
La nuova Europa e l’effetto Serra
Più che scendere in piazza dietro una immaginaria bandiera Ue servirebbe manifestare contro Trump e contro il riarmo proposto da Von der Leyen, per un nuovo ruolo degli organismi internazionali
Come accade spesso in certe manifestazioni, le adesioni a «Una piazza per l’Europa» lanciata dal giornalista e scrittore Michele Serra sulle pagine di Repubblica, prescindono dalle motivazioni e dai contenuti della proposta.
La piazza europeista, infatti, che avrebbe dovuto essere colorata «di sole bandiere europee» e avere come «unico obiettivo (non importa quanto alla portata: conta la visione, conta il valore) la libertà e l’unità dei popoli europei» si carica di significati diversi a seconda degli aderenti. Tanto che lo stesso Serra, alcuni giorni dopo la proposta, ha dovuto scrivere un secondo articolo per precisarne meglio lo spirito e prendere le distanze dal progetto di riarmo europeo di Ursula von der Leyen.
Sulla base della proposta di Serra tale manifestazione «avrebbe un significato profondo e rasserenante per chi la fa, e si sentirebbe meno solo e meno impotente di fronte agli eventi». Queste ultime parole sono quelle più rilevanti per comprendere un eventuale successo della giornata del 15 marzo.
Il mondo è infatti sempre più sotto la morsa di un’élite globale vorace e rapace, ben rappresentata da Donald Trump e dalla svolta nazionalista che ha impresso al discorso americano – ma non c’è solo Trump, lo vedremo più avanti. Lo scontro tra interessi che divergono vistosamente si fa sempre più cruento e questo descrive una matassa che appare caotica, priva di punti di fermi, una sorta di homo homini lupus globale, una guerra di tutti contro tutti in cui si cercano appigli e ganci di sostegno. Si cerca di essere, insomma, meno soli e impotenti di fronte agli eventi. Un sentimento comprensibile, ma sarebbe meglio se fosse orientato in una direzione in cui la solitudine magari non si esaurisca solo nello spazio di un pomeriggio, rafforzando una dimensione collettiva concreta e finalizzata a obiettivi che rompano le cause di quest’impotenza. Esattamente quello che la manifestazione del 15 marzo non può fare.
La richiesta di «unità e libertà per i popoli europei» è una richiesta tanto generica quanto nociva. Chi sta minacciando la libertà europea e chi ne impedisce l’unità? La genericità serve a sottendere l’obiettivo emotivo della proposta, far scattare l’antagonismo istintivo verso il nuovo autocrate statunitense e mobilitare quelle energie democratiche e civili che ancora compongono il cosiddetto «popolo di sinistra». Un ceto medio ormai quasi solo riflessivo, e poco altro, in termini di mobilitazione democratica, ma comunque una base che ha a cuore la Costituzione e i suoi valori. Ma non si può scendere in piazza per l’unità dell’Europa se non si fa un serio bilancio di cosa sia stata finora quell’unità, dei deficit democratici che ha vissuto, e se non si fa un serio bilancio dell’austerità europeista che ha impoverito le classi lavoratrici del continente. Se si facesse questo bilancio si scoprirebbe, ad esempio, che quando la Grecia stava affondando non solo non le fu lanciato un salvagente, ma si lavorò attivamente per farla affondare di più. L’unità europea, allora, non era un bene da salvaguardare? E chi si mobilitò perché la stagione dei Memorandum fosse conclusa e l’Unione europea imboccasse un’altra strada? Solo alcuni, come sappiamo bene.
L’unità europea viene oggi vissuta come un bene rifugio perché si avverte epidermicamente la minaccia Trump, ma quella minaccia bisognerebbe leggerla correttamente così come stanno facendo le classi dirigenti europee: gli Stati uniti hanno deciso di incrementare lo scontro inter-capitalistico che c’è sempre stato in profondità, ma che è stato gestito con la creazione di organismi internazionali, con i fasti della globalizzazione e con una situazione di crescita relativa che ha permesso a Usa e Ue di dominare insieme il resto del pianeta. Questa fase positiva, che ancora poteva giovarsi di un ruolo minore della Cina, non si è conclusa pochi anni fa con la guerra in Ucraina, ma nel 2007-2008 con la grande crisi economica internazionale, effettivamente mai superata, che ha richiesto di pompare nei circuiti economici e nelle casse dei capitalisti più rapidi ad adattarsi alla crisi una quantità di denaro pubblico, a debito, mai vista prima. Da quella crisi i rapporti transatlantici non sono più stati quelli di prima, il fenomeno della «deglobalizzazione» si è accentuato per quanto la globalizzazione, intesa come filiere internazionali connesse, mercati finanziari sovranazionali, capitali in movimento liberamente, non si è mai bloccata. Una contrapposizione che è stata gestita anche dai presidenti Democratici, sia da Obama che da Biden. Trump, con l’emblema dei dazi e la pace con la Russia, imprime ora un’accelerazione e una sterzata mettendo in mostra il vero oggetto del contendere: la lotta per preservare i propri mercati, il proprio apparato industriale e la propria presenza globale, insomma i propri interessi capitalistici. Trump ha deciso di usare il bastone e l’Ue cerca di difendersi ricorrendo a una sorta di «nazionalismo europeo» ben spiegato dal Rapporto sulla competitività di Mario Draghi e dalle mosse, per quanto scomposte, che l’Unione sta approntando.
La revisione dei piani di transizione ecologica va in questa direzione, per difendere il vecchio apparato industriale dell’automotive e quindi reggere di fronte ai dazi minacciati da Trump. E poi l’aumento delle spese militari orientate non tanto a un esercito comune europeo – che, nel caso servisse a qualcosa, vedrebbe la luce non prima di dieci anni – ma per pompare ancora soldi a debito nell’economia, in questo caso in un costruendo complesso militar-industriale europeo, e darsi le arie da potenza globale. Il fatto che questo progetto abbia difficoltà enormi nell’affermarsi – i paesi europei sono tutti divisi tra loro, manca il motore centrale franco-tedesco, la presenza dei nuovi nazionalismi di destra è fortissima, l’economia europea arranca – non elimina il fatto che oggi è l’unico progetto a essere promosso e pensato. Il «ReArm Europe» di Ursula von der Leyen ne costituisce il simbolo, e la somma individuata, 800 miliardi, il valore.
Che sia così se n’è accorto lo stesso Michele Serra scrivendo il suo secondo articolo in cui definisce gli 800 miliardi individuati dalla presidente della Commissione per potenziare la spesa militare «una overdose di anabolizzanti» che denota l’immagine di «profonda e quasi imbarazzante insicurezza» di questa Europa. E quindi insiste sui valori originari dell’Unione europea, sulla sua ambizione a essere «una potenza pacifica, forte e pacifica, libera e pacifica, democratica e pacifica». Tutto giusto e bello, solo che a chiedere di manifestare genericamente «per l’Europa» raccogliendo le adesioni più disparate, non si può non vedere che il riarmo appena lanciato, e ribadito dal Consiglio europeo del 6 marzo, rappresenta oggi la risposta più concreta che l’Europa sta dando alla crisi globale e il segno della propria stessa esistenza in vita. Manifestare con la bandiera europea, per la sua libertà o unità, oggi non incontra l’ipotesi di un’Europa più sociale come in parte è stato durante l’emergenza Covid, né un’Europa di pace o ecologica o per ampliare i diritti di chi lavora o per preservare il proprio stato sociale.
In realtà, la sensazione di impotenza e di essere soli e sole è oggi rafforzata proprio dalle scelte europee che alimentano la situazione di instabilità e di debolezza dei tessuti sociali e democratici. Anche l’atteggiamento sull’Ucraina va in una direzione coerente con questa miopia. Il modo in cui Trump ha trattato Zelensky alla Casa Bianca è senz’altro una dimostrazione della sua arroganza e tracotanza, ma la risposta non può essere quella di divenire i gendarmi del mondo al posto di un alleato, gli Usa, che strumentalmente abbraccia la parola «pace». Al ritiro delle truppe Usa non si può rispondere che «allora le truppe le mandiamo noi» e quindi aumentiamo le spese militari, aumentiamo l’esposizione militare, e così via. Gli Usa abbracciano un’impostazione totalmente unilaterale – e visto cos’hanno fatto con il loro multilateralismo potrebbe essere un bene – ma allora l’Europa dovrebbe rilanciare un nuovo multilateralismo, una ricostituzione di organismi sovranazionali legittimi che però imporrebbero di parlare con Stati come la Cina e i paesi del Sud. Un approccio «onusiano» in assenza di Onu, ma calato nella nuova realtà, che renderebbe le azioni di difesa dei popoli aggrediti finalmente credibili, magari smettendo di ignorare l’aggressione genocidiaria che sta subendo il popolo palestinese. Il modo in cui la conferenza Fao sulla biodiversità è riuscita a raggiungere un, sia pur fragile, accordo in assenza degli Usa e grazie al ruolo dell’ex ministra colombiana Susana Muhamad, indica che si può lavorare in una dimensione internazionale e progressiva anche in un contesto difficile come l’attuale. Così come anche la coraggiosa iniziativa di Öcalan, di rinuncia alla guerra per i diritti dei curdi, rappresenta un approccio del tutto opposto a quello dominante per affrontare i conflitti globali.
Tutto questo non è oggi sui tavoli di Bruxelles e manifestare per l’Europa significa, nella migliore delle ipotesi, abbaiare alla luna oppure creare un diversivo per sostenere coscientemente questo nuovo «nazionalismo europeo». E del resto la stampa progressista, come Repubblica, ci sta abituando a perle preziose che vanno in questa direzione, come la perorazione di Antonio Scurati per la nascita di nuovi «giovani guerrieri» europei. Una delizia.
Il 15 marzo, quindi, potrebbe anche essere una manifestazione con le motivazioni più disparate, tenute insieme da un generico riferimento europeista, ammantato di progressismo, ma in realtà incubatore di un «nuovo nazionalismo europeo» a cui lavorano, peraltro, diversi soggetti politici. La divergenza esplicita, ben esibita, tra Paolo Gentiloni e Elly Schlein sul giudizio nei confronti del ReArm Europe di von der Leyen indica che nel centrosinistra, e segnatamente nel Pd, si è aperta la lotta per chi dovrà assumere la guida di un’eventuale coalizione anti-Meloni. Chi si intesterà maggiormente iniziative come quella del 15 marzo ambirà a rappresentare quella guida. E a questo puntano i settori più moderati dentro e fuori al Partito democratico – si pensi anche al sindaco di Milano, Giuseppe Sala o al nuovo candidato in pectore del centrosinistra, Ernesto Ruffini – che utilizzeranno un eventuale successo di quella giornata per farsi più forti all’interno del centrosinistra. L’obiettivo reale è ridurre le pretese del M5S di contare qualcosa e, conseguentemente, di depotenziare le ambizioni alla leadership di Elly Schlein (ipotesi che, paradossalmente, in questo momento infastidisce anche Matteo Renzi). Politicismo puro, perché nel frattempo lo scontro Usa-Ue produrrà dei feriti sul campo, il governo Meloni si sentirà più forte, ma soprattutto le scelte economiche europee avranno una ricaduta in quello che viene chiamato warfare, un’economia sempre più di guerra che veicola una dinamica di conflitto globale dagli esiti imprevedibili. La presenza inquietante delle destre globali rievoca costantemente i paragoni con gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, ma la situazione mondiale oggi appare più simile ai primi decenni del secolo scorso e i preludi di guerra sono più simili alla Prima guerra mondiale che alla Seconda.
Per questo scendere in piazza il 15 marzo dietro una fantomatica, unica e immaginaria bandiera europea, non è una strada utile. Servirebbe una piazza contro Trump e contro il riarmo proposto da von der Leyen, per un nuovo ruolo degli organismi internazionali. La stessa Arci scrive che «quella piazza non riesce ad essere la nostra piazza fino in fondo e lo diciamo con grande serenità e rispetto». Non sappiamo se sarà attraversata da altre associazioni o da sindacati – la Cgil, nel momento in cui scriviamo, sta avendo una complicata discussione interna – in ogni caso al di là di questa piazza – calata dall’esterno sulle realtà associative e politiche – resta intatta l’esigenza di lavorare per costruire roccaforti sociali, movimenti permanenti e duraturi in grado di sedimentare nuove soggettività collettive che davvero evitino la solitudine e l’impotenza.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
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