
La lunga estate dei Public Enemy
Fight the Power è l’inno di una nazione che continua a frantumarsi sulla linea del colore, un coro a più voci che parla alla comunità afroamericana e a quella bianca, un’esortazione utile a comprendere la long story del 2020 statunitense
«The year is 2020, the number/ Another summer/ A little somethin’ to get down» canta Chuck D, frontman dei Public Enemy. La voce del rapper è più rauca, segnata dall’età, ma il pezzo – remix di Fight the Power del 1989 – brucia come la stazione di polizia di Minneapolis, tracima rabbia sociale, grida contro la permanenza delle violenze razziste nel paese a stelle e strisce. Il singolo ha anticipato la pubblicazione nel nuovo album What You Gonna Do When The Grid Goes Down?, che uscirà il 25 settembre 2020. A un primo ascolto risulta chiaro un elemento: nonostante siano passati più di trent’anni dalla sua pubblicazione, la potenza espressiva di Fight the Power ha ancora tanto da dire.
Quando venne pubblicata, Fight the Power fece da colonna sonora di Do the Right Thing di Spike Lee. Ciò che serviva al film, per esplicita richiesta del regista, un pezzo hip-hop provocatorio, che esprimesse la rabbia delle comunità delle minoranze vittima di scontri razziali. Ambientato in un piccolo quartiere di Brooklyn colpito da una estate particolarmente calda, la pellicola metteva in scena una storia di ordinaria follia e ordinario razzismo negli Stati uniti che faceva da mise-en-scène per i numerosi episodi di violenza, marginalità, discriminazioni che hanno costellato – e continuano a costellare – la storia afroamericana. A colpi di bassi e mixaggi, i Public Enemy riuscirono nell’impresa di rendere la collera antirazzista un pezzo rap senza precedenti. A sancirne l’importanza, un messaggio politico che affonda fino in fondo alle radici della storia radicale statunitense e nella tradizione di lotta afroamericana:
Dateci quello che vogliamo (uh)
Dateci quello di cui abbiamo bisogno (hey)
La nostra libertà d’espressione è ‘Libertà o morte’
Dobbiamo combattere il potere, qualsiasi esso sia
Fin dalla pubblicazione, Fight the Power è diventato uno slogan, un riferimento politico-culturale. Ripreso da gruppi come #BlackLivesMatter e dalla sinistra radicale statunitense, a marzo di quest’anno è stato anche dedicato dai Public Enemy a Bernie Sanders. Un endorsement non indifferente al candidato socialdemocratico del Partito Democratico sconfitto alle primarie democratiche da Joe Biden, che ben si sposava con la campagna anti-establishment e anti-Trump di Sanders. Ma da maggio in poi, gli Stati uniti hanno dovuto nuovamente fare i conti con la questione razziale e della violenza della polizia, iniziando così una lunga crisi per molti senza precedenti e che continua ancora adesso. L’omicidio di George Floyd, oramai quasi seppellito dal dibattito pubblico americano concentrato sulle elezioni presidenziali, è diventato il punto di partenza per le reazioni di protesta della comunità nera e dei gruppi di supporto, mentre gli episodi di violenza da parte della polizia, dei militari e della Guardia nazionale non hanno accennato a diminuire.
Alcuni commentatori hanno rivisto nelle manifestazioni violente e non dell’ultimo anno dei punti in comune con l’hot summer 1968, e dello stesso avviso è sembrato essere anche Trump, che su Twitter ha ripreso slogan di epoca nixoniana (Law and Order e Silent Majority) che hanno fatto da contraltare a una campagna presidenziale che ha bollato le proteste come criminali. Ma la realtà è che il concatenamento di violenze che hanno coinvolto la comunità nera e i corpi di polizia americani, non solo sono diversi dalle proteste degli anni Sessanta, ma non sono neanche episodi sporadici di cui «poche mele marce» sono i responsabili. Le violenze di questo paese hanno a che fare con una storia di lunga data, la stessa storia che i Public Enemy rimettono ancora una volta in scena con Fight the Power: Remix 2020. A renderla attuale non solo le barre aggiunte dagli e dalle artiste che hanno partecipato al remix, ma gli eventi. A renderlo attuale l’omicidio di Breonna Taylor, ventiseienne uccisa il 13 marzo durante un’operazione antidroga; la morte di George Floyd, soffocato a morte dalla polizia di Minneapolis il 26 maggio; gli innumerevoli episodi di violenza da parte della Guardia nazionale nei confronti dei manifestanti a Washington D.C.; l’esecuzione sommaria del ventinovenne Jacob Blacke a Kenosha, reso paraplegico da sette colpi di pistola esplosi da un poliziotto; a renderla attuale, il venticinquenne Kyle Rittenhouse, che dall’Illinois è partito armato alla volta di Kenosha, uccidendo due manifestanti durante le proteste scatenate dal caso Blacke. A renderla attuale, insomma, il lunghissimo elenco di violenze e omicidi a spese delle minoranze e che continuano a costellare la storia statunitense.
Sono passati quasi quarant’anni dall’estate dell’89 raccontata da Spike Lee, ma Fight the Power: Remix 2020 ne stabilisce una certa continuità. Quest’anno però l’esplosione di rabbia incontrollata, alimentata dalla violenza e dal razzismo, ha aumentato a dismisura la percezione – a posteriori – di una long hot summer. Quella raccontata dai Public Enemy, insomma, è una lunga estate iniziata a maggio e che non accenna a terminare. Fight the Power diventa quindi un monito radicale, l’inno di una nazione che continua a frantumarsi sulla linea del colore, un coro a più voci che parla alla comunità afroamericana e a quella bianca, un’esortazione collettiva di cui abbiamo tutti bisogno per comprendere la long story del 2020 americano. A Partecipare, alcuni tra gli esponenti più importanti del political rap, ovvero Nas, Rapsody, Black Thought, Jahi e YG i quali raccolgono lo scettro dei Public Enemy (dice Nas in una barra: la nuova generazione canta ancora Fight the Power). Sei versi, messaggi chiari, rabbia radicale e lucida: sintesi estrema di un anno violento.
Il messaggio dei Public Enemy è chiaro: si gioca col fuoco (canta YG: «Se non hai neanche provato [ad evitare] che la tua città andasse a fuoco/ Porta rispetto al nostro nome, [perché] veniamo dall’oro e dai diamanti»). Gli Stati uniti sono una polveriera pronta a esplodere, la comunità nera è sotto attacco, si rischia una rivoluzione e il giacobinismo è dietro l’angolo. A confermarlo, il primo verso di Nas, dal sound graffiante e dall’enorme carica ritmica:
È l’età dell’informazione
Gli farà vedere cosa c’è di davvero sbagliato in questi giorni razzisti
Onoro il forte e compatisco il debole
I tuoi pensieri conducono la tua vita, stai attento a cosa pensi
Haiti batte la Francia, un secolo, il Diciassettesimo
Onora Toussaint and Dessalines
E io amo la Francia, sai cosa voglio dire?
I riferimenti storici, in questo senso, non mancano. Le Pantere nere, ancora una volta, confermano la propria preminenza in qualità di riferimento politico contro le violenze della polizia. Nas, nel video ufficiale, sta seduto sulla peacock chair resa famosa da Huey P. Newton, Ministro della Difesa del Black Panther Party, e Rapsody, con addosso una giacca militare con su scritto Kaepernick, ricorda l’omicidio di Fred Hampton associandolo a quello di Breonna Taylor e George Floyd:
Amate Black Panther ma non Fred Hampton […]
George è stato ucciso per venti [dollari]
Pensaci (Pensa), che 2000 pennies
è il valore di una vita nera, il costo di andare da Wendy’s
Per un hamburger e finire uccisi
Combatti per Breonna e per il dolore di sua madre
Ma in questo scenario drammatico, dove i media statunitensi e non parlano di «opposti estremismi», di una seconda Guerra Civile imminente, quali le soluzioni radicali proposte dai rapper? La costruzione di legami solidali e la necessità di combattere contro i soprusi di un corpo di polizia che considera gli afroamericani dei nemici pubblici: questi i rimedi, le cure, lì dove la violenza e il razzismo strutturale si palesano come malattia. La solidarietà e l’educazione, queste le uniche vie da percorrere per compiere una rivoluzione che avvii gli Stati uniti verso il cambiamento sociale. Soprattutto: a ritornare dagli anni Sessanta, la necessità di educare gli e le statunitensi alla storia afroamericana, uno dei portati culturali più rilevanti e di lunga durata del movimento del Black Power. Particolarmente eloquenti le barre di di Black Thought, co-fondatore del duo rap The Roots:
Yo, la solidarietà è il motivo per cui mi vesto di nero
Per i compagni che hanno combattuto senza di me
Non lo faccio per fare un tentativo e per cambiare le vostre idee su di me
O per indirizzare a me i vostri report
Cari bianchi, dovreste seguire delle lezioni su di me […]
Voglio davvero sapere perché avete tanta paura
Probabilmente perché siamo quasi arrivati alla terra promessa
Guardate, penso alle immagini che hanno alimentato la mia gioventù
Influenzati da Craig Hodges e Abdul-Rauf
Esempi come le olimpiadi, saluto Black Power
[Penso] alle truppe della Pantera, vedo come ho raggiunto la mia verità
Se il razzismo è il cancro, il black thought è la risposta
Dovete alzarvi dalla veranda sul retro, emancipare le vostre menti
Già a giugno, i Public Enemy avevano fatto parlare di sé con la pubblicazione del singolo State of the Union, un attacco alla presidenza Trump a partire dagli eventi concatenatisi a partire da marzo. Dopo lo screzio tra Chuch D e Flavor Flav (poi rivelatosi un pesce d’aprile), i Public Enemy hanno attaccato duramente il presidente con un chiaro riferimento all’omicidio Floyd e anticipando molti dei temi ripresi in Fight the Power: Remix 2020.
Capelli arancioni, temono il pettine
Ecco un altro spavento, e fa tener loro le mani in alto
Meglio non respirare, non ti azzardi non osare
Non dire niente, non pensare a niente
Make America great again, è quello che l’uomo medio ama
Quando vuole parlare, vi porta tutti dritti ai forni
Nelle barre di State of the Union i Public Enemy avevano espresso la rabbia politica del fronte antitrumpiano, ripudiando del tutto la presidenza (Stato dell’Unione, chiudi quella cazzo di bocca/ Scusami motherfucker/ Devi starmi lontano). Ma in Fight the Power: Remix 2020 emerge chiaramente una finalità politica tesa a sottolineare l’importanza dei legami sociali e della presa di coscienza collettiva. È un appello, la ricerca di una strada alternativa a una situazione apparentemente senza via d’uscita e che la lotta contro il razzismo e le violenze deve fondarsi sui legami comunitari e sull’educazione all’altro. E, ancora una volta, i Public Enemy riaffermano la propria importanza nel farsi portavoce della rabbia della minoranza nera.
*Bruno Walter Renato Toscano, dottorando di storia all’Università di Pisa, si occupa di storia afroamericana e di storia del femminismo afroamericano. Ha condotto ricerche presso la University of Berkeley e la Stanford University ed è membro della redazione del blog C’era una volta l’America.
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