
La parola Rivoluzione
Senza la prospettiva delle rivoluzioni non si comprende il presente, non si coglie il ruolo delle masse nei mutamenti storici, è impossibile pensare al futuro: due testi a confronto
Non è consueto trovarsi di fronte, simultaneamente, a due testi che hanno per oggetto la rivoluzione o le rivoluzioni. Due testi distanti per struttura e tesi di fondo, ma che offrono spunti di analisi e stimoli vibranti. Si tratta dei volumi di Francesco Benigno, Rivoluzioni, tra storia e storiografia e di Enzo Traverso, Rivoluzione, 1789-1989: un’altra storia.
Il loro filo comune è che le rivoluzioni aiutano a capire il presente, che l’azione politica delle masse modifica il corso della storia e che lo schema rivoluzionario, per quanto distante dall’agire politico contemporaneo, per lo meno nei paesi occidentali, permette di comprendere i salti storici e offrire uno sguardo sul futuro.
Le rivoluzioni viste «con gli occhi di prima»
Benigno compie una lettura trasversale delle rivoluzioni con uno sguardo molto centrato sulla Rivoluzione francese e sul secolo che la precede, oggetto peraltro di gran parte della sua indagine storica. E attiva subito nuovi dispositivi di indagine invitando a uscire dalla «doppia lettura egemone» che ha riguardato il tema della rivoluzione. Si intende la lettura «liberale-marxista» intesa come sguardo di matrice materialista-illuminista, che vuole la rivoluzione inscritta in una sorta di «autostrada verso il progresso», in direzione di un magnifico «sol dell’avvenire» dall’esito vittorioso e luminoso. Ma occorre uscire, avverte lo storico, anche dalla lettura opposta, quella «revisionista», sia pure animata da increspature e differenziazioni al suo interno, che genera un’equivalenza tra rivoluzione e totalitarismi rintracciando la genesi di questi non solo nell’esperienza drammatica del nazismo e del fascismo, ma anche nel bolscevismo e quindi nella Rivoluzione russa del 1917. Secondo questa lettura la rivoluzione è assurta a matrigna di una diramazione violenta e negativa della storia da espungere non appena sia possibile.
A legare lo sguardo conservatore e reazionario dei vari François Furet o Conrad Russell a quello degli storici «illuministi» c’è l’idea di un esito obbligato della Rivoluzione, letta soprattutto attraverso un approccio teleologico che però rischia di forzare i contenuti e i significati del processo rivoluzionario. «Una prospettiva che guardi a ciò che è accaduto in precedenza […] avrebbe il vantaggio non piccolo di evitare di leggere gli avvenimenti poi accaduti esclusivamente attraverso la retroproiezione delle categorie che la stessa Rivoluzione francese è venuta via via elaborando» scrive Benigno invitando a leggere il processo più con «gli occhi di prima» che con il senso di poi.
Qui c’è lo stimolo più interessante e originale del volume, pensare le rivoluzioni «prima delle rivoluzioni» permette di uscire da uno schema analitico in cui è la rivoluzione che «pensa» sé stessa, che offre le coordinate interpretative ai posteri come è accaduto con lo schema teorico su cui poggia, ad esempio, la rivoluzione francese. Benigno immagina però quali prospettive nuove possa aprire l’abbandono di una «‘grande narrazione’ teleologicamente orientata», se questo non rischi di lasciarci in mano solo «frammenti di una storia irrimediabilmente en miettes, segnata da una sorta di frantumazione pointilliste». È il pretesto per conferire una significanza e una centralità alle six contemporaneous revolutions del Seicento, non solo la rivoluzione inglese, ma quella catalana, olandese, la ribellione portoghese, la Fronda francese, la rivoluzione napoletana detta di Masaniello offrono «una forse maggiore possibilità di restituire la complessità dei significati in gioco». Un salto indietro per dotarsi di occhiali più nitidi che consentano «il raffreddamento» degli oggetti «rivoluzioni», un metodo per scomporne le tante facce, «l’irriducibilità a un meccanismo esplicativo semplice e prefissato».
Il freno d’emergenza
Con questo sguardo più laico e immerso nella concatenazione dei fatti, dei rapporti politici preesistenti, delle emozioni e delle reazioni psicologiche delle masse, anche il tema della violenza va riposizionato estraendolo dalla condizione di «ancella della ‘grande narrazione progressiva’», quasi un passaggio obbligato e quindi «accidente secondario» mentre invece per Benigno è «un tratto costitutivo della politica rivoluzionaria». Nel caso della Rivoluzione francese, atto cosciente e deliberato che procede verso una trasformazione della folla popolare in «folla rivoluzionaria» come dimostrerebbe il movimento sanculotto.
Lo sguardo freddo, ma non distante, di Benigno, mirato a mettere in evidenza i fatti per come si sono concatenati, viene applicato all’altra grande rivoluzione, quella del 1917, dapprima criticando analiticamente Il passato di un’illusione di François Furet di cui Benigno disarticola la tesi revisionista che vuole equiparare bolscevismo e nazifascismo accomunati, in fondo, da una «comune passione antiborghese». A Furet, paradossalmente, si contesta l’applicazione di una «prospettiva marxista» rovesciata. Quello che nel marxismo è la struttura produttiva in Furet è l’ideologia.
Contrastando questa lettura, l’autore volge lo sguardo verso una prospettiva analitica opposta, quella della «storia sotterranea». Benigno mette in luce la produttività di una possibile storia dalla parte dei vinti, «che vada alla ricerca degli avvenimenti scartati, dei percorsi che non hanno portato da nessuna parte, delle scelte infelici». Il lavoro di Michèle Riot-Sarcey, Le procés de la liberté, ha un ruolo centrale in questa idea della storia come scavo per seguire nel passato «le tracce effimere di chi ha cercato di affermare la libertà».
Si sente nitido l’eco di Walter Benjamin e qui Benigno lascia aperto lo spazio a un contatto con l’elaborazione di Enzo Traverso sia pure riferita al volume precedente (Malinconia di sinistra) che Benigno mostra di apprezzare anche se discute la tendenza di Traverso a ridurre «gli storici a individui riconducibili per intero a un orientamento politico-ideologico». La storia al servizio di un orientamento con la ricomparsa di una visione teleologica.
La distanza emerge più chiaramente in una recensione che Benigno stavolta fa del libro Rivoluzione e apparsa sul manifesto del gennaio 2022. Quella di Traverso, scrive l’autore, sembra «un’altra storia come un recupero, gigantesco e imponente, di percezioni tramandate, talune delle quali magnifiche, senza affaccendarsi troppo con le dinamiche concrete del potere e degli interessi, delle fazioni e dei gruppi politici e sociali […] Come se davvero si possa fare a meno della ricognizione faticosa di quella politique d’abord a cui i mondi rivoluzionari non sono stati affatto estranei. E come se la verità dei fatti accaduti, e in buona sostanza della storia, possa essere messa in secondo piano rispetto all’imperativo recupero dell’incanto rivoluzionario: cambiare il mondo».
La critica è ingenerosa perché il lavoro di Traverso non è sintetizzabile in una subordinazione a una lettura teleologica. Anzi, lo sforzo costante dell’autore di Rivoluzione è proprio quello di uscire da una logica deterministica e storicistica, di prendere le distanze dalla lettura egemone nel marxismo tradizionale, per il quale le rivoluzioni obbediscono alla legge storica della progressione costante.
Traverso applica certosinamente il metodo delle «immagini dialettiche» di Walter Benjamin, «un’immagine che abbraccia e comprende al contempo una fonte storica e la sua interpretazione». Costruisce così «una collezione di testi, immagini, corpi, statue, colonne, barricate, dipinti, poster, vite individuali» rifuggendo da una storia sequenziale delle rivoluzioni. La Zattera della Medusa di Theodore Gericault esposta al Louvre, la rivoluzione come «fissione nucleare» di cui parlava Benjamin, la «locomotiva della storia», il Jetzeit, il tempo-ora ancora del filosofo tedesco, costituiscono le occasioni per recuperare le «tradizioni nascoste» e offrire nuove possibilità alla Rivoluzione.
Si produce così un quadro costantemente sinottico basato su «un paesaggio mnemonico» che non è inserito in uno sviluppo lineare. Perché, spiega l’autore, le rivoluzioni «sono invenzioni, creazioni umane, eventi inattesi, interruzioni improvvise». «Pensare che appartengano al tempo regolare e cumulativo di una storia lineare è stato uno dei maggiori fraintendimenti della cultura di sinistra del Novecento, troppo spesso gravata dal retaggio dell’evoluzionismo e da un’ingenua idea di progresso». Si intravede ancora il famoso «freno di emergenza» immaginato da Benjamin per bloccare la corsa disperata dell’umanità verso la catastrofe.
Più che il fine vittorioso o la fine della storia, ne viene fuori una centralità della speranza e la «nostalgia» o «melanconia» non è tanto il ritorno a un’eco lontana, ma nostalgia per quelle possibilità inespresse, spesso dimenticate o sconfitte. Ecco che quindi Traverso benjaminiamente si affida alla «rammemorazione dei vinti» perché proprio nell’esperienza di coloro dai quali «noi siamo stati attesi», si trovano le radici controffattuali di una possibile verità storica.
Rivoluzioni esalta figure storiche come Auguste Blanqui, Louise Michel, Lev Trotzky, Antonio Gramsci, C.L.R. James e malinconia e rivoluzione si intrecciano alla ricerca di «pratiche di libertà». Da questa impostazione la critica all’involuzione della rivoluzione d’Ottobre è serrata. Lo stalinismo costituisce la fase di «regime» in quelle quattro fasi dei «comunismi» che si susseguono dopo il ‘17: prima la «rivoluzione», poi ancora «l’anticolonialismo» di cui la rivoluzione cinese costituisce il prodromo e infine il comunismo socialdemocratico o eurocomunismo che utilizza, forse impropriamente, Antonio Gramsci e che dura solo pochi anni.
Il soggetto che fa la storia
Ma è forse un altro il punto di maggiore distanza tra Benigno e Traverso, quella «seconda idea di rivoluzione» che scorre attraverso gli scritti di Marx e che «si focalizza sull’azione umana». Pur evitando il determinismo Marx mette l’accento «sulle potenzialità trasformative della soggettività politica». È il soggetto che fa la storia, che è storia di lotta di classe, e quindi fa la rivoluzione, esito dell’azione collettiva. Come scrivono Engels e Marx, «la storia non fa niente» è piuttosto «l’uomo, reale, vivente, che fa tutto, possiede e combatte tutto». La storia è dunque «un processo permanente di produzione di soggettività» e come scrive Trotzky nella monumentale Storia della rivoluzione russa, «la storia della rivoluzione è per noi, innanzi tutto, la storia dell’irrompere violento delle masse sul terreno dove si decidono le loro sorti». Questo approccio fa dire a Traverso che le migliori storiografie rivoluzionarie sono quelle che hanno saputo intrecciare causalità e azione umana e quindi cita, oltre a Trotzky, I giacobini neri di C.L.R. James, Borghesi e proletari nella rivoluzione francese, di Daniel Guerin, La revoluciòn interrumpida di Adolfo Gilly. Ma anche The Furies di Arno Mayer, un «capolavoro storiografico», è degno di nota per la mancata pretesa di svelare «le leggi della storia» insite nelle rivoluzioni che, in quanto invenzioni umane, «non possiedono un carattere ineluttabile». La fiducia nell’azione umana, quindi, non prende la piega tradizionale nella fiducia illuministica sulle «magnifiche sorti e progressive», quanto quella di «dinamiche singolari che cambiano il corso naturale delle cose». Per Benigno la tendenza a focalizzare l’attenzione sulla «soggettività» rischia però di semplificare lo sguardo che invece va «complicato», analizzando tutti i fattori che hanno inciso sugli eventi, uscendo da narrazioni epiche, dalle conseguenti «distorsioni anacronistiche» per riproporre «una lettura aggiornata, capace di illuminare criticamente il presente».
E distanza tra i due storici c’è anche sulla violenza. Come abbiamo visto per Benigno costituisce, soprattutto nella drammaticità della rivoluzione francese, un progetto politico, oltre che un prodotto di paura e di circostanze, e comunque un tarlo che mina il processo rivoluzionario e ne inficia le possibilità, soprattutto per quanto riguarda le rivoluzioni più recenti, quella russa soprattutto. Contesta quindi l’idea della violenza come «danno collaterale», qualcosa che può essere messo tra parentesi perché «subordinato all’essenziale» e quindi interno a un ingranaggio precostituito dal fine del processo.
Traverso parla della violenza, o meglio della «rivoluzione armata», come di un campo abbandonato dalla sinistra e oggi presidiato quasi solo dal fondamentalismo islamico che ha sostituito l’anticolonialismo e la liberazione nazionale «con la Sharia». Ma in questo caso non si tratta di una postura nostalgica, Traverso anzi nota come l’abbandono di quel terreno equivalga all’abbandono di tradizioni del passato con i movimenti anticapitalisti odierni tendenzialmente «ugualitari, antiautoritari, anticoloniali». Ma la violenza del passato è comunque interpretata alla luce di quell’irruzione delle masse nella storia di cui abbiamo già detto e che costituisce un prisma analitico più consolidato.
Se da un lato si cerca di evitare narrazioni formattate vagliando le rivoluzioni attraverso il «gioco politico ordinario delle influenze, dei rapporti di potere, dei legami clientelari e fazionari» come fa Benigno, dall’altra, con Traverso, le rivoluzioni sono vagliate attraverso la «rammemorazione» per costituire ancora una possibilità storica basata sulle tradizioni nascoste, sulle invenzioni umane e su una fiducia ancora importante posta sull’azione umana, sulla soggettività rivoluzionaria.
Le rivoluzioni non arrivano in orario
Scritti in tempi diversi i due testi in realtà avrebbero potuto, e possono, trovare una sintesi, sia pure parziale, nelle riflessioni di Riot-Sarcey e nel suo Le procès de la liberté. Si tratta infatti di una lettura della storia che accoglie l’ambizione dei due autori qui affrontati di evitare una linearità inevitabile, «senza più tener conto dei rapporti di forza da cui è stata prodotta». «Si valorizza, scrive la storica francese, quello che avviene a posteriori, a detrimento dei possibili le cui tracce si perdono nel dedalo delle razionalità dominanti». Questa lettura storica è resa possibile dall’esaltazione della «singolarità del momento storico» che cade troppo spesso nell’oblio nonostante abbia «modellato il movimento storico».
Questo approccio è particolarmente efficace per descrivere e cogliere le rivoluzioni, fatte di tante singolarità che poi vengono ordinate e raccontate successivamente più con gli occhi dei posteri che con quelli degli attori del presente. La teleologia è sempre lì in agguato alimentata da un’idea di progresso che può arrivare al paradosso fukuyamano di porre idealisticamente fine alla storia stessa. Riot-Sarcey invece recupera il gesto benjamiano della «rammemorazione» del passato con il desiderio di rispondere «alle attese dei vinti impossibilitati ad accedere al passato dimenticato» cui la storica del XIX secolo «intende ridare vita restituendogli la sua storicità».
Se quindi parliamo di rivoluzioni, con Benjamin abbandoniamo l’idea della trasformazione inscritta in un moto progressivo e finalistico e recuperiamo invece il concetto di tempo spezzato, di evento inatteso, di freno della corsa verso la catastrofe. Sono queste le chiavi che vengono proposte per leggere innanzitutto un tema centrale del passaggio rivoluzionario, l’idea di libertà.
La guida in questa ricerca della singolarità storica, e delle tante singolarità raccolte le une accanto alle altre senza un ordine prestabilito, come a «svincolare l’oggetto studiato dalla storicità del tutto», è «l’idea di libertà»: «Dalla Rivoluzione francese agli anni 1910, una libertà costantemente ostacolata da tutta una serie di costrizioni che, nel corso della storia, bloccano gli individui. La chiusura è esattamente il contrario dell’idea di libertà, la quale incompleta, incompiuta, è sempre in divenire».
Ecco dunque che si apre lo spazio di una narrazione della rivoluzione attraverso coordinate che non costringono gli eventi dentro un canovaccio, ma applicano alcuni criteri, la storia dei vinti, la libertà incompiuta, che possono restituire tutta la vitalità del singolo momento storico, lasciando parlare gli eventi per quello che sono realmente, accostandoli gli uni agli altri e finalmente «a riconsiderare tutti gli attori, compresi quelli che non hanno avuto accesso allo statuto di soggetti della propria storia».
Coerentemente con lo studio e la narrazione delle rivoluzioni ci si deve quindi disporre a un racconto che non si conclude, in cui la rammemorazione è sempre possibile, l’evento, come scrive Gilles Deleuze in Qu’est-ce que la philosophie?, «nel suo divenire, nella sua propria consistenza, nella sua autoposizione come concetto, sfugge alla Storia».
L’evento va quindi strappato alla continuità «di un pense pensèe du possible», alle letture globalizzanti, all’incasellamento posticcio.
L’evèvenement dans sa dimension politique est tout ce qui surprend, dèstabilise le course normal des choses: une conjoncture impensable dans les termes traditionneles au moment de son avènement, et qui est irreductible au mode de pensèe commun, à la doxa (Riot-Sarcey, Le Réel de l’utopie, cit. in pag. 326).
L’evento è inatteso e quindi va seguito nel suo divenire, colto nel momento in cui sorprende i soggetti del presente perché, dice Riot-Sarcey citando Le National del 1830,
une revolution peut bien etre la dernière des révolutions arrivées, mais elle n’est jamais la dernière des revolutions possibles (cit., pag. 327).
«Le rivoluzioni sono raramente in orario» scrive il filosofo francese Daniel Bensaïd introducendo i testi e le corrispondenze tra Marx e Engels sulla Comune di Parigi. E continua: «Non conoscono il just in time. Sono dilaniate tra il ‘non più’ e il ‘non ancora’, tra ciò che viene troppo presto e ciò che viene troppo tardi». Anche Bensaïd segue il metodo benjamiano, si sofferma sui vinti, sulle tracce lasciate dai soggetti più che sulla ricostruzione oggettiva degli eventi e sull’evento come imprevisto inatteso che irrompe e spezza il corso storico e che comporta una lettura storica fuori dal contesto definito dalla ricostruzione, centrata sui protagonisti. «Di questa temporalità politica non lineare, sincopata, piena di nodi e antinodi, le rivoluzioni sono l’estrema rappresentazione. I compiti del passato, del presente, dell’avvenire vi si accavallano e intrecciano». E così nel 1848 il proletariato conquista la Repubblica, imponendosi sul terreno, anche se non è ancora pronto come si vedrà poi nella repressione di giugno.
La rivoluzione in permanenza
Marx nel suo Le lotte di classe in Francia ricostruisce minuziosamente gli eventi e cerca di isolare incessantemente le diversità tra febbraio e giugno: «Rivoluzione significava dopo giugno: rovesciamento della società borghese, mentre prima di febbraio aveva significato: rovesciamento della forma dello Stato». La minuziosità dell’evento non elimina l’approccio marxiano per una scrittura dei fatti che cerca di collocarsi dentro un contesto ben definito in cui, però, per la prima volta si analizza la rivoluzione fatta dal proletariato, se ne studiano i comportamenti, le scelte, gli errori, l’immaturità sul campo e soprattutto la sua profonda differenza sociale con quella borghesia che costituisce l’attore principale della rivoluzione del 1848. Lo scritto di Marx permette di descrivere in termini di classe gli attori della rivoluzione, la prima a vedere in campo il proletariato, e sarà la relazione tra le classi, la scelta della borghesia del National di allearsi con il «partito dell’ordine» di stampo orleanista, a soffocare la rivolta operaia e a imporre a quest’ultimo il tema, qui introdotto nel pensiero del marxismo rivoluzionario per la prima volta, della «rivoluzione in permanenza […] quale punto di passaggio necessario per l’abolizione delle differenze di classe in generale». La rivoluzione permanente, così descritta da Marx, verrà recuperata in pieno da uno dei protagonisti della rivoluzione russa, Lev Trotzky, che la utilizza come strumento analitico per spiegare come il partito bolscevico non si sia fermato all’insurrezione del febbraio ‘17, che porta alla caduta dello zar e al governo Kerensky, non si sia accontentato della rivoluzione «democratica» in cui pure i partiti operai, come il partito socialista rivoluzionario e quello menscevico sono al governo, ma voglia arrivare alla «dittatura del proletariato» con la seconda rivoluzione di ottobre e la presa del potere politico per i consigli degli operai, contadini e soldati: i soviet. . Al di là degli esiti e delle evoluzioni di quella vicenda è il concetto di permanenza che interessa evidenziare perché costituisce comunque un richiamo a quella esigenza fondativa di una rivoluzione che non può essere concepita a tappe e descrizioni pittoriche, oggettivazioni stantie del processo storico, ma va colta in una processualità che spesso non può essere catturata.
I pensatori marxisti, come Trotzky, Lenin, e poi ancora Gramsci, anche applicando la filosofia «dialettica» e quindi esibendo una concatenazione totale dei fatti, tenderanno comunque a conferire a questo libero processo i caratteri di una continuità senza giungere agli eccessi e alle sevizie del cosiddetto materialismo dialettico (Diamat) di formazione staliniana in cui tutto ciò che è avvenuto viene, molto hegelianamente, inserito nel corso della «locomotiva della storia». L’opera di Marx in particolare, non è ancora definibile compiutamente in questo senso anche grazie alla contemporaneità con gli eventi e alla capacità di saper sfruttare quegli avvenimenti per nutrire la riflessione sia negli scritti politici sul ‘48 e poi sulla Comune di Parigi, sia nell’elaborazione teorica.
Ma la torsione analitica che la ricostruzione di Riot-Sarcey conferisce agli eventi, la capacità di recuperare sapientemente una memoria storica su cui è calata la coltre alimentata dal progressismo storico , l’adozione di un punto di vista che ruota sul bisogno di libertà (e andrà compreso meglio di che tipo di libertà parliamo visto che la stessa autrice coglie i limiti della libertà individualistica liberale) e sulla necessità di fondare una «democrazia sovrana», offrono appigli per uno studio della rivoluzione fuori dalle liturgie e dalle convenienze del tempo attuale per andare a riscoprire i moventi all’agire e i problemi storici sedimentati in coloro che, per dirla con Benjamin, «ci hanno atteso sulla terra».
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre).
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