La perseveranza delle élite
In Germania vola l’estrema destra, in Francia Macron punta a spaccare la sinistra e a evitare soluzioni sociali più radicali. L’establishment europeo resta inchiodato ai propri fallimenti. L’unica speranza è una sinistra di combattimento
Tra le ipotesi contemplate dal presidente francese Emmanuel Macron per l’incarico di primo ministro dopo le elezioni legislative tenutesi ormai a luglio, c’è quella di un «tecnico». Si tratta di un nome, Thierry Beaudet, sconosciuto al grande pubblico, e che importerebbe oltralpe un metodo a tutela dell’establihment sperimentato ampiamente in Italia. Un Draghi alla francese, ma si potrebbe dire anche un Monti o un Ciampi, gli esempi non mancano (e quest’ultimo è forse quello più indicato, come vedremo).
La soluzione – ancora ipotetica, su cui Macron sta testando l’opinione pubblica e il suo stesso schieramento (dal quale emerge però più di un malumore essendo ampie e complesse le ambizioni politiche del centrismo francese) – assume una valenza indicativa della perseveranza con cui le élite d’Europa gestiscono le società occidentali e, in particolare, i propri affari proprio perché ventilata a ridosso della clamorosa ascesa dell’estrema destra in Germania. Qui, la formazione che non fa mistero di recuperare motti e toni del nazionalsocialismo hitleriano, la nera Afd, sfiora il 33% in Turingia, primo partito davanti alla conservatrice Cdu e diventa il secondo partito con il 31% in Sassonia. Un risultato che era già visibile alle scorse elezioni europee quando l’Afd aveva raggiunto il 16% su scala nazionale rappresentando una svolta politica generata dalla crisi economica prolungata e dalle politiche di austerità europee – che hanno visto finora i vari centrosinistra continentali come i principali sostenitori – tramutate in odio verso i migranti e distanza pronunciata dall’impegno bellico in Ucraina.
Estrema destra tedesca e crisi della governance neoliberale
Il voto in Germania, per quanto limitato alle regioni dell’est tedesco, rende visibile una tendenza di fondo che non può essere rimossa né sterilizzata tramite anatemi, negazioni della realtà da parte del quadro politico esistente che si rifiuta di vedere nell’ascesa della destra estrema, in Germania come in Francia o in Italia, il sintomo maledetto, ma reale, di una crisi sociale di fondo. Una crisi di un «sistema di vita», si potrebbe dire, quello europeo occidentale, fondato sull’ordine capitalistico e sui suoi valori di contorno. E invece la reazione spontanea è quella di chiamare in causa ipotetiche influenze russe, di impiegare costantemente giudizi superficiali, ricorrere istintivamente all’ormai abusata definizione di «populismo» quasi che quel sintomo non avesse cause o motivazioni forti.
Si prenda la reazione consegnata a X del commissario Ue italiano, Paolo Gentiloni: «Exploit della peggiore destra europea (e ottimi risultati della peggiore sinistra) in Sassonia e Turingia. Amici dei russi in quella che fu la Germania satellite dell’Urss. Nemici dei migranti nell’area tedesca con meno immigrazione. Vince il rancore contro tutto e tutti». Come se quanto avvenuto domenica 1 settembre non avesse padri e madri, concause e precedenti accumulatisi nel tempo – l’Afd è sulla cresta dell’onda da anni e la sinistra europea si è limitata a osservarla con sospetto ma senza agire mai sulle proprie scelte di fondo.
Anche perché non c’è solo l’Afd a dimostrare la corda delle politiche di austerità «europeiste», ma anche l’altro boom elettorale rappresentato dal partito di Sahra Wagenknecht (il Bsw) che ottiene l’11,8 in Sassonia e il 15,8 in Turingia, surclassando il resto della sinistra. Anche questo viene presentato come una calamità naturale mentre rappresenta chiaramente una crescente sfiducia nei confronti dei vari centristi, in particolare di sinistra visto che la Cdu mantiene la sua consistenza, a cui si oppone un programma di sinistra-nazionalista associando a posizioni più nette sulle questioni sociali un approccio più conservatore sui temi della migrazione e dell’ambiente.
Il termine «rosso-bruno» utilizzato dai quotidiani italiani, adoratori del Patto di stabilità e seguaci imperterriti della Banca centrale europea, qualunque cosa questa faccia, non aiuta a cogliere a fondo la dimensione dell’influenza sociale del Bsw anche se l’affermazione di una simile impostazione crea alla sinistra più radicale europea diversi problemi. Wagenknecht ha reso esplicita la spaccatura della Linke da cui ha operato la scissione che l’ha portata al 6% delle europee di qualche mese fa e le divisioni sul tema dei migranti – che rappresenterà il tema decisivo delle prossime elezioni politiche con la Cdu ormai disposta a dialogare su questo con le forze alla sua destra – metterà ancora più in evidenza una situazione di divisione e di crisi resa ancora più esplicita dalla recente spaccatura del Partito della sinistra europea.
Ma il punto è l’atto di accusa evidente portato alle politiche di compatibilità capitalistica, di sostegno al militarismo Nato e conservazione dello status quo sociale da parte del centrosinistra al governo. A essere colpiti direttamente dal voto nell’est tedesco sono infatti i tre partiti della coalizione di governo, la Spd di Olaf Scholz, i Verdi e il Partito Liberale Democratico (Fdp). In Turingia, i Verdi e l’Fdp sono entrambi usciti dal parlamento statale dopo non essere riusciti a raggiungere la soglia del cinque percento e tutti e tre i partiti della coalizione in Turingia insieme hanno ottenuto poco più del 10 percento dei voti. Si presenta così una situazione di riflessione profonda per una coalizione, il governo «semaforo» (dai colori, rosso, giallo e verde, dei tre partiti) che potrebbe non arrivare alla scadenza naturale del 2025. La Cdu, infatti, ha iniziato la sua offensiva e molti parlamentari conservatori hanno ieri dichiarato che con l’Afd non è impossibile governare, un qualche compromesso si può anche trovare soprattutto per una politica di ferro contro l’immigrazione.
Il paradosso della protesta anti-establishment, ancora una volta (vedi Fratelli d’Italia) è quello di un nazionalismo che non esita ad assorbire le politiche liberiste rendendole solamente più violente nei confronti della composizione materiale, in questo caso razzializzata, della working class.
La bussola di Macron: preservare l’ordine economico
L’attrazione fatale per i tecnocrati si spiega dunque in una visione di lungo periodo in cui richieste «populiste» di destra – politiche più xenofobe – possono integrarsi in un programma liberista producendo un incontro fruttuoso tra centristi e destra. È successo già in Italia con il fascismo, potrà succedere ancora. Basta capire la ragione di fondo per cui le élite francesi respingono con sdegno la soluzione politica, instabile certo ma democraticamente fondata, consegnata loro dalle urne, di un governo del Nuovo fronte popolare (Nfp).
L’ipotesi di un incarico da primo ministro a Lucie Castets, la designata dai quattro partiti che compongono il Nfp è stata seccamente respinta da Macron provocando il sollievo di Patrick Martin, presidente del Medef, la Confindustria francese, che si è sentito «rassicurato». Martin si è riferito soprattutto alla riforma delle pensioni portata a termine dal governo macroniano di Elisabeth Borne, che ha spaccato la Francia e unito tutte le sinistre e che il Nfp ha annunciato di voler quanto meno sospendere. Quel «sollievo» è il tratto che unisce diversi attori politici e sociali apparentemente distanti: gli industriali, il centrismo macroniano, ma anche la destra di Marine Le Pen secondo cui un governo Nfp «perseguirebbe una politica pericolosa per i francesi».
Patrick Martin ha avuto così il merito di mettere in evidenza il volto sociale del macronismo, del tutto chiaro dopo sette anni di potere, chiedendo la continuazione delle «politiche pro-business» portate avanti da almeno il 2017 e rivelando così qual è la posta in gioco dell’incarico di formare il governo in Francia. Come scrive il quotidiano francese Mediapart, quel che si ricava da certe ricostruzioni è semplice: «L’unica bussola che determina le scelte di Emmanuel Macron è la preservazione dell’ordine economico».
Per questo è quasi indifferente che si nomini un tecnico come Beaudet o un socialista come Bernard Canezeuve, ministro di François Hollande o ancora un «gollista» come Xavier Bertrand, già ministro del Lavoro con la presidenza Sarkozy, o qualsiasi altra figura possa uscire dal cilindro magico di un presidente francese ormai delegittimato. Il senso politico non cambia: qualsiasi scelta è giusta pur di non toccare l’ordine esistente, la logica «pro-business», un governo benedetto dal «capitale».
Si tratta di una perseveranza delle élite che non fa altro che spianare ulteriormente la strada alla destra – ma si spera anche alla sinistra più radicale, nel caso in cui in Francia il Nuovo fronte popolare non disperdesse la propria compattezza di fronte a una mossa disperata di Macron – esattamente come accaduto in Germania e nella stessa Francia o in Italia. Una perseveranza stolida che non si limita solo al controllo assoluto del potere da parte di un classe politica sempre più scollata dalla società – c’è anche questo, come dimostrano i dati sull’astensionismo che però in Germania si è ridotto di molto – ma l’assoluta impossibilità di essere diversi da quel che si è.
Una partita che riguarda tutto il continente
L’assoluta analogia tra Germania, Italia e Francia dove il centrosinistra a trazione «riformista» (chiedendo perdono a Turati o Matteotti per lo scempio che nel linguaggio corrente viene fatto di quel termine) ha prodotto gli stessi guasti e le stesse conseguenze. Le ombre inquietanti del Rassemblement national, dell’Afd e di Fratelli d’Italia sono lo specchio in cui si riflettono i disastri politici e sociali compiuti da sedicenti riformisti illuminati come Macron, Draghi o Scholz. In questo senso, ci si permetta la digressione italiana, è abbastanza lunare il dibattito nel centrosinistra attorno al possibile recupero di Matteo Renzi, figura che per la storia e l’influenza avute, dovrebbe rappresentare, al contrario, un collante a negativo, basato sulla sua assoluta distanza da ogni progetto di alternativa.
La Francia però mostra anche un altro elemento non indifferente: la caparbietà con cui Macron ha evitato un’ascesa al potere del Nfp dice che anche un programma tutto sommato keynesiano e compatibile con l’impresa, come quello che gestirebbe un governo Castets, appare inaccettabile alle élite europee. Il programma del Nfp, che abbiamo approfondito dettagliatamente su Jacobin Italia, è un programma basato sull’intervento pubblico, sulla difesa del salario e sul ripristino di diritti sociali elementari, come quello alla salute. Eppure l’avversione per quelle misure è riuscita a unire i soggetti di cui abbiamo parlato poc’anzi: si tratta di una constatazione che non deve indurre a moderare i propri obiettivi, semmai a radicalizzarli perché per quanto moderate, posizioni politiche di tutela della working class saranno contrastate ferocemente anche dai falsi amici riformisti, come Macron sta dimostrando al mondo intero.
L’operazione politica in Francia ovviamente ha anche un suo lato politico politicienne. Macron ha come obiettivo fondamentale quello di spaccare la sinistra e portare dalla sua parte un pezzo del Partito socialista e anche altri settori. La biografia di Beaudet è esemplare. Si tratta del presidente del Consiglio economico, sociale e ambientale (Cese), una sorta di Cnel, che rappresenta la terza Camera costituzionale della Repubblica dopo l’Assemblea nazionale e il Senato. Un organismo che punta a tenere in equilibrio gli interessi dei lavoratori e quelli delle imprese. Thierry Beaudet è un ex insegnante che poi ha conseguito anche un diploma di studi superiori in gestione economica e sociale presso l’Università di Parigi nel 1996, nonché, udite udite, un master 2 in governance mutualistica presso l’Università di Versailles-Saint- Quentin-en-Yvelines nel 2013. Una candidatura che sembra fatta apposta per presentare la riforma delle pensioni come giusta e ineliminabile da parte di chi conosce la materia visto che è stato a capo della Federazione Nazionale della Mutualità Francese, dal 2016 al 2021. Per capire la modalità mediatoria della candidatura basti pensare alla sua dichiarazione resa a caldo dopo le elezioni legislative: «Ancora una volta queste elezioni hanno messo in luce le profonde fratture che attraversano la nostra società. Non possono più essere ignorate. […] La nostra democrazia è vulnerabile. Per preservarla bisogna agire con rigore e coinvolgere pienamente i cittadini e gli organismi intermediari». Una grande concertazione alla francese, insomma, che permetta di mettere alle strette settori consistenti della sinistra, e probabilmente del sindacato. Fa fede la reazione dell’omologo italiano di Beaudet, Renato Brunetta appunto presidente del Cnel: «Beaudet è un tecnico che incarna perfettamente la società civile […] un profilo come il suo conferma il ritorno al protagonismo dei corpi intermedi». Sembra di assistere così a un ritorno ai primi anni Novanta, per lo meno per quanto riguarda l’esempio italiano, quando la crisi di ingresso nell’Europa di Maastricht fu affrontata con il sostegno del sindacato. Per questo si tratta di un’ipotesi più à la Ciampi che à la Draghi.
Si vedrà se sarà questa la decisione finale di Macron. Come detto l’obiettivo è dividere il Partito socialista al cui interno c’è una componente rilevante – ma inesistente sul piano parlamentare – che vuole recidere l’alleanza con la France Insoumis di Jean-Luc Mélenchon e tornare a una prospettiva di pieno compatibilismo come quello incarnato, del resto, dall’ultimo governo pilotato da François Hollande. Per ora il Ps sembra voler tenere, ma il problema vero è, vista l’indisponibilità a conferire l’incarico a Castets, la capacità del Nfp di mantenere l’unità dopo la formazione del nuovo governo e di rappresentare quell’alternativa secca e radicale all’ipotesi lepenista.
Se c’è una possibilità in Europa per non cadere di nuovo nel buco nero del nuovo fascismo è che si mantenga e si renda visibile una sinistra di combattimento. La partita che si sta giocando in Francia è una partita che riguarda tutto il continente.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
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