
La partita infinita del Flaco e del Gordo
Il nostro racconto di Natale è uno squarcio distopico calcistico. Si svolge nella discarica del mondo, dove Osvaldo Soriano incontra Philip K. Dick
Il Flaco si arrampicò agile sulla montagna di componenti elettriche, meccaniche e magnetiche, scavalcò monitor segnati dall’usura del tempo e carcasse di plastica e metallo. Evitò fili spezzati, lampadine rotte e schede di silicio frantumate. Poi diede la mano al Gordo e lo aiutò a salire.
L’alba stava sorgendo plumbea e lattiginosa sull’immensa discarica, e i due bambini si fermarono un attimo in cima a riprendere fiato. Sapevano entrambi cosa fare. Il Gordo avvicinò il polso nel quale aveva impiantato lo scanner ottico e cominciò a rilevare tutti i dati a disposizione. Il Flaco, poco più grande di lui, lo guardava soddisfatto: era fiero di aver insegnato il mestiere al Gordo, che altrimenti avrebbe rischiato di finire male. I due amici erano oramai a tutti gli effetti dei recuperatori professionisti.
Il mestiere consisteva nel viaggiare da una discarica all’altra per collegarsi a vecchi telefonini, computer, tablet e altri dispositivi elettronici di epoche antiche, per raccogliere il maggior numero di dati possibili. E nelle discariche ce ne era una quantità immensa, dimenticata. Poi i dati erano trasferiti ai server delle grandi multinazionali, che li usavano per sviluppare le intelligenze artificiali. Era un lavoro riservato ai bambini delle zone esterne, i paria, senza nome e senza futuro, gli unici che per racimolare un pasto erano disposti a uscire dai tunnel e dalle gallerie dove vivevano e avventurarsi nelle discariche, certi di ammalarsi.
Dopo qualche ora, quando il caldo stava diventando insopportabile, nonostante che del sole non ci fosse traccia, coperto com’era da quella coltre biancastra densa e putrescente che minacciava costantemente di sfracellarsi al suolo, il Gordo chiamò il Flaco. Aveva trovato qualcosa che voleva fargli sentire.
Era una storia di calcio, raccontata da Francisco Piedra, uno scrittore sudamericano dell’era dell’antropocene. Si narravano le incredibili meraviglie della partita più lunga del mondo, giocata tra due squadre dello stesso paese, di più, della stessa città. In palio era il trofeo più ambito e prestigioso, e non era mai successo che fossero due squadre così vicine geograficamente e sentimentalmente a contenderselo.
La partita, raccontava Francisco Piedra, era cominciata all’inizio dell’estate in uno stadio assai curioso, cui mancava un lato, chiamato per questo Bombonera. Sembrava incastonato nel sottosuolo di quel piccolo quartiere portuale nato su una villa miseria di baracche di lamiera per gli schiavi. La città era paralizzata. Quell’immensa megalopoli affacciata sull’estuario del Rio della Plata, aveva conosciuto gioie e dolori, feste e tragedie, rivolte e dittature. Nulla era però paragonabile a quanto stava succedendo. La finale di Copa Libertadores tra Boca Juniors e il River Plate: il Superclàsico più super di tutti i tempi.
Il silenzio quel giorno era assordante. Allo stadio e fuori. Qualcuno anni dopo raccontò che una sola mosca impunemente provò a volare, ma un gaucho la stese con un colpo di pistola da chilometri di distanza. L’esplosione nel tamburo, il sibilo del proiettile, lo spiaccicarsi della mosca al suolo, furono gli unici rumori che si sentirono. Poi di nuovo silenzio. Fino al fischio d’inizio dell’arbitro che risuonò nella pampa. Da allora cominciò un frastuono il cui eco in alcune zone della Patagonia non si è ancora attenuato.
Le due squadre in campo non erano infatti semplici rivali, ma due modi totalmente opposti di intendere la vita e il pallone. La loro inimicizia era leggendaria. Da una parte il club fondato per primo nel quartiere portuale della Boca dagli emigrati del Nord Europa, che inglesizzarono il nome del fiume in River Plate e appena poterono si spostarono nei quartieri altri, a Belgrano, guadagnando il soprannome di Millonarios. Dall’altra la squadra dei migranti dell’Europa del Sud, che fondarono la loro dopo qualche anno e la chiamarono semplicemente con il nome del quartiere, aggiungendo poi un inglesismo preso a caso per non essere da meno degli avversari. I tifosi del Boca Juniors, che nascono e muoiono poveri, saranno per sempre i Bosteros, come la merda dei cavalli.
Mentre il caldo continuava ad aumentare, il Flaco e il Gordo ascoltavano rapiti questa storia, la visualizzavano nelle retine artificiali e si dimenticavano di quello che li circondava. Una fetida e marcescente discarica che si estendeva a perdita d’occhio sotto una canicola che stava diventando insopportabile.
Intanto, senza che i due bambini se ne rendessero conto, come per magia nel racconto i nomi delle due squadre erano cambiati. Ora a sfidarsi nella stessa partita erano l’Estrella Polar e il Deportivo Belgrano. E il nuovo narratore, sosteneva lo stesso Francisco Piedra, si chiamava Osvaldo Soriano. Come la partita tra Boca e River fu sospesa all’infinito, perché negli stessi giorni in città erano scesi in città i grandi Proprietari della Terra per una riunione che si chiamava G20, ed erano esplosi tumulti la cui radice non si poteva dire fosse politica o sportiva, così anche la partita tra Estrella e Deportivo era stata sospesa, dopo che lo sceriffo della città aveva dichiarato “lo stato di emergenza, o qualcosa del genere, e fece preparare un treno per allontanare dal paese tutti quelli che non sembravano del posto”.
La sovrapposizione tra el Gato Diaz, portiere dell’Estrella tormentato dall’amore per donna Rubia e dall’amletica domanda su dove buttarsi per parare il rigore, se dove sapeva che l’attaccante l’avrebbe tirato o dove sapeva che l’attaccante l’avrebbe tirato sapendo che lui sapeva, e Hugo Gatti, il portiere del Boca che giocava con i piedi e la bandana in testa senza mai smettere di parlare con i compagni, gli avversari e il pubblico, reso quasi folle dall’amore per la sua Rubia e dall’odio per il nemico, rendeva ancora più complicato individuare il confine tra le due storie. Sempre che fossero due. Perché un gatto è sempre un gatto e Belgrano, beh, Belgrano era il quartiere ricco dove si erano trasferiti dalla Boca i Millonarios del River.
Il tutto divenne ancora più sorprendente quando Osvaldo Soriano cominciò a sostenere che il suo amico Mario Benedetti, che viveva nella città speculare e opposta a Buenos Aires, quella Montevideo separata dal Rio della Plata e da rivalità storiche e politiche antiche quanto quelle tra Boca e River, aveva raccontato anche lui di una partita infinita: la sfida tra Defensor e Renistas. E subito Francisco Piedra intervenne, per dire che era vero, anche lui aveva sentito questa storia di Mario Benedetti. E allora le storie da due divennero tre.
Era l’ultima giornata di campionato, in un anno sospeso tra l’inizio della partita tra Estrella e Deportivo e l’inizio di quella tra Boca e River. In Uruguay s’imponeva feroce una dittatura organizzata dagli stessi Proprietari della Terra che si sarebbero incontrati anni dopo a Buenos Aires nel G20, e una vittoria del Defensor, squadra di seguito operaio e simpatie comuniste del quartiere di Punta Carretas, sarebbe stata un evento straordinario. Non solo sarebbe stata la prima volta nella storia che a vincere il titolo non erano Nacional e il Peñarol, le due grandi squadre di Montevideo che si erano sempre divisi la posta in palio, ma sarebbe stato un duro colpo per il regime.
Il Defensor, soprannominato Violeta per il colore della divisa, al termine della partita infinita contro il Renistas, in cui un intero paese trattenne il fiato e non fece alcun rumore, incredibilmente vinse: conquistando il titolo di campione di Uruguay per la prima e forse unica volta nella storia. E per tutta la città, e per tutto il paese quel trionfo divenne, raccontava Mario Benedetti, “la prova che la dittatura non era un’entità incrollabile”. E i suoi giocatori festeggiarono percorrendo il giro di campo al contrario, contro l’ordine e gli ordini del regime, come aveva chiesto il loro allenatore el Mago De León, teorico del calcio totale e della lotta di classe marxista. In campo e fuori. Il Flaco e il Gordo sorrisero, pensando che il calcio può sconfiggere i regimi. Ma la loro felicità fu breve.
Il racconto continuava, e Osvaldo Soriano rivelò che Mario Benedetti dovette abbandonare l’Uruguay a causa del persistere della dittatura, che cominciava a traballare ma non era stata del tutto affossata dalla vittoria della Violeta, per rifugiarsi in Argentina. Poi Francisco Piedra proseguì, e disse che Mario Benedetti e Osvaldo Soriano dovettero abbandonare a loro volta l’Argentina, proprio durante una partita di calcio, perché il virus della dittatura aveva attraversato il Rio della Plata e aveva conquistato anche l’Argentina.
Anche la partita infinita tra Estrella Polar e Deportivo Belgrano sembrava essere giunta al termine, con il lunghissimo rigore decisivo parato da el Gato Diaz. Ma i due bambini non potevano esserne certi, perché Hugo Gatti era ancora in campo. Dopo il pareggio nella partita di andata e il rinvio di quella di ritorno per i tumulti del G20, la finale di Copa Libertadores sembrava infatti sospesa nell’eternità. Non si sapeva se, e come, e quando sarebbe stata giocata la sfida di ritorno. Fino a al punto in cui, come Mario Benedetti fu costretto a fuggire dall’Uruguay e Osvaldo Soriano a scappare dall’Argentina, anche il Superclàsico fu costretto a svignarsela da Buenos Aires.
La partita non apparteneva più né ai tifosi del Boca né a quelli del River, né ai Bosteros né ai Millonarios, né agli abitanti della Boca né a quelli di Belgrano. Apparteneva ai dirigenti delle due squadre, invischiati con la politica di estrema destra che allora reggeva il paese e con le multinazionali che la sostenevano. Ai burocrati della Comnebol e della Fifa, che organizzando Coppe e Campionati del Mondo in America Latina avevano sempre aiutato i regimi e fottuto i calciatori. E il popolo. Apparteneva alla dittatura, quella che da sempre organizzava le partite di calcio e non le faceva mai finire.
E fu così che la Copa Libertadores, divenne Copa Conquistadores, finendo con l’essere giocata mille e mille miglia lontano da Buenos Aires. A Madrid, da dove erano partiti secoli prima i terribili saccheggiatori dell’America Latina per riportare a casa l’oro, le spezie e anche la Rubia: che era la donna del Gato Diaz e il soprannome di Alfredo Di Stefano, giocatore che il Real Madrid rubò al River Plate, che c’è sempre chi è più Millonarios di te, raccontava Osvaldo Soriano a Francisco Piedra, mentre Mario Benedetti annuiva pensieroso.
Il Flaco e il Gordo non sapevano più se la partita fosse stata una sola, due o tre. Se queste partite fossero mai cominciate davvero e soprattutto se fossero mai finite. E non osavano decidere se fossero stati tutti racconti di fantasia o eventi realmente accaduti, in quell’era lontana chiamata antropocene. Con il sorriso stampato sulla bocca e gli occhi brillanti di gioia, presero la carcassa di un vecchio computer da tavolo che aveva assunto una forma oramai sferica e cominciarono a tirare calci a quella palla improvvisata.
Il sole, anche se restava nascosto dietro la coltre lattiginosa, aveva oramai raggiunto l’apice del giorno. Il caldo era diventato insopportabile e la discarica cominciava a diventare incandescente, effondendo esalazioni tossiche e nauseabonde. I due bambini non avrebbero mai fatto in tempo a tornare nei cunicoli o nelle gallerie sotterranee. Impegnati in una partita che si prospettava infinita, quell’anno non avrebbero festeggiato il Natale con gli altri bambini del sottosuolo, che presto si sarebbero dimenticati di aspettarli. Eppure inseguendo quel pallone, avrebbe raccontato qualcuno molti anni dopo, il Flaco e il Gordo sembravano per la prima volta davvero felici.
*Luca Pisapia, giornalista, ha collaborato con La Gazzetta dello Sport e con il Fatto Quotidiano, e attualmente scrive di calcio e società su il manifesto. È autore di Gigi Riva. Ultimo hombre vertical (Lìmina, 2012) e Uccidi Paul Breitner (Alegre Quinto Tipo, 2018).
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