La necessità di programmare la ripresa economica
Le analisi di Paolo Sylos Labini e Hyman Minsky ci ricordano che in momenti di crisi lo stato deve intervenire con politiche anti-cicliche e interventi strutturali
Mentre nel panorama globale l’imperversare dell’attuale emergenza sanitaria non cessa di spostare gli equilibri fra economisti e politici che si trovano a mettere in discussione i dogmi dell’austerità, a livello europeo i conflitti tra i paesi membri continuano a condizionare enormemente le scelte delle istituzioni europee, ostacolando una reazione tempestiva e adeguata alla crisi attuale.
Il dibattito presente
In particolare, due sono le posizioni principali in tale dibattito: da un lato i paesi del Nord Europa ritengono che, a livello europeo, alla crisi economica innescata dalla pandemia si debba rispondere con strumenti utili a gestire esclusivamente la fase emergenziale di breve termine, dall’altro quelli del Sud Europa premono affinché vengano attivate risorse comunitarie per un piano di investimenti pubblici più strutturale per affrontare la ripresa economica nel medio termine.
La scelta degli strumenti e dei modi con cui affrontare la crisi attuale costituisce una questione dirimente, il cui esito non solo avrà un impatto sull’andamento dell’economia europea nei prossimi anni e sulla qualità dell’integrazione fra i paesi membri dell’Ue, ma sarà anche indicativo della capacità o meno dell’Unione europea di porsi come orizzonte d’azione la prosperità e lo sviluppo inclusivo dei popoli europei.
Per questo è importante che l’Italia e i paesi del Sud Europa non cedano terreno rispetto alla necessità di programmare la fase di ricostruzione accettando compromessi al ribasso che sacrifichino proprio questo aspetto. In tal senso, l’analogia tra la situazione attuale e la guerra evocata recentemente dall’ex Governatore della Bce Mario Draghi offre spunti ulteriori rispetto alla sola necessità di un’espansione fiscale in fase di emergenza. In Italia il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale è stato caratterizzato da anni di sviluppo e prosperità materiale – conquistati anche grazie ad accese lotte sociali – che sono stati il prodotto non solo di politiche «keynesiane» di gestione anti-ciclica della domanda, ma anche e soprattutto di una politica industriale in cui le grandi aziende, prevalentemente pubbliche, guidavano lo sviluppo del paese, creando una sinergia feconda con le piccole e medie imprese private. La conclusione di questa fase storica. segnata dal processo di privatizzazione dell’industria di Stato negli anni Novanta, ha contribuito al logoramento della capacità del sistema produttivo italiano di produrre beni ad alto valore aggiunto con il conseguente rallentamento della produttività e il declino delle posizioni nelle catene globali del valore a cui assistiamo oggi.
Tale progressiva marginalizzazione del ruolo dello Stato in economia costituisce uno dei pilastri della visione politica ed economica del paradigma neoliberista dominante negli ultimi decenni; tuttavia, la necessità di un intervento pubblico, da John Maynard Keynes (1883-1946) in poi, non ha mai cessato di alimentare controversie tra accademici e tra politici. Ora che la crisi attuale innescata dalla pandemia del Coronavirus ha fatto riemergere con forza tale dibattito, riteniamo utile, per orientarci nella questione, riprendere l’insegnamento di due economisti eretici del passato: Paolo Sylos Labini (1929-2005) e Hyman Minsky (1919-1996).
Lezioni dal Novecento
I due studiosi, entrambi allievi di Joseph Schumpeter (1883-1950), hanno ereditato dal loro comune maestro una visione dello sviluppo capitalistico «per stadi», che orienta la loro analisi del funzionamento del sistema economico nei vari periodi storici e dei meccanismi che ne garantiscano la riproduzione.
In particolare, in Progresso Tecnico e Sviluppo Ciclico (1993), Paolo Sylos Labini analizza su un piano storico e teorico la differenza fondamentale tra la natura del processo di sviluppo capitalistico del 1800 e quello del 1900. Per tutto l’Ottocento, il capitalismo era caratterizzato da una forma di mercato competitivo, dominato dalla presenza di piccole imprese controllate da singoli imprenditori. In tale contesto, il progresso tecnologico, generando prezzi calanti, redditi monetari più o meno costanti e, di conseguenza, una domanda reale crescente, era generalmente in grado di auto-sostenersi. Con l’emergere di trust e grandi corporation, in seguito all’ondata di acquisizioni e fusioni di inizio Novecento, il capitalismo attraversa una mutazione genetica, caratterizzata dal progressivo abbandono della forma competitiva a favore di quella oligopolistica o monopolistica, ancora oggi prevalente.
L’economista italiano già in Oligopolio e Progresso Tecnico (1962) mostrava come nello stadio oligopolistico il potere di mercato delle grandi imprese consenta loro di accrescere i margini di profitto cosicché, a fronte di costi unitari calanti, il progresso tecnologico risulta accompagnato da prezzi stabili o crescenti. Questo pone un limite alla crescita della domanda reale e, assieme ai maggiori profitti garantiti dalla forma non competitiva del mercato, genera un eccesso di risparmio rispetto ai bisogni finanziari derivanti dalle opportunità di investimento profittevole, creando così le condizioni per l’emergere di tendenze stagnazionistiche, già individuate dagli economisti statunitensi Alvin Hansen (1887-1975) e Paul Sweezy (1910-2004).
Per scongiurare periodi prolungati di rallentamento economico e garantire che i frutti del progresso siano equamente distribuiti tra classi sociali, diviene necessario che lo Stato eserciti un ruolo più attivo nell’economia, non solo mediante politiche «keynesiane» anti-cicliche, ma anche attraverso interventi più strutturali e permanenti. Per questa ragione, Sylos Labini, riprendendo la lezione di Hansen sulla stagnazione secolare, sostiene la necessità «di un accrescimento ininterrotto delle spese pubbliche», ovvero disavanzi di bilancio pubblico permanenti, in quanto «un accrescimento delle spese pubbliche limitato nel tempo potrebbe avere efficacia se il problema consistesse esclusivamente nella disoccupazione ciclica; ma non può risolvere il problema del ristagno».
Pur partendo da una prospettiva diversa, a simili implicazioni di politica economica era giunto Hyman Minsky, il quale ha saputo inoltre evidenziare che l’attenzione dell’autorità politica andrebbe posta non tanto, o non solo, al livello di disavanzo pubblico necessario per sostenere l’attività economica, quanto alla sua composizione al fine di garantire un processo di sviluppo il più possibile inclusivo e sostenibile. In particolare, secondo l’economista americano l’unico modo per porre rimedio ai mali atavici del capitalismo, individuati nell’incapacità di garantire stabilità finanziaria, piena occupazione e un’equa distribuzione del reddito, è attraverso un «grande governo» (Big Government) che, agendo in sinergia con la Banca Centrale, prenda le redini del sistema bancario, si faccia carico di una socializzazione degli investimenti e, in ultima analisi, sia in grado di programmare cosa, come e per chi produrre. Scrive Minsky:
«Le questioni di teoria e politica economica da affrontare non riguardano la capacità di prodigiosi deficit pubblici di tamponare una recessione anche se molto acuta […]. Una volta assodate le potenzialità dimostrate dei deficit di un Big Government, il problema politico principale dovrebbe essere la determinazione degli effetti strutturali e degli obiettivi che l’azione di governo vuole perseguire. Una volta che il settore pubblico è ampio, ci si deve preoccupare non solo degli aggregati ma anche per chi produrre, come produrre e che tipo di beni produrre». (Tradotto da Stabilizing an Unstable Economy, 1986)
L’attualità dell’analisi
Le proposte citate sono frutto di analisi teoriche compiute in un contesto economico che presenta molte similitudini con quello attuale. In particolare, le tendenze al ristagno economico caratterizzano tuttora il sistema capitalistico, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2007-08. Prima della Grande Recessione, infatti, il processo di finanziarizzazione ha costituito una contro-tendenza rilevante alla stagnazione economica, come lucidamente anticiparono Magdoff e Sweezy in Stagnation and the Financial Explosion (1987). La finanza ha assunto un ruolo sempre più funzionale al processo di accumulazione capitalistica: da un lato, l’estensione del credito bancario al consumo ha permesso in parte di supplire alla ridotta domanda aggregata derivante da salari stagnanti e disuguaglianze crescenti; dall’altro, le imprese quotate, avendo meno opportunità profittevoli per investimenti produttivi, hanno progressivamente trasferito le proprie risorse verso la creazione di valore a breve termine per gli azionisti, attraverso dividendi distribuiti e riacquisto azioni, a discapito di innovazione e crescita di lungo periodo.
In Europa, queste tendenze si sono dispiegate in un quadro di ristrutturazione industriale delle economie europee che ha visto un rafforzamento della manifattura tedesca accompagnato da un relativo impoverimento della struttura produttiva dei paesi periferici, con la conseguenza di alimentare un processo di divergenza strutturale che ha generato forti squilibri commerciali e finanziari tra paesi dell’Eurozona (Euro al capolinea?, Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortagua, 2019). Tali squilibri sono stati compensati dal movimento di flussi finanziari transfrontalieri che hanno giocato un ruolo rilevante nella crescita dell’indebitamento privato dei paesi in deficit commerciale (Spagna, Portogallo, Irlanda e in parte Grecia) utile a sostenere le esportazioni dei paesi in surplus (Germania, Paesi Bassi e Belgio), generando una bolla finanziaria che non ha saputo reggere l’urto derivante dalla crisi dei mutui subprime.
Dopo la crisi del 2008, nonostante gli sforzi inefficaci delle banche centrali di riattivare il motore del debito e della finanza attraverso un ricorso aggressivo a politiche monetarie non-convenzionali, l’economia reale si è avvitata nella trappola della stagnazione e finanziarizzazione, caratterizzata da una debole crescita economica, elevata disoccupazione, bassa inflazione dei beni reali e alta inflazione delle attività finanziarie.
Nel contesto europeo la situazione si è ulteriormente deteriorata con lo scoppio della crisi del debito «non-sovrano» – così definita dal professor Andrea Terzi – del 2010-2011, a seguito dell’aumento dei bilanci pubblici per il salvataggio del settore privato. Anziché mettere mano ai difetti istituzionali alla base dell’architettura disfunzionale dell’eurozona che rendono tali crisi possibili – in primis, la fondamentale separazione tra le istituzioni monetarie e fiscali –, le autorità europee hanno preferito addossare le responsabilità della crisi alla presunta gestione inoculata dei conti pubblici da parte dei paesi periferici, imponendo loro gravose quanto inutili politiche di austerità, funzionali secondo la vulgata dominante a «risanare» le finanze pubbliche e alleggerire il deficit commerciale.
Tali misure hanno determinato una drastica compressione dei redditi e della domanda aggregata che ha avuto un impatto negativo non solo sul tessuto produttivo già debole delle economie del Sud Europa – esacerbando ulteriormente le divergenze reali tra centro e periferia – ma anche sull’export dell’industria tedesca che, nel tentativo di cercare nuovi mercati extra-Ue, ha finito per accrescere le tensioni commerciali con i principali attori globali, quali Usa e Cina.
La risposta europea alla doppia crisi, dunque, è stata volta, coerentemente con l’impianto ordoliberista dei Trattati, alla progressiva trasformazione dell’eurozona in un’area esportatrice netta, al costo di elevate disuguaglianze e bassa crescita che hanno indebolito il mercato interno e inasprito le tensioni economiche e politiche tra stati membri.
Quale futuro?
Questo è il contesto in cui la crisi economica causata dal Coronavirus si sta attualmente sviluppando, portando con sé il rischio di annientare ulteriormente un sistema produttivo già economicamente e finanziariamente fragile, con probabili conseguenze nefaste sulle condizioni sociali delle classi meno abbienti. Sarebbe dunque un grave errore considerare la crisi attuale come un’emergenza eccezionale capitata in un contesto di buon funzionamento del sistema economico. Si deve invece ripartire dagli insegnamenti degli economisti sopra citati, e riconoscere che solo rispolverando gli strumenti della pianificazione economica è possibile uscire dalla fase prolungata di ristagno economico, porre un argine alla barbarie presente e immaginare un futuro alternativo.
Questa è la sfida che l’Unione europea si trova ad affrontare, i cui rischi connessi sono altissimi. Infatti, se non si dimostrasse capace di mettere gli stati membri nelle condizioni di fornire risposte tempestive e adeguate nel mezzo di una pandemia globale, l’Ue si condannerebbe, ancora una volta, a essere un’istituzione che risponde primariamente agli interessi delle classi e dei paesi dominanti, incapace di garantire prosperità e benessere diffuso, caratterizzata da insanabili divergenze al suo interno che finiranno presto o tardi per rompere il fragile equilibrio istituzionale su cui al momento si regge.
*Roberta Terranova, dottoranda in Economia parte di un progetto europeo presso Bielefeld University e University of Surrey, si occupa di economia politica, in particolare di concentrazione, distribuzione e crescita. Enrico Turco è dottorando di ricerca in Economia in un programma europeo congiunto tra l’Università di Amsterdam e l’Università Cattolica di Milano. I suoi interessi di ricerca ruotano attorno alla macroeconomia, alla storia del pensiero economico e ai modelli ad agenti macro-finanziari.
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