La musica rivoluzionaria all’altoforno
La storia del compositore Luigi Nono, che rivolse la sua arte agli operai delle acciaierie per raccontarne l'alienazione e portare l'opera in mezzo alla lotta di classe
È pregiudizio comune che i lavoratori non siano in grado di apprezzare la «cultura» nella forma di alta arte. L’avanguardia è per le classi superiori; i lavoratori e i poveri dovrebbero essere lasciati a godersi i successi da classifica, il prossimo film della Marvel Cinematic Universe o uno spin-off di Star Wars.
La storia della composizione musicale del 1964 La fabbrica illuminata, del compositore modernista italiano e membro del Partito comunista Luigi Nono, è una bella confutazione di questa tesi. Il lavoro di Nono è stato direttamente ispirato e attinto dalle sue osservazioni e interviste con i siderurgici genovesi; e gli operai di cui Nono drammatizzava la difficile situazione erano rapiti dal suo pezzo sperimentale, stimolante sia politicamente che musicalmente.
I primi anni Sessanta furono un periodo tumultuoso per la Repubblica italiana relativamente giovane, che nel 1961 aveva celebrato cento anni come stato-nazione unificato. Il paese aveva trascorso solo quindici anni come vera repubblica dopo il rovesciamento del regime fascista nel 1945. L’economia italiana era cresciuta costantemente dalla Seconda guerra mondiale grazie alla rapida industrializzazione alimentata da significativi investimenti pubblici: era il «miracolo economico». Nel sud, in gran parte agricolo, tuttavia, la mancanza di istruzione e gli scarsi salari contribuivano a difficoltà finanziarie che favorirono la criminalità organizzata e la corruzione istituzionale.
Molti lavoratori agricoli reagirono migrando verso nord, inseguendo la prosperità percepita di centri industriali come Torino, Milano e Genova. Durante il miracolo economico circa 1,3 milioni di agricoltori abbandonarono il sud per svolgere lavori pericolosi e poco pagati nella produzione di automobili e nella lavorazione dei metalli. Sebbene il nord industrializzato se la cavasse un po’ meglio dal punto di vista economico, c’erano ancora attacchi terroristici neofascisti e una dilagante avidità aziendale, in cima a una crescente «nuova mafia» che banchettava con l’aumento della domanda di droghe, alcol e tabacco causata dalla rapida urbanizzazione e dalle imprese del commercio.
Per questa nuova forma criminale, ogni mercato emergente era una fonte di reddito indispensabile. Le coalizioni operaie alle prime armi da nord a sud si sono trovate nel mirino della criminalità organizzata, così come dei tradizionali sostenitori del capitale come la polizia, i giudici corrotti e i lobbisti internazionali. I capitalisti, da parte loro, lottarono contro gli aumenti salariali ottenuti dai sindacati con aumenti dei prezzi per mantenere i loro margini di profitto, dirottando gli investimenti verso la speculazione immobiliare e la soppressione statale dell’azione sindacale.
I lavoratori e le lavoratrici italiane si spostarono bruscamente a sinistra e tra il 1959 e il 1963 scoppiò un’ondata di scioperi in tutto il nord. Questo periodo segnò la militanza sindacale più intensa che l’Italia avesse mai visto, superata in termini di ore di lavoro perse solo dagli scioperi dell’autunno caldo del 1969-1972, secondo lo storico del lavoro Roberto Franzosi.
Nel giugno del 1960, i lavoratori genovesi indissero uno sciopero generale per schierarsi con studenti e cittadini e per impedire un congresso neofascista che tentava di organizzarsi in città. Una rappresentazione del Mefistofele di Arrigo Boito fu annullata nel marzo del 1964 quando oltre quattromila lavoratori dell’Opera scioperarono per ottenere salari più alti. Più tardi, nel mese di luglio, trentamila ferrovieri bloccarono i treni a Roma per settimane, chiedendo salari più alti.
Forse la più importante di queste azioni sindacali fu lo sciopero selvaggio Fiat del 1963, che vide 6.200 uomini sfidare la leadership sindacale con interruzioni improvvise del lavoro. I lavoratori erano frustrati dalle concessioni che il sindacato aveva fatto per loro conto e dai problemi al di fuori del lavoro come l’aumento dei prezzi degli affitti e le condizioni di vita scadenti. Questo sciopero crebbe rapidamente fino a raggiungere oltre centomila lavoratori automobilistici in tutta Torino e contribuì a rendere popolare l’idea della classe operaia in Italia come blocco politico autonomo.
Ciò catturò e mantenne l’attenzione di Luigi Nono, allora voce emergente del comunismo e del sud del mondo all’interno dell’avanguardia europea. Nono, nato nel 1924, era cresciuto come un convinto antifascista ed era diventato comunista durante gli anni dell’università nell’Italia fascista di Benito Mussolini. L’approccio di Nono alla musica e alla politica seguiva l’idea di Antonio Gramsci dell’«intellettuale organico», artista o pensatore che sosteneva gli interessi della classe operaia contro l’influenza capitalista e imperialista nel mondo accademico, nelle arti e nel governo. Piuttosto che perseguire l’arte esclusivamente per l’arte, l’intellettuale organico vede l’arte come un’azione di classe.
Nono intravide un percorso verso la creazione di una presenza culturale della classe operaia attraverso la musica. Chiarì che le sue motivazioni non erano scrivere musica per sé stesso, ma per la classe operaia: «Il rapporto tra il creatore e le masse non deve più essere quello del professore con l’allievo, dell’iniziatore con il neofita. Devono trovarsi all’origine dell’opera». L’accessibilità e il messaggio esplicito erano fondamentali per la comprensione dell’arte di Nono.
Nono era un compositore per il quale l’atto di fare musica era esso stesso un atto politico, se non trascendentale. La musica non si limitava a integrare l’agitazione della classe operaia. Per Nono, fare musica sovversiva non era meno rivoluzionario che scontrarsi con la polizia antisommossa, e fece entrambe le cose. Spiegando il ruolo del musicista rivoluzionario, affermava che sono necessari «ordine spirituale, disciplina artistica e chiarezza di intuizione… [essere] un rivoluzionario con un’idea chiara della situazione in cui si trova chi è in grado di abbattere le strutture esistenti per far posto alle strutture che stanno crescendo al loro posto». Fu con questa propensione per l’abbattimento delle strutture che volse lo sguardo su Cornigliano, un quartiere occidentale di Genova.
Lo sciopero come fonte d’ispirazione
Nel maggio del 1964 oltre quarantamila metalmeccanici a Cornigliano scioperarono. Molti altri lavoratori siderurgici proclamarono scioperi in tutta Italia, lasciando operative solo poche fonderie e paralizzando il settore manifatturiero del paese. In cima alle richieste dei lavoratori c’era il rifiuto degli accordi di produttività e un aumento degli standard di vita e di lavoro: alle acciaierie di Cornigliano all’epoca c’erano alcune delle condizioni di lavoro più pericolose del Nord Italia. Il clamore era diffuso e catturò l’attenzione della nazione. Lo studioso di Nono Jonathan Impett scrive:
Sembrava che mentre il loro governo aiutava le aziende quasi monopolistiche a creare una ricchezza senza precedenti, i lavoratori italiani non vedevano un aumento del loro tenore di vita ma condizioni di lavoro sempre più dure. Si sentivano trattati dai loro datori di lavoro con disprezzo sponsorizzato dallo stato; i lavoratori siderurgici tedeschi guadagnavano il doppio.
Quando fu decisa un’altra serie di scioperi per giugno, Nono colse una finestra di opportunità. Lui e un gruppo di collaboratori avevano lavorato a un pezzo imponente intitolato Da un diario italiano, una composizione che sintetizzava citazioni di lavoratori siciliani, estratti dalla Seconda Dichiarazione dell’Avana di Fidel Castro e scritti del poeta antifascista Cesare Pavese. L’opera doveva essere ambientata in sei scene raffiguranti la storia recente dell’Italia; questa struttura in sei movimenti non era dissimile da una cantata di Bach, un compositore a cui Nono ha attinto ripetutamente.
Ogni scena era collegata a un evento mondiale ma veniva descritta senza specifico riferimento a dettagli storici. Probabilmente Nono scelse questa strada per evitare la censura e rendere la sua opera accessibile, pur mantenendo il messaggio politico del pezzo. L’Olocausto divenne «oppressione umana», la condizione del lavoratore divenne «incubo», il fascismo divenne «violenza», l’Italia dopo il fascismo divenne «gioia», la corsa agli armamenti nucleari divenne «catastrofe», una riscoperta umanistica del bene dell’umanità era «la vita che ritorna».
Cinque di questi movimenti vennero scritti abbastanza agilmente, dato il materiale originale scelto dal compositore. Ma il secondo movimento, «incubo», sembrava aver bisogno di un collegamento con il momento storico. Fu durante la trama di questo secondo movimento che Nono iniziò a considerare gli scioperi di Genova come fonte di ispirazione musicale.
A maggio, Nono aveva ricevuto un invito dalla Rai a scrivere un pezzo per il Prix Italia di settembre, uno dei più importanti concorsi di arte radiofonica in Europa. Quell’anno il Prix Italia si terrà a Genova, platea perfetta per l’esordio del secondo movimento di Un diario. Nono, insieme ai suoi collaboratori, il fonico Marino Zuccheri e lo scrittore Giuliano Scabia, preparò le attrezzature di registrazione e partì per le acciaierie di Cornigliano.
Il trio venne accolto da lavoratori ansiosi di guidarli nel loro rovistare sonoro. Per Nono, non era un safari osservare i lavoratori con compassione, ma uno studio delle reazioni e della condizione umana. «Sono rimasto scioccato non solo dallo spettacolo acustico e visivo apparentemente fantastico… Ma proprio dalla violenza della realtà delle complesse condizioni dei lavoratori in quei luoghi». I tre catturarono tutti i suoni che potevano trovare, dal rombo dell’altoforno alle conversazioni all’ora di pranzo con gli operai che rischiavano la vita per alimentarlo.
Fecero ritorno al loro studio a Venezia rinvigoriti per il progetto ma inorriditi dalle condizioni a cui avevano assistito. La presentazione di Nono al Prix Italia doveva essere un estratto del secondo movimento completamente realizzato, impostato su un testo esistente di Scabia. Lo avrebbe intitolato La fabbrica illuminata. Per questo lavoro a sé stante, mise in scena un soprano solo con un nastro magnetico reattivo, ambientazione molto più intima – e conflittuale – rispetto a Un diario.
Il risultato è un’opera inquietante e disumana di musica industrializzata, che mostra la macabra realtà della vita da schiavo delle fonderie. In apertura sul verso «La fabbrica della morte, la chiamano», il soprano agisce come una sorta di Virgilio attraverso i processi di alienazione e disumanizzazione. Come nel caso dei siderurgici di Cornigliano, non ha mai veramente il controllo sui dialoghi che si svolgono intorno a lei. Alla fine dell’opera, i suoni registrati dall’inizio vengono riportati indietro, ora sfigurati e consolidati con il coro infernale del rumore della fabbrica e le grida dei lavoratori. Non è più la sua voce, appartiene alla fabbrica.
Il pubblico viene trasportato nello spazio sonoro materico delle acciaierie e nel personale mondo di sofferenza del soprano. Questa unificazione di fabbrica, artista e pubblico non è casuale. L’obiettivo di Nono qui era quello di offrire al pubblico un’opera senza «camuffamento… nessun naturalismo popolare o populista». La genialità qui sta nel confronto: un’opera d’arte alta che aggredisce il pubblico in modo così diretto da creare un monologo, da lavoratore alienato ad ascoltatore prigioniero.
Tuttavia, La fabbrica illuminata non sarebbe stata presentata in anteprima a Genova. Le autorità italiane considerarono il lavoro troppo sovversivo per il clima politico nel centro industriale, temendo che un evento sponsorizzato dallo stato avrebbe incoraggiato migliaia di lavoratori e lavoratrici già in stato di agitazione (e non sarebbe stata l’ultima volta che Nono sarebbe stato censurato dallo stato). Invece, Nono lo presentò in anteprima alla Biennale indipendente di Venezia a fine settembre.
Ebbe un successo immediato con i mecenati che Nono considerava più importanti, gli stessi metalmeccanici, che insistettero perché tornasse in fabbrica per un’altra rappresentazione. Quando accadde, il compositore trovò un pubblico che, contrariamente allo stereotipo, aveva un profondo interesse per la musica d’arte. I lavoratori della fonderia erano ansiosi di comprendere il processo artistico e le sue applicazioni: «[Posero] domande molto concrete, ma anche molto serie e profonde, non aria fritta ideologica». I lavoratori italiani erano non solo in grado di cogliere ma affamati di impegno culturale «intellettuale».
Valorizzando gli interessi della classe operaia rispetto alla sensibilità estetica delle classi superiori, Nono sostenne con forza la musica come strumento rivoluzionario. La sua preoccupazione per la condizione dell’operaio sfruttato fu anche ciò che lo condusse a esplorare un nuovo terreno musicale, dimostrando che la difficile situazione degli oppressi può essere materiale non solo per la propaganda, ma per un’arte trascendente che può essere apprezzata dalle persone di tutte le classi.
*Joe Wilkins è direttore d’orchestra, compositore e suona la tuba. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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