlein, per il momento, ha consolidato la sua leadership, e questo non mi dispiace.
Come previsto, è partita subito l’operazione di salvataggio dei naufraghi del Terzo polo. A lanciarla, e anche questo era prevedibile, sono alcuni europarlamentari appena eletti nelle liste del Pd. Gli stessi che nei mesi precedenti avevano criticato il «radicalismo» di Elly Schlein, oggi invocano il ritorno a casa di due figlioli (prodighi soprattutto di critiche al Pd) che si erano alleati, e poi separati, andando alle urne ciascuno per la sua strada. Entrambi si sono schiantati sulla soglia di sbarramento, ma questo insuccesso pare sia un titolo di merito per quei «riformisti» che affermano che non c’è alleanza possibile, a sinistra, senza Matteo Renzi e Carlo Calenda.
Non è facile trovare una spiegazione politicamente sensata (e moralmente accettabile) di questo attaccamento a due leader che – pur potendo contare su discrete risorse e ampio sostegno da parte della stampa – sono riusciti, ciascuno a modo suo, a sprecare il proprio capitale politico, fino a ridursi all’irrilevanza elettorale, certificata dall’esclusione dal Parlamento europeo. Un risultato che dovrebbe spingere Elly Schlein a starne ben lontana, non certo ad accoglierli a braccia aperte in un’alleanza. D’altro canto, se si prende in considerazione la realtà, è difficile immaginare che il Terzo polo (sia nella versione fiorentina, sia in quella romana) possa offrire al momento attuale una prospettiva politica credibile per la sinistra.
Questo non perché gli esponenti del Terzo polo siano «riformisti» mentre Schlein è «massimalista». La sinistra, in democrazia, è riformista nel metodo, ma le ricette del riformismo della fine degli anni Novanta, cui si richiamano sia Renzi sia Calenda, non sono più proponibili. L’Italia fatica a venir fuori dagli effetti combinati della «policrisi» che, dopo aver fatto scempio di quel che rimaneva del modello socialdemocratico, sta colpendo direttamente le aspettative di benessere e di vita di una parte consistente del ceto medio. Renzi e Calenda, visti in una prospettiva più ampia, sono come due soldati giapponesi che, ciascuno sulla propria isola, continuano a difendere l’impero del Sol levante, ma quel sole è al tramonto. Sull’onda di anni di inesorabile impoverimento, e della legittimazione (prima tacita, poi sempre più esplicita) della destra radicale da parte dei moderati, il modo di intendere la sinistra che essi continuano a interpretare è fuori dalla storia. L’idea che la sinistra liberale sia quella che sta sempre dalla parte del datore di lavoro, visto non come parte di un rapporto potenzialmente conflittuale ma come benefattore da coccolare per evitare che delocalizzi, si è rivelata fallimentare. Ha condotto all’indebolimento dei lavoratori dipendenti, alla marginalizzazione dei sindacati e a un lavoro sempre più precario. Cercare di coprire questa realtà con il newspeak neoliberale (il lavoratore dipendente come imprenditore di sé stesso, la precarietà come flessibilità) non funziona più al cospetto di diseguaglianze che crescono in maniera sempre più evidente.
Neppure sta funzionando il tentativo, su cui gli esponenti del Terzo polo (e i loro sodali rimasti nel Pd) si sono distinti, di coprire il proprio vuoto di idee e di prospettiva politica resuscitando una versione aggiornata del Cold War Liberalism. Al netto delle dichiarazioni bellicose, e delle campagne ben poco liberali contro intellettuali e giornalisti accusati di intelligenza col nemico, i «riformisti» hanno spianato ulteriormente la strada alla destra, senza convincere i propri elettori che la diplomazia e gli sforzi per costruire la pace, anche in circostanze difficili, siano cose moralmente indegne. Questo non ha aiutato gli ucraini, e ha contribuito a fare del nostro paese un complice delle scelte scellerate del governo israeliano. Lo spettacolo dei liberali contro il diritto internazionale e per l’impunità di chi commette crimini di guerra è stato l’ultimo chiodo che ha sigillato la bara in cui è stata seppellita la credibilità politica e la dignità morale del Terzo polo.
Quello della sinistra è in molti paesi un cantiere aperto. Sono convinto che il meglio della tradizione liberale, quella che risale a Kant, possa ancora fornire materiali utili per la ricostruzione di una politica egualitaria e solidale. Ma si tratta di un lavoro difficile, che andrà fatto in condizioni durissime, senza garanzia di successo. La scelta dei compagni è in questo momento cruciale, e dei naufraghi della «terza via» possiamo serenamente fare a meno. Non mi faccio illusioni, tuttavia, perché per nel Pd il momento della scelta dei compagni è sempre domani. Intanto si cerca di sopravvivere.
Parigi, 29 giugno – 1 luglio 2024
Le elezioni europee hanno mandato in crisi l’equilibrio della politica francese. La formazione che fa capo al presidente della Repubblica è andata piuttosto male, mentre crescono i consensi del Rassemblement National di Marine Le Pen. Sorprendendo tutti e, pare, senza consultarsi con nessuno, Emmanuel Macron ha deciso di sciogliere l’Assemblea nazionale e di convocare nuove elezioni nel giro di poche settimane. La tattica è sempre la stessa. Imporre agli elettori una sorta di «giudizio di Dio», costringerli a scegliere tra la destra nazionalista e xenofoba e il centro, con il sostegno di quel che rimane della sinistra di origine socialista, e magari di qualche partitino ambientalista. La solita stampa italiana ha un momento di entusiasmo per Raphael Glucksmann, il leader di Place Publique. Un «riformista» come si dice a Roma. Un quotidiano di destra, che da anni spiega alla sinistra come dovrebbe comportarsi per essere accettabile a chi sta già bene (e non vede ragione di cambiare le cose), pubblica due interviste, una al politico francese, l’altra a Keir Starmer, segretario del Labour. Fortissime vibes di «terza via». Del resto in Italia questa torna a ogni cambio di stagione, e il sapore agrodolce della nostalgia per un mondo più comprensibile ha per un momento il sopravvento. Poi, il colpo di scena. La sinistra francese mette in piedi a tambur battente un’alleanza cui aderiscono i Verdi, i Comunisti e la formazione di Mélenchon (la bestia nera dei riformisti romani). Dopo qualche tentennamento, anche Glucksmann aderisce. Repentino calo d’interesse per lui da parte dei riformisti italiani. Probabilmente in Francia si sono resi conto che Macron conta sulle divisioni della sinistra per mettere ai margini Mélenchon (per lui un «estremista» come Le Pen) e per sottomettere gli altri.
L’operazione appare disperata, eppure la macchina elettorale del Nuovo Fronte Popolare (Nfp) si mette in movimento, sotto lo sguardo benevolo di Léon Blum (con tutta evidenza la sinistra francese, razionalista e illuminista, non è superstiziosa). Ci sono anche adesioni non scontate, figure di garanzia come l’ex presidente della repubblica socialista François Hollande (che certo non è un estimatore di Mélenchon, sentimento ricambiato indubbiamente).
In cerca di stimoli, mi trasferisco per qualche giorno a Parigi per seguire le ultime ore di campagna elettorale. Le previsioni annunciano pioggia, ma sono accolto da un sole splendente e da un bel venticello. Contrariamente alle aspettative, l’atmosfera nella capitale è placida. Al quinto arrondissement c’è poca gente in giro, per lo più studenti e qualche turista, nei bistrot vicino al Panthéon si trova posto senza difficoltà, e questo mi consente di dedicarmi alla mia attività preferita. Nei quartieri del centro c’è qualche manifesto, ma la campagna, vivacissima, si svolge sui media.
Gabriel Attal, capo del governo, macroniano, fa ciò che deve senza troppa convinzione. Brillano invece alcuni esponenti del Nfp. Marine Tondelier, dei verdi, è la star della campagna (suscita polemiche, e non fa buona impressione, il fatto che il candidato primo ministro della destra, Jordan Bardella, si rifiuti di affrontarla in un dibattito). Manon Aubry, capogruppo europea della France Insoumise, sembra essere ovunque, in strada e negli studi televisivi. Mélenchon si tiene in disparte, ma quando parla fatica a tenersi. Hollande sembra godersi un sacco questo ritorno alla politica attiva. Visita fabbriche e incontra potenziali elettori in luoghi che sembrano il set di uno degli episodi del Maigret di Bruno Cremer.
La stampa conservatrice fa il suo lavoro cercando di spaventare i possidenti. Gli argomenti sono gli stessi ovunque: alzeranno le tasse, faranno arrivare orde di migranti, dilapideranno le finanze pubbliche. In realtà il programma elettorale del Fronte è ambizioso, ma tutt’altro che massimalista. Misure che un tempo sarebbero state considerate banalmente socialdemocratiche, con quel tanto di decenza e rispetto dei diritti umani che ti aspetti dalla sinistra.
Marine Le Pen cerca di giocare la carta dell’antisemitismo, ma detto da lei la cosa non suona convincente. La giornata del voto a Parigi trascorre tranquilla. Purtroppo è andato via il sole, e questo per me (che sono illuminista, ma pure meridionale) non ha un buon effetto. Mi consolo visitando librerie, a Parigi ce ne sono probabilmente più che a Roma e a Milano messe insieme. Quando vengono pubblicati i primi exit poll l’atmosfera cambia. Rassemblement National primo, come si temeva, ma il Fronte Popolare va molto meglio del previsto, Ensemble di Macron si conferma in difficoltà, in gran parte dei collegi terzo partito. A tarda notte la sinistra francese festeggia, come tradizione, sotto la statua della Marianna in Place de la République. La mattina dopo riparto per Milano. In viaggio leggo il numero speciale di Le Monde che pubblica i risultati. Si prospetta la possibilità di accordi di desistenza. All’orizzonte c’è un nuovo Fronte Repubblicano, ma stavolta a trazione sinistra.
Milano, 4 – 9 luglio 2024
Appena il tempo di disfare la valigia e di fare un bucato, e siamo alle prese con nuove elezioni. Stavolta nel Regno Unito. Nel 1997, quando Blair vinse trionfalmente, ero a Loughborough. Col senno del poi le cose non sono andate benissimo, ma sono affezionato al Labour, quindi seguo le ultime fasi della campagna e la nottata elettorale con un certo interesse. Non tanto per il risultato, che è scontato, ma per seguire alcune cose che mi sembrano interessanti: come andranno gli «indipendenti» a sinistra, che si candidano in polemica con la linea del partito su Gaza? Che risultato avranno gli altri? Come molte certezze della mia gioventù, anche il «modello Westminster» è andato in frantumi. Sopravvive – un fantasma più che un’utopia – solo nell’immaginario di certi riformisti italiani. Alla fine il Labour va benissimo, maggioranza schiacciante di seggi. Tuttavia, guardando al voto la faccenda è un po’ più complessa. Alcuni «indipendenti» entrano in parlamento, tra questi anche Jeremy Corbyn, e lo stesso Starmer vede i suoi consensi sensibilmente ridotti da Andrew Feinstein. Non proprio un segnale incoraggiante per un futuro primo ministro. Ad aprire la strada alla «landslide» laburista sono probabilmente più le divisioni del fronte della destra (il partito di Nigel Farage, Reform, va bene). La mattina del 5 luglio, Starmer entra a Downing street ripetendo ossessivamente che ci sarà un cambiamento, e che esso è reso possibile perché il partito è cambiato. Per ora la direzione non è chiara. Si capisce che il team laburista si è preparato molto bene in vista del ritorno al governo. La preoccupazione principale è non spaventare gli investitori (che sono ormai un secondo collegio elettorale, dai confini indefiniti, ma che nessun leader progressista può permettersi di ignorare). Tra le righe, però, ci sono novità interessanti: nazionalizzazione delle ferrovie, un ministro con delega al sistema carcerario con idee innovative e molto progressiste, qualche segnale di un nuovo tipo di intervento pubblico (Mariana Mazzucato viene indicata come un punto di riferimento per queste politiche pubbliche di nuovo conio).
Un altro dato interessante riguarda la situazione a Gaza. Starmer non ha ancora fatto il trasloco nella sua nuova residenza, ma ci sono già diverse voci autorevoli che dall’interno del partito segnalano l’esigenza di un cambio di passo. David Lammy, il nuovo Foreign Secretary, chiede un cessate il fuoco immediato e in prospettiva il riconoscimento della piena sovranità palestinese. Magra consolazione per chi ha perso dei congiunti nel bombardamento di un’altra scuola sabato. Però la situazione è in movimento, e questo mi pare un motivo di (cauta) speranza.
Mentre gli israeliani continuano a bombardare Gaza, a Parigi si vota di nuovo. Tutte le previsioni danno il Rn come primo partito, quindi seguo il dibattito di France 24 in attesa della prima proiezione, alle 20.00 di domenica sera, preparandomi al peggio. Negli ultimi anni mi sono allenato molto, quindi mi riesce abbastanza bene. Quando finalmente viene mostrata la prima proiezione sui seggi ho una sorpresa: il Nfp primo, seguito dai macronisti e dalla destra. Stavolta la gatta ci ha lasciato lo zampino. Macron ha scommesso sulla sinistra divisa per consolidare la propria posizione in Parlamento, dove non aveva la maggioranza, e ora si trova in una situazione difficile. Per una sera a Parigi si festeggia, e anche qui a Milano ci concediamo un brindisi.
Vado a letto pensando ai prossimi giorni. Nessuno ha la maggioranza, ma stavolta dovrebbe essere la sinistra a guidare il governo. Per un anno non si può sciogliere il Parlamento, quindi le alternative (escludendo un accordo con la destra), sono un governo di minoranza del Nfp, oppure una cosa inedita per la politica francese, ovvero una coalizione. Non è chiaro però chi possa guidarla. Non Mélenchon, che peraltro in campagna elettorale ha detto più volte che non avrebbe fatto parte di un eventuale governo. Allora chi? Apprendo su twitter che a Roma hanno già dato l’incarico a Glucksmann, ma la consistenza del suo partitino mi pare escludere questa possibilità. Hollande è stato rieletto, e dice cose molto di sinistra, ma quella di tenere insieme il Nfp e magari di trovare un accordo minimo con i macronisti (alcuni dei quali non sembrano proprio contenti della brillante mossa del presidente) non sarà una cosa facile. D’altro canto dividersi e annacquare troppo le proprie proposte potrebbe danneggiare seriamente la credibilità di un’alleanza che, bene o male, ha vinto.
Poi non bisogna dimenticare che il Rn rimane una presenza ingombrante nella politica francese, e Marine Le Pen ha mostrato di saper giocare sui tempi lunghi. Fermare la destra è una cosa importante, ma se non riesci a trovare il modo di interrompere l’afflusso dell’acqua che alimenta la pianta della xenofobia e del razzismo hai solo rimandato la resa dei conti.
In attesa di notizie sugli sviluppi in Francia ripenso ad altre cose accadute in questo mese elettorale. La sentenza della Corte Suprema Usa che attribuisce un’immunità molto ampia al Presidente, e che sembra pensata per mettere Donald Trump al riparo dalle conseguenze di atti illegali, e anche potenzialmente eversivi. La pessima prova di Joe Biden nel corso del dibattito televisivo ha portato allo scoperto quello che tutti sapevamo da tempo. Per sventare il pericolo di un candidato di sinistra, i centristi si sono affidati a un veterano con molti acciacchi, che ha fatto qualche cosa buona (in economia, nella politiche sociali) e alcune inaccettabili (Gaza), ma che ora è chiaramente arrivato al limite della sue capacità. Una vicenda penosa sul piano umano, ma della quale mi pare ingiusto attribuire tutta la responsabilità al presidente in carica. Da molti anni il centro non è più «vitale» (come diceva Arthur Schlesinger). Vegeta, perché c’è ancora una parte del collegio elettorale del censo che lo considera un garante dei propri interessi, ma le cose stanno cambiando, e novembre si avvicina.
A Parigi ho comprato un libro che da tempo mi ripromettevo di leggere: The Middle of the Journey (Viking Press, New York 1947). Un romanzo di Lionel Trilling, un intellettuale e critico letterario che ha avuto un’influenza notevole nel plasmare la mentalità del centrismo liberale statunitense negli anni della Guerra fredda. Leggendolo, domenica sera, mi colpisce questo passo, che descrive le riflessioni del protagonista John Laskell, alle prese con i dilemmi di un mondo in cui le utopie della sinistra devono fare i conti con la realtà di un mondo diviso in due:
Non intendeva dire che lui non aveva futuro. Voleva dire che il futuro e il presente erano una cosa sola – che il presente non poteva più immaginare e fabbricare il futuro proiettando in avanti, sotto forma di attesa e speranza, i desideri del momento presente. Non è che avesse «perso la speranza», ma solo che non faceva una distinzione tra ciò che ora aveva ed era e ciò che si aspettava di avere ed essere.
Poco più avanti, Trilling aggiunge:
Ciò che accadde a Laskell, all’improvviso, fu che si rese conto che non puoi vivere la vita delle promesse senza che tu rimanga un bambino. La promessa del futuro potrebbe avere la sua utilità come modo per sedurre il bambino verso la maturità, ma la maturità stessa significava che il futuro e il presente erano riuniti, e che tu stesso vivevi ora invece di prepararti e impegnarti per un giorno migliore a venire.
Difficile immaginare una rappresentazione più efficace di ciò che è diventato il liberalismo centrista dopo l’esaltazione della fine del secolo scorso. Biden si è formato in quell’ambiente culturale, e oggi ne palesa anche fisicamente lo stato terminale. Tutto ci dice che, senza promessa del futuro, le persone si attaccano al passato per trovare rassicurazione nei cambiamenti di un mondo in cui, contrariamente alle attese, la storia non si è fermata. La democrazia moderna nasce invece dalla promessa di un futuro migliore, e il liberalismo e il socialismo, al loro meglio, hanno cercato di «immaginare e fabbricare il futuro proiettando in avanti, sotto forma di attesa e speranza, i desideri del momento presente». Tentando di eliminare il futuro dalla politica, il centrismo sta indebolendo la democrazia. Alla fine potrebbe essere la destra a ucciderla, ma da sola non potrà farlo.
*Mario Ricciardi insegna Filosofia del diritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale di Milano. È stato direttore della rivista Il Mulino, attualmente è editorialista al manifesto.
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