La normalità dello sfruttamento
Il caporalato si allontana dai campi di pomodori e dalla produzione agricola e si mostra anche nel nord-est industriale, dentro a un’azienda considerata green, innovativa, virtuosa. Un libro sul caso Grafica Veneta
Prima che fosse il campo della mia tesi di laurea triennale, ora diventata un libro edito da Istresco, il paese di Trebaseleghe non l’avevo mai sentito nominare. L’ho cercato su Google Maps: prendendo il triangolo di pianura tra Venezia, Padova e Treviso, Trebaseleghe si trova esattamente al centro. Intorno al paese c’è la campagna, costellata da una serie di piccole e medie imprese, cresciute in quarant’anni fino a ottenere fama internazionale: Moncler, Sav, Grafica Veneta. Ed è proprio da dentro una fabbrica che spunta il caso di cronaca che dà inizio alla mia ricerca: si tratta del caso Grafica Veneta, emerso nel maggio 2020 e trattato in maniera consistente nel corso dell’anno successivo dai media locali e, a tratti, nazionali.
Il ritrovamento di alcuni uomini pakistani che avevano subito violenza fisica ha fatto emergere, dentro al magazzino dell’azienda addetta alla stampa di libri per grandi case editrici nazionali e internazionali, uno sfruttamento sistematico e duraturo, che fa presto usare la parola «caporalato». I lavoratori coinvolti sono una trentina, tutti pakistani, assunti per lavori di finissaggio da Grafica Veneta attraverso l’appalto di un’altra azienda, Bm Service, con sede in Trentino, a sua volta gestita da pakistani. Il caporalato prende la forma di turni da 12 ore, sette giorni su sette, senza tutele, ferie o pause, paghe inferiori a 600 euro al mese e la possibilità, da parte dei padroni di Bm Service, di prelevare a piacimento parte degli stipendi per l’affitto della casa o per altri servizi – spesso legati alle pratiche per i permessi di soggiorno.
Il caporalato si allontana così dai campi di pomodori e dalla produzione agricola nel sud Italia e si mostra anche nel nord-est industriale, dentro a un’azienda green, innovativa, virtuosa. Così facendo, si conferma parte strutturale di un sistema economico che conta sullo sfruttamento di chi sta ai suoi margini per permettere la propria sopravvivenza e il proprio profitto.
La copertura mediatica della vicenda si è concentrata sulle voci autoctone: parla il presidente di Grafica Veneta, Fabio Franceschi, parlano i sindacati – due federazioni di Cgil, Slc e Fiom, e Adl Cobas – che nel frattempo iniziano a seguire la vicenda, parla il presidente della regione Veneto, Luca Zaia. Manca completamente, però, la voce dei primi protagonisti della vicenda, i lavoratori pakistani, in un emblematico rinforzo della loro esclusione – è necessario che rimangano invisibili per poter continuare a sfruttarli. Per questo con la mia ricerca sono partita proprio da loro.
Nel libro ho intervistato Faisal e Samir, che mi hanno raccontano traiettorie di vita prima che di lavoro e hanno fatto emergere in maniera costitutiva la complessità dell’esperienza delle persone migranti che arrivano nei nostri territori e li abitano. Nei loro racconti si intrecciano la dimensione del viaggio, che segna l’esperienza recente di entrambi seppur con tensioni e consapevolezze diverse, e quella del lavoro, fondamentale tanto per la loro possibilità di permanenza sul territorio quanto per rispondere alle aspettative del loro ruolo di breadwinner, ossia di persone che dentro al nucleo familiare hanno il ruolo di mantenere economicamente gli altri componenti che, nei casi di persone migranti, è raggiunto attraverso l’invio di rimesse economiche nel paese di provenienza.
Ogni passaggio delle loro storie è segnato dal colore della pelle e dalle scelte a cui costringe in un’Europa che non risponde alle aspettative di diritti e possibilità che entrambi immaginavano. La permanenza in Italia è segnata da un costante senso di spaesamento e non appartenenza, accanto alla consapevolezza di quanto è rimasto a casa e come tale si sta perdendo. Nostalgia e attaccamento alla propria cultura sono rinegoziati costantemente dentro a un contesto estraneo e sostanzialmente respingente, in un lavoro che è prima di tutto identitario e che chiama in causa l’abitudine razzializzante di un’intera area di mondo – un centro economico e politico che si avvale della possibilità di definire la sua periferia disegnando confini contro cui le persone si muovono con evidente consapevolezza. Emerge una geografia fatta di equilibri precari e mai definiti e un mosaico di appartenenze in perenne ridiscussione; in questo senso, le loro storie raccontano la migrazione contemporanea a partire da necessità, aspettative e vissuti di chi parte, e incrinano l’omogeneità schiacciante del discorso pubblico sulle persone migranti, dando profondità a un fenomeno che intreccia bisogni e responsabilità individuali e collettive.
La solidarietà ai lavoratori in appalto da parte degli abitanti di Trebaseleghe risulta invece difficile da riscontrare anche quando lo sfruttamento diventa fatto certo: si rimanda la presa di posizione, si nascondono le responsabilità dietro la difficoltà di comunicazione. Manca l’attenzione verso l’altro, la tensione alla solidarietà verso chi è oppresso, e manca sia a livello di società civile che di istituzioni – il comunicato del consiglio comunale che esce dopo l’emersione del caso si schiera, genericamente, contro ogni forma di prevaricazione nei luoghi di lavoro, pur ribadendo di tutelare le aziende in quanto fondamentali per il territorio. Tra i fattori che determinano il silenzio c’è, da una parte, l’abitudine a considerare normali modelli di lavoro subordinato e di sfruttamento diffuso che prendono la forma, nel capitalismo contemporaneo, di richieste di flessibilità oraria e straordinari. Dall’altra il ruolo che la fabbrica ha in paese: il suo presidente è figura nota, la fabbrica è un sempre possibile orizzonte di lavoro. Per questo, essa assume un ruolo di potere dentro a un territorio fortemente segnato da un capitalismo senza città che si è sviluppato intorno alla storia, alle specificità e alle relazioni territoriali. Così, anche se l’ambiente di lavoro non è sempre positivo anche per i lavoratori diretti, l’importanza di Grafica Veneta attutisce le possibilità di conflittualità e le prese di posizione.
Anche la conflittualità sindacale, che pure ha caratterizzato la storia dell’industria petrolchimica del vicino veneziano, attraversa con fatica questo territorio. Grafica Veneta mi è stata raccontata come un ambiente poco permeabile al sindacato, dove la Cgil si è inserita con difficoltà solo da pochi anni e fa fatica a rappresentare i lavoratori. Con il caso di caporalato, alle difficoltà di azione legate a una fabbrica a difficile sindacalizzazione si aggiungono quelle legate alla gestione dell’appalto e del lavoro immigrato: è difficile intercettare e comprendere bisogni e richieste dei lavoratori pakistani, la cui priorità è avere un lavoro prima che vincere battaglie sindacali. I sindacati hanno un ruolo e un posizionamento che conferisce loro potere rispetto alle decisioni dei lavoratori migranti, i quali si affidano loro pur non comprendendone a fondo i meccanismi e le rivendicazioni. Questo almeno finché il presidente di Grafica Veneta Fabio Franceschi non si è rivolto, nonostante le sue precedenti dichiarazioni razziste, all’Imam della moschea di Padova, figura di riferimento per la comunità pakistana dell’area, per risolvere la questione. Con l’ingresso in campo dell’Imam i sindacati hanno perso parte della loro presa, i lavoratori si sono svicolati e hanno accettato le riassunzioni per cui l’azienda spingeva. Se il mondo del sindacato, da una parte, non è stato in grado di dialogare efficacemente con i lavoratori stranieri, ugualmente esso appare frammentato e in conflitto, in particolare per quanto riguarda la Slc, il sindacato del settore comunicazione della Cgil, che prova la strada degli accordi con la direzione, perseguendo una strategia che pare centrata più sulle esigenze dell’azienda che sui bisogni dei lavoratori, mentre la Fiom lavora insieme ad Adl Cobas e segue la strategia del conflitto, con picchetti e qualche manifestazione, seppure poco partecipata. Il quadro complessivo è di un sindacato in crisi, in difficoltà rispetto alle identità e alle dinamiche nuove del mondo del lavoro e chiuso intorno a lenti di osservazione e pratiche incapaci di agire con efficienza politica rispetto alle nuove forme di lavoro.
Il caso Grafica Veneta e i suoi sviluppi, ricostruiti nel libro nel tentativo di cercare la complessità delle cose per come si muovono, è emblematico e interroga, in ultima istanza, un mondo del lavoro sempre più frammentato e flessibile, eppure fortemente gerarchizzato e marginalizzante, e le responsabilità di tutto l’assetto sociale, culturale e politico che dentro e intorno a esso si muove.
*Silvia Ruggeri è studentessa magistrale in antropologia culturale ed etnologia. Ha pubblicato per Istresco Voci da Grafica Veneta. Vite e lavoro nel capitalismo contemporaneo, rielaborazione della sua tesi di laurea triennale.
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