La piattaforma Di Maio
In meno di un anno di governo con la Lega, l’aura anti-establishment del M5S pare sbiadita. Il brand che chiede deleghe in bianco in nome dell’anti-casta da oggi in poi difficilmente potrà pescare voti da ogni posizione politica
I risultati delle elezioni regionali in Sardegna non hanno rappresentato per il Movimento 5 Stelle soltanto un tonfo in termini di voti. Hanno fornito altre indicazioni più generali.
La prima è che se hanno perso tre quarti dei voti, queste preferenze non si sono spostate verso la Lega. E dunque il consenso non rimane più, come era accaduto ad esempio in Abruzzo e come fino ad oggi parevano suggerire i sondaggi, all’interno del perimetro della maggioranza di governo. Non sembra funzionare lo schema che prevede, per citare le parole di un esponente grillino agli inizi del governo, «la leale competizione interna all’esecutivo». Di conseguenza salta il meccanismo che finora ha consentito a Lega e M5S di giocare sia la parte del socio di governo che quella della forza di opposizione e occupare ogni posizione in campo nel dibattito pubblico.
In Sardegna si è votato mentre l’isola era scossa dal movimento dei pastori sardi, in una condizione di protesta e malcontento verso l’establishment. È appena il caso di ricordare che nella fase politica precedente quello sardo sarebbe stato il contesto ideale per spingere il M5S verso un successo. Così non è stato. È il segno che al M5S in questo momento non viene riconosciuta l’autorevolezza dell’essere forza di governo e neppure l’irruenza di un soggetto anti-establishment: il cosiddetto “reddito di cittadinanza” non pare aver fatto la differenza. In questo modo si spiega la sparizione di Alessandro Di Battista, tornato dall’America Centrale e da un giorno all’altro messo all’angolo.
Di fronte a questo allarme, Luigi Di Maio ha cercato di ristabilire un rapporto con Davide Casaleggio, restituendo (solo simbolicamente, ma nel M5S l’apparenza è quasi tutto) centralità alla piattaforma Rousseau, la cui funzione nelle dinamiche concrete dei grillini è davvero sempre più marginale. Esattamente un anno fa, sulla scia dell’entusiasmo per il trionfo alle elezioni politiche, Casaleggio Jr. aveva annunciato al Washington Post che l’obiettivo di Rousseau era raccogliere un milione di iscritti. Che si sarebbe arrivati a solo un decimo di quella cifra si è capito quando dopo qualche mese, era settembre dello scorso anno, alla kermesse del Circo Massimo Italia a 5 Stelle dagli altoparlanti si rastrellavano disperatamente adesioni. Annunciavano con enfasi da convention aziendale che per ricevere il codice d’accesso al portale grillino non era neanche più necessario «andare su Internet»: bastava inviare un caro vecchio sms. L’idea serviva a raccogliere consensi tra i sessantenni teledipendenti, fan dei frontman grillini e zoccolo duro mai sufficientemente indagato. Allo stesso tempo, quel messaggio faceva capire che l’utopia di Gianroberto Casaleggio di una democrazia digitale in grado di sostituire le vecchie forme politiche e addirittura le assemblee elettive, non se la passava molto bene.
Allo stesso modo, prima che Rousseau venisse tirata fuori dal cassetto della scrivania ministeriale di Di Maio per ricevere la benedizione della «base» sull’immunità a Matteo Salvini per il caso Diciotti, non risultavano discussioni clamorose, progetti di legge dal basso, mobilitazioni rilevanti scaturite dal cosiddetto «sistema operativo» del Movimento 5 Stelle. Rousseau tace, l’associazione che porta il suo nome e che viene controllata da Casaleggio si limita a intascare circa 90 mila euro al mese di sottoscrizione obbligatoria di senatori e deputati. Eppure Di Maio ha bisogno di Rousseau, per riformare il M5S gli serve quel feticcio che rappresenta una scatola quasi vuota. Paradossalmente, gli occorre proprio per archiviare ulteriormente il tecnoentusiasmo del partito digitale e ridisegnare il M5S sulla base di una segreteria politica con dirigenti cooptati per aree tematiche e di responsabili territoriali che operino regione per regione. Una struttura che ricorda quella di un partito (leggero, verticistico e mediatico, ma sempre un partito) e che presto metterà i 5 Stelle di fronte a un ulteriore dilemma: quello dei soldi. L’idea che si possa fare politica «a costo zero» era già stata smentita dai consistenti fondi per i gruppi parlamentari e dalla pletora di “addetti alla comunicazione” che lavorano con Rocco Casalino a Palazzo Chigi e con Silvia Virgulti in parlamento. Adesso si porrà il dilemma di come finanziare il personale politico nominato da Di Maio, posto che difficilmente questi incarichi potranno materialmente essere ricoperti da chi già svolge qualche altra funzione a Roma o a Bruxelles.
Di Maio non ha nessuna intenzione di farsi da parte. Sia chiaro, la stragrande maggioranza del M5S non glielo chiede, quelle che la stampa chiama opposizioni interne spesso sono posizioni isolate e non in grado di articolare un discorso politico a tutto tondo o agire come corrente. «Il mio mandato dura cinque anni», dice il vicepremier facendo finta di non capire che chi gli chiede di fare un passo indietro si riferisce al cumulo di cariche che ricopre: siede in due poltrone di ministeri, esercita la leadership politica, è deputato e anche vicepremier. Sa bene, Di Maio, che la sua autorevolezza è legata a doppio filo alla sopravvivenza del governo gialloverde. Dunque, tocca le uniche variabili che gli consentono di tenere a bada la base degli eletti. Tra riforma degli assetti e delle gerarchie e l’apertura ad alleanze con liste civiche su scala locale, compare anche l’abolizione del tetto del doppio mandato. Che questo vincolo sarebbe stato abolito era evidente a tutti. Stupivano le smentite pronunciate con risolutezza dai vertici grillini solo poche settimane fa, perché il dubbio non riguardava l’eventualità che questo limite sarebbe stato cancellato ma le modalità in cui questo passaggio sarebbe avvenuto. Da anni ormai chiunque dentro al M5S avesse un minimo di ambizione politica evitava accuratamente di candidarsi alle elezioni amministrative per non bruciarsi un mandato e puntare direttamente al parlamento. La cosa ha creato non pochi disagi, con liste allestite senza costrutto e tantissimi comuni nei quali il simbolo del M5S ha smesso di comparire. Il tetto per adesso salta per gli enti locali, ma non ci vuole la palla di vetro per capire che quanto prima svanirà per tutti gli altri: è difficile che tutto lo stato maggiore grillino sia disposto a tornare a casa alla fine di questa legislatura.
Dal punto di vista della collocazione politica il M5S è sempre di meno un partito trasversale, onnivoro, pigliatutto. Dal punto di vista della strutturazione interna sceglie di avvicinarsi all’immagine della “Casta” che voleva spazzare via. Significa che una delle anomalie principali del Movimento 5 Stelle, quella di ipnotizzare ogni forma di opposizione e protagonismo sociale incamerando sorprendenti deleghe in bianco mascherate da “democrazia diretta”, perde di peso. Non significa che il M5S sparirà dall’oggi al domani. Perché il grillismo è la versione italiana di un fenomeno globale e profondo, che ha contribuito a creare l’egemonia sovranista e alimentato il ciclo reazionario, ha amplificato discorsi che combinano e rimasticano brandelli di culture politiche apparentemente inconciliabili e trasformato definitivamente gli elettori in spettatori. Ma non sarà un nuovo concorrente del reality, magari bravo a intercettare il tele-voto, a dichiarare concluso lo spettacolo.
*Giuliano Santoro, giornalista, scrive di politica e cultura su il Manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo).
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