
La nostra storia è ancora da decolonizzare
Ottant'anni fa la battaglia di Keren segnò il collasso dell'impero coloniale italiano. Una memoria che ancora oggi viene trasmessa in modo autoassolutorio
Tra il 9 e l’11 luglio 2021, per commemorare Angelo Del Boca, Rai Storia manda in onda il documentario I disperati di Cheren al quale lo storico aveva collaborato con il documentarista Massimo Sani. Il documentario, uscito per la Rai nel 1983 e disponibile qui integralmente, si muove tra Eritrea, Etiopia – all’epoca la prima era ancora occupata dalla seconda – e Italia, intervistando reduci della resistenza anti-italiana in Etiopia, italiani, inglesi e ascari propone una sintesi delle vicende che hanno caratterizzato la fine dell’Africa Orientale Italiana; fine causata dalla sconfitta nella battaglia di Keren (o Cheren) della quale il 2021 è l’ottantesimo anniversario. Anniversario che, nonostante sia stato completamente ignorato dal dibattito pubblico italiano, impone la necessità di riflettere sulla memoria lasciata dal disfacimento delle colonie in Africa Orientale.
Il collasso dell’occupazione italiana fascista nel corno d’Africa fu un processo che durò, teoricamente, quasi un intero anno solare: dal gennaio del 1941 al novembre dello stesso anno quando Guglielmo Nasi, rimasto isolato a Gondar, si arrese agli inglesi dopo pochi giorni di battaglia. La battaglia di Gondar, così come quella dell’Amba Alagi, furono solo le azioni conclusive di una guerra che l’Italia perse, di fatto, con la battaglia di Keren, dopo la quale gli inglesi occuparono velocemente tutta l’Eritrea e in poco più di un mese arrivarono ad Addis Ababa. La battaglia di Keren durò da inizio febbraio a fine marzo del 1941 e, stando alle testimonianze dell’epoca, fu violentissima. Le truppe fasciste erano comandate da Orlando Lorenzini e Nicolangelo Carnimeo e arroccate sulle alture intorno alla città di Keren si difendevano dagli attacchi di quelle britanniche guidate dal generale William Platt. In due mesi di battaglia le perdite furono altissime per entrambi gli schieramenti, ancora oggi vi sono alcune incertezze sui numeri ma, seguendo la ricostruzione di Del Boca, i britannici contarono circa 5.000 morti tra le loro file, mentre gli italiani 12.000.
La battaglia di Keren è generalmente riconosciuta dagli storici come l’evento che sancì la fine dell’impero italiano. Nella narrazione immediatamente successiva all’evento, in particolare da parte inglese soprattutto grazie al contributo di Compton Mackenzie, la battaglia venne considerata come una delle poche occasioni nelle quali l’esercito italiano combatté dignitosamente. Pur rimanendo un evento storico di culto, soprattutto su blog o siti internet legati ad ambienti militari, questa vicenda ha uno spazio nel discorso pubblico quasi irrilevante. Il documentario già citato rappresenta probabilmente la più grande opera di divulgazione a proposito di questo evento. Nel 2019 venne ripreso in una puntata di una serie della Rai sulla Seconda guerra mondiale, condotta da Paolo Mieli e narrata da Carlo Lucarelli, che aggiunge alle immagini e voci del documentario del 1983 interviste ad alcuni storici italiani specializzati in storia del colonialismo. La puntata compie una ricostruzione storica delle vicende strettamente militari precisa, mostrando però alcuni passaggi problematici, come il definire il viceré d’Etiopia un eroe, o la presentazione acritica di alcune interviste ai reduci italiani di Keren.
La presenza di questo evento nel discorso pubblico va poco oltre questi due documentari, con alcune pubblicazioni di nicchia e l’intitolazione di alcune strade a protagonisti della battaglia. Il poco spazio dedicato alla vicenda si accompagna alla completa assenza di una problematizzazione de-coloniale di questo evento. Anche un documentario curato da bravi storici, come quello della Rai, non si interroga in maniera strutturale sulle ragioni d’essere, per esempio, degli ascari o sulle coercizioni implicate nel mantenimento di truppe coloniali.
L’assenza di una simile narrazione è un problema collettivo e può essere generalizzato a quasi tutte le esperienze di occupazione compiute per mano italiana. In questo caso specifico, risulta problematico perché l’analisi dell’evento e, soprattutto, della sua successiva memorializzazione in loco fornisce una serie di indizi interessanti sul funzionamento della narrazione coloniale che, a ottant’anni dalla fine dell’occupazione fascista, è necessario provare a ricostruire.
In primo luogo è necessario evidenziare come la battaglia di Keren venne combattuta da truppe che erano, per la maggior parte, formate da ascari e indiani che l’occupazione coloniale ha messo gli uni contro gli altri. Questo dato si riflette anche sulla stima dei caduti che vede circa 500 inglesi caduti a fronte di un numero tra i 4 ed i 5 mila indiani, mentre dall’altra parte circa 3.000 italiani e 9.000 ascari. Come accennato queste cifre hanno un qualche margine di errore e, come spiega Del Boca nel suo terzo volume a proposito degli italiani in Africa orientale, il conteggio delle vittime complessive risulta macchinoso perché spesso nei bollettini ufficiali le perdite delle truppe coloniali non venivano conteggiate.
In secondo luogo, davanti a questi numeri e alla pochezza del dibattito italiano a proposito, è interessante guardare allo spazio ricoperto da questo evento a Keren tramite l’analisi del cimitero militare italiano, principale luogo della memoria italiana dell’evento in loco. Keren oggi è una delle più importanti città Eritree, con i suoi centomila abitanti la seconda del paese, e il cimitero si trova nella sua area orientale. Iniziato nel ‘42, il memoriale venne completato nel 1950 a opera di cittadini italiani residenti tra Asmara e Keren con il nome di Cimitero Militare Italiano degli Eroi. Restaurato negli anni Novanta, oggi il cimitero ospita circa 1.200 lapidi, divise equamente tra italiani ed eritrei. Il memoriale si presenta con la scritta «EROI», in italiano, sulla cancellata d’ingresso. Al suo interno le lapidi sono divise in due file, da un lato le italiane, sulle quali viene riportato il nome del caduto o, in assenza di esso, la posizione occupata nell’esercito italiano con rari casi di ignoti. Dal lato opposto le lapidi dedicate alle truppe coloniali, queste non riportano alcun nome né posizione ma semplicemente la scritta, sempre in italiano «Ascaro ignoto». Dietro le lapidi eritree sventola un tricolore italiano, mentre al centro dello spiazzo vi è la tomba del generale Lorenzin con, alle spalle, un altare commemorativo. Adiacente all’altare vi è una targa che riporta una citazione, anch’essa in italiano, di Amedeo Guillet, ufficiale italiano in Africa durante il fascismo che dice:
Gli Eritrei furono splendidi. Tutto quello che potremo fare per l’Eritrea non sarà mai quanto l’Eritrea ha fatto per noi.
La citazione di Guillet, che era in Eritrea in quanto italiano, fascista, occupante, ammette candidamente la natura coercitiva del governo coloniale in sé come regime che può chiedere sforzi impareggiabili a chi opprime senza avere la necessità di fornire nulla in cambio. Queste parole, seppure intrise di una vaga ammirazione per gli eritrei, esplicitano direttamente una prospettiva diseguale tra eritrei e italiani che viene reiterata e attualizzata dagli altri elementi che concorrono a formare l’aspetto del memoriale, proponendo una memoria dell’evento esclusivamente coloniale.
Il primo aspetto evidente che veicola questo tipo di memoria è il codice comunicativo espresso all’interno del cimitero. La scritta sull’ingresso, le lapidi, la citazione di Guillet sono elementi che non sono intelligibili a persone che non leggono l’italiano, rendendo la comprensione stessa del monumento esclusivamente appannaggio di chi è capace di capire la lingua dell’ex occupante. L’utilizzo esclusivo di una lingua, insieme alla presenza della bandiera italiana e alla centralità delle figure italiane nell’organizzazione dello spazio del memoriale fanno emergere un secondo elemento caratterizzante del luogo: l’italianità. Nonostante il cimitero si trovi in Eritrea, nonostante le vittime della battaglia furono in gran parte eritree e la dominazione italiana sia finita da ottant’anni i simboli caratterizzanti cercano di continuare a definire il luogo come italiano.
L’elemento più interessante si trova però nelle lapidi, queste ultime pongono indirettamente una riflessione su come la capacità di creare un discorso coloniale sia legata anche alla capacità di definire le persone e le cose che concorrono a esso. Il cimitero è definito un cimitero di eroi all’interno del quale, però, gli unici eroi che acquisiscono nome e definizione sono quelli italiani e bianchi. Gli altri risultano solamente un contorno confuso, dei quali si può evitare di sapere nome, ruolo nell’esercito o altro. Questi ultimi sono sepolti in questo cimitero, collocati in un’area che esprime italianità tossica da ogni lato ma non sono riconoscibili in questo luogo. Sono eritrei e la terra nella quale sono sepolti, in teoria, è la loro terra natia, ma il codice comunicativo con il quale vengono descritti non li rende intelligibili a nessuno se non come ascari e, nella logica dell’oppressore, non serve che sia diversamente. Sono stati soldati coloniali, destinati a essere carne da cannone in qualsiasi impresa il Fascismo decidesse di intraprendere, possono condividere lo spazio dei «nostri» una volta morti ma, in questo spazio, non hanno un’identità diversa da quella che avevano per gli italiani dell’epoca: quella degli ascari.
Questo luogo è un manifesto vivente della narrazione coloniale italiana, ne evidenzia non solo gli elementi coercitivi ma anche la costruzione, su questi stessi elementi, di un discorso con la capacità di creare un’identità complessiva agli elementi utili a mantenere questa coercizione, come lo furono gli ascari. Inoltre, questo luogo non è completamente assente nella storia recente delle relazioni diplomatiche tra Italia ed Eritrea. Se da un lato è stato oggetto di visite da parte di gruppi legati ad ambienti militari o di personaggi celebri che ne hanno approfittato per compiere uno scontato elogio dei rapporti coloniali tra Italia ed Eritrea, d’altra parte è necessario notare come l’esistenza di questo luogo sia stata legittimata anche da visite istituzionali come quella compiuta dalla vice-ministra agli affari esteri Emanuela del Re nel 2018.
In conclusione, la mancanza e, di conseguenza, la necessità di un processo strutturale di decolonizzazione culturale e sociale in Italia è dimostrata anche dall’esistenza di luoghi come questo. L’esistenza di un memoriale che perpetua la prospettiva coloniale italiana su un luogo che ha subito l’occupazione e le politiche coloniali italiane per più di mezzo secolo è in perfetta coerenza con il discorso istituzionale e culturale egemone sul colonialismo italiano. Discorso che, pur facendo vedere le prime crepe – in questo senso la traduzione in italiano uscita quest’anno de Il Re Ombra di Maaza Mengiste è un ottimo segnale – tende a minimizzare e auto assolversi da qualsiasi evento a proposito dell’occupazione coloniale, reagendo anzi con prontezza e violenza quando parte della società civile, in senso gramsciano, tenta di ricalibrare questo discorso in una prospettiva più consapevole.
Davanti a questo discorso è necessario ricordare l’esistenza di questo memoriale, così come l’anniversario del collasso dell’impero italiano, per ribadire come l’esperienza coloniale italiana non possa considerarsi un fenomeno concluso senza passare per un processo di decolonizzazione strutturale che coinvolga, tra le altre cose, lo studio del nostro passato. Il nostro passato coloniale non può più essere raccontato senza essere problematizzato in quanto tale, diventa inaccettabile dal punto di vista etico e morale raccontare la storia, per esempio, della battaglia di Keren senza evidenziare le distorsioni strutturali che portarono 4.000 indiani e 9.000 eritrei a morire combattendo gli uni contro gli altri per gli interessi delle nazioni colonizzatrici.
*Pietro Dalmazzo ha studiato storia presso l’Università di Bologna. Vive in Inghilterra dove è dottorando in Italian Studies presso l’Università di Durham con un progetto di ricerca a proposito dell’ imperialismo culturale italiano nei Balcani durante il Fascismo.
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