La prospettiva incondizionata
Il reddito di cittadinanza introdotto dal M5S, con tutti i suoi limiti, ha rivelato l'esigenza di strumenti universali di protezione. Per migliorarlo c'è bisogno del protagonismo di una coalizione ampia
Suona un po’ retorico, oramai, invocare la potenza rivelatrice del Covid-19 nell’illuminare i troppi rimossi della vita economica e sociale del nostro paese. Eppure, lo shock imposto dalla pandemia e dalle misure messe in atto per contrastarla ha reso ovvia la strutturale assenza di forme minime di tutela del reddito e della dignità delle persone. Il lockdown primaverile e le restrizioni imposte ai negozi, ma prima ancora il crollo di intere filiere come quella del turismo, hanno all’improvviso e simultaneamente interrotto le fonti di sostentamento di milioni di lavoratori privi di tutele – per la loro posizione precaria o a nero, o per la loro natura di lavoratori autonomi. Quelle che fino a marzo erano tragiche storie «isolate», sono diventate una tragedia nazionale. Chiariamoci: isolate non erano già visti i numeri spaventosi della povertà, quasi raddoppiata nei tre decenni di «crisi» italiana e tornata, secondo le indagini della Banca d’Italia, addirittura ai livelli dei tardi anni Sessanta. Semplicemente, nell’inazione delle istituzioni nazionali, il singolo lavoratore atipico o il negoziante travolti dalla crisi dell’attività per cui lavoravano dovevano rivolgersi alle proprie reti familiari, dove possibile al welfare locale, ad associazioni caritatevoli se non alla criminalità più o meno organizzata.
Se nel 2019, a seguito dell’introduzione del Reddito di cittadinanza (RdC) da parte del governo gialloverde, la stampa italiana era compatta nello sparare a zero su quella che veniva rappresentata come una vera e propria depravazione morale, il 2020 ha reso evidente la crisi del welfare italiano e la necessità di un reddito minimo per sostenere famiglie e individui in difficoltà. Continuano, anche e forse soprattutto dentro il centrosinistra, le odiose retoriche «divaniste», ma tra i decreti emergenziali, almeno nella prima fase, è stato inevitabile includere, assieme a contributi una tantum ai lavoratori autonomi, un Reddito di emergenza limitato nel tempo e nelle risorse. In seguito, le posizioni del governo si son sempre più appiattite sulla tutela dei profitti, e le limitate chiusure non sono state accompagnate dall’estensione di queste misure. Ma come ci insegna la storia del welfare, queste vicende hanno comunque avuto l’effetto di trasformare soggetti marginali e difficilmente organizzabili («i poveri») in potenziali attori politici.
Le chiusure paventate dal governatore campano Vincenzo De Luca hanno rotto l’incantesimo di una pandemia «romantica»; e così, da Napoli a Torino, le istituzioni sono state sorprese dalle prime mobilitazioni spontanee capaci di porre il tema della tutela del reddito all’attenzione dei media nazionali. Ma se, secondo l’ultimo rapporto della Caritas, tra maggio e settembre l’incidenza dei «nuovi poveri» (coloro che si rivolgono per la prima volta alla Caritas) è arrivata al 45% (rispetto al 31% dell’anno precedente), dovrebbe oramai essere semplice buon senso il fatto che non si può combattere la pandemia chiedendo agli italiani di starsene educatamente chiusi in casa.
Negli ultimi giorni è caduto un altro tabù. In un decalogo significativamente inviato a un quotidiano come Il Foglio, tra i più critici dell’«assistenzialismo», Luigi Di Maio ha dichiarato «opportuno ripensare alcuni meccanismi» del Reddito di cittadinanza. Misura «bandiera» del M5S, e sua personale creatura, era stata finora ritenuta «intoccabile» anche a fronte di evidenti storture, sottolineate in primis da chi, avendo a lungo invocato serie politiche antipovertà, vedeva il pericolo di legarle a improbabili misure di «attivazione». A quanto è dato capire, il governo vorrebbe scorporare le due componenti del Reddito di cittadinanza – il sostegno al reddito, e l’«attivazione nel mondo del lavoro» – mantenendo i finanziamenti solo per la prima. L’apertura ha ricompattato il fronte ampio dei contrari: se sul Corriere Di Vico parla di «illusione” del RdC», il governatore Zaia fa eco al collega Bonaccini: «se tu devi dare soldi a qualcuno per stare sul divano a guardare la tv non va bene». Si apre così una partita politica che, soprattutto in questa fase, bisogna saper cogliere.
Per farlo, torna assai utile Combattere la povertà, libro di Cristiano Gori da poco uscito per Laterza che fornisce strumenti conoscitivi unici per inquadrare il dibattito. Professore di Sociologia all’Università di Trento, tra i fondatori dell’Alleanza Contro la Povertà, Gori è stato uno dei protagonisti principali dell’elaborazione teorica e della storia stessa delle politiche italiane contro la povertà. Fu l’Alleanza a elaborare la proposta nota come Reis (Reddito di Inclusione Sociale), poi tradotta dal governo Gentiloni nel Rei (Reddito di Inclusione). Dopo aver seguito, come «lobbista dei poveri», l’evoluzione e il dibattito sullo stesso Reddito di cittadinanza, negli ultimi mesi Gori ha anche collaborato con il Forum Diseguaglianze e Diversità e l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile a una proposta di Reddito di emergenza per colmare tempestivamente tutti i buchi di sostegno al reddito che la pandemia ha evidenziato. A questa attività Gori accompagna una riflessione pubblica su meriti e limiti non solo delle misure, ma delle stesse alleanze e campagne che le hanno promosse. Il libro è perciò «un’esplorazione del rapporto tra povertà e politica», preziosa ora che la forza politica che, per prima nella storia repubblicana, ha fatto di una misura «universale» contro la povertà la sua bandiera, apre pubblicamente a una sua rivisitazione.
La storia e noi
Che l’Italia fosse indietro rispetto al resto d’Europa in tema di forme universalistiche di sostegno al reddito (come del resto in molti campi del welfare) è cosa nota. Meno note sono l’origine e l’evoluzione del dibattito. «La richiesta di introdurre il reddito minimo – ricostruisce Gori – era stata avanzata a cominciare dagli anni Ottanta da una molteplicità di soggetti»», ma rimase inascoltata fino alla fine degli anni Novanta. Nell’evoluzione del welfare italiano è stata fondamentale la Commissione Onofri (1997), nominata dall’allora presidente del consiglio Romano Prodi per promuoverne una riforma organica. Il suo rapporto finale per molti versi anticipava quello che sarebbe emerso come il grande tema delle disuguaglianze:
La polarizzazione che si creerà tra lavoratori nei settori di successo e quelli negli altri in declino, tra le occupazioni ad alto valore aggiunto e quelle non qualificate, tra chi potrà cambiare con successo molte posizioni di lavoro e chi sperimenterà lunghi periodi di disoccupazione si trasformerà in una polarizzazione sociale complessiva, che potrebbe spingere verso una distribuzione del reddito tendenzialmente più ineguale.
La Commissione portò a una prima sperimentazione, il Reddito Minimo d’Inserimento (Rmi, 1999-2000). Vero spartiacque fu, però, la crisi del 2008. Fu infatti solo nel decennio seguente che la povertà in Italia esplose, uscendo dai suoi confini «tradizionali»:
Dalla fine della Seconda guerra mondiale sino alla crisi iniziata nel 2008, la povertà era rimasta circoscritta in alcuni segmenti della società: il Sud, le famiglie senza membri occupati e quelle con almeno tre figli. […] Da allora, l’indigenza ha mantenuto il suo radicamento nel Meridione, tra i nuclei senza lavoro e in quelli con almeno tre figli, parti della società nelle quali è cresciuta sensibilmente e che rimangono le più coinvolte. Il maggior incremento relativo, però, ha riguardato altri segmenti della popolazione, in passato ritenuti poco vulnerabili: il Centro-Nord, i nuclei con uno o due figli minori e quelli con componenti occupati: per tutti loro la presenza della povertà – in precedenza marginale – ha assunto una centralità sociale senza precedenti.
Le cause di questo aumento non sono al centro dell’analisi di Gori, ma dalla sua asciutta descrizione emergono i soliti punti dolenti: l’aumento del lavoro instabile e povero (i working poor), anche nel Centro-Nord «trainante»; tra i giovani, disoccupati o sfruttati tra uno stage e un contratto a tempo determinato; e tra gli stranieri, la categoria più colpita dall’aumento della povertà, anche a causa delle discriminazioni e limitazioni nell’accesso a lavoro e diritti. Come aveva anticipato la Commissione Onofri, a causare la povertà è sempre più spesso la disuguaglianza nella società e nel lavoro. Rotti gli «argini», la povertà è passata da roba per «soliti noti» a problema politico generale, investendo realtà che, per motivi diversi, non si erano fino ad allora volute intestare una battaglia contro la povertà: le associazioni cattoliche e i sindacati. Con la crisi, le prime, tradizionalmente schierate nell’assistenza caritatevole,
hanno toccato con mano che i loro sforzi non erano in grado di reggere l’urto della crescita delle domande dovuta all’esplosione della povertà. La consapevolezza in proposito, maturata inizialmente a livello locale, è stata progressivamente veicolata ai vertici del mondo ecclesiale.
Del resto «l’ascesa al soglio papale di Bergoglio, nel 2013, ha profondamente modificato l’impostazione precedente» – finendo per legittimare, come si è visto anche di recente, un forte intervento pubblico nella lotta contro la povertà. Per i sindacati, invece,
poveri e lavoratori non sono più due categorie separate. Se in precedenza la tutela dei lavoratori non passava attraverso le politiche di reddito minimo, oggi non è più così.
Una verità che, sebbene non sia ancora facilmente sostenuta apertamente da tutti i confederali, portò già nel 2013 alla costruzione, su iniziativa dello stesso Gori, della citata Alleanza. Accanto a Caritas, Acli, Forum del Terzo Settore, Ancinci e altre sigle, questa riuniva anche Cgil, Cisl e Uil. Da questa rete è partito lo sforzo che portò al Rei, misura che per la prima volta ha introdotto un reddito minimo per chi ne risultava privo. Riconoscerlo – in un paese in cui, storicamente, le uniche forme di sostegno contro la miseria erano gli oboli degli enti caritatevoli ecclesiastici, il ricovero in ospedale o l’emigrazione – non vuol dire ignorarne i limiti. A fronte di importi più modesti, anche il Rei prevedeva forme di attivazione, di tipo sociale, la cui attuazione è stata difficile, trasformata poi dal RdC in una vera e propria attivazione al lavoro.
Il RdC ha avuto il merito di incrementare ampiamente le risorse destinate alla lotta alla povertà, destinandone parecchie anche alla riqualificazione dei centri per l’impiego, che avrebbero dovuto essere il perno della riattivazione lavorativa. Ancora più significative e interessanti sono però le differenze di gestazione: con uno sforzo importante di «imparzialità», Gori mette a confronto un processo «dal basso», portato avanti da una rete che doveva superare la difficoltà storica dei potenziali percettori di reddito a organizzarsi e a trovare rappresentazione politica – un’’alleanza eterogenea ma pragmatica, che si dava quindi obiettivi «minimi» e che decideva esplicitamente di non rompere con nessun governo e non rinunciare mai a fare pressione per ottenere miglioramenti – con quelli «dall’alto» del M5S. Questi sono stati il primo partito a porre la lotta alla povertà in cima alla propria agenda politica (ed è questo forse un aspetto del «vuoto» politico colmato dai grillini su cui a sinistra non si è riflettuto abbastanza). Tuttavia la loro «alterità» li ha ha portati da un lato a voler realizzare la rottura più netta possibile col quadro precedente (rinunciando, evidenzia Gori, anche a valutare i risultati del Rei), dall’altro a chiudersi all’interazione con esperti e gruppi come l’Alleanza, percepiti come vicini al centrosinistra. Il risultato, raccontato da Gori in pagine tra il comico e l’amaro, è stata una corsa furibonda a migliorare il decreto nei sessanta giorni entro cui doveva esser convertito in legge quando «sarebbe bastato guardare insieme il testo un paio di volte prima di presentarlo al Parlamento e tanti problemi sarebbero stati evitati». Nell’evidenziare, nella doppia veste di «lobbista dei poveri» e studioso di politiche sociali, le storture anche procedurali imposte dalla necessità tutta politica di portare a casa rapidamente un risultato «tondo» («780 euro a ogni povero»), Gori riconosce il ruolo di stimolo e di sblocco nel far avanzare il nostro welfare. All’atto pratico, dati i tempi necessari al riordino dei centri per l’impiego, ma soprattutto senza investimenti per creare lavoro, dalle politiche attive non ci si poteva aspettare un granché. Ne viene fuori un quadro, sintetizza Gori, in cui «i populisti riescono a comprendere meglio le domande della popolazione ma non sanno elaborare le risposte che servono, mentre i loro avversari saprebbero disegnare gli interventi opportuni ma non sono in grado di interpretare le domande».
L’odiato reddito
I «soliti noti» della povertà sono ben visibili in film come Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963): segregati geograficamente, nello spazio della città (bassi, catapecchie e quartieri popolari), ma anche del paese (al Sud). La politica sapeva dove erano i poveri, e sapeva come renderli utili nella loro marginalità, mentre li condannava a rimanere in «una condizione considerata da molti immodificabile». Nonostante oggi la povertà sia più trasversale, e la sua interazione con la politica sia necessariamente cambiata, persistono alcune continuità retoriche. Non appena il governo ha messo in dubbio l’efficacia della parte di attivazione lavorativa del RdC, si è subito parlato di «fallimento». Si tratta di radicati pregiudizi, ma sono però anche il frutto avvelenato di una comunicazione politica che ha voluto pubblicizzare una misura di sostegno al reddito come se fosse uno strumento per far rientrare «gli improduttivi» nel mondo di lavoro. Sui media, ma anche sui siti governativi, nota Gori, i titoli più comuni parlavano infatti di una rivoluzione per il mondo del lavoro con un evidente «oscuramento dell’intento redistributivo a favore della costruzione di un’opportunità». Questo tipo di retorica provoca due effetti negativi:
Primo, carica le misure di reddito minimo di aspettative che da sole non sono in grado di soddisfare. La possibilità di ottenere un effettivo cambiamento nella vita dei beneficiari dipende, infatti, solo in parte da questi interventi: sono cruciali anche le altre politiche di welfare, il contesto in cui vivono le persone coinvolte e le loro condizioni individuali. Secondo, si svilisce il valore dei diritti sociali presso l’opinione pubblica.
Una volta consumato il prevedibile «fallimento», mentre riparte il cannoneggiamento degli altri «soliti noti» contro una misura che aiuterebbe gli oziosi e i disonesti (ormai una decina di milioni, ma sono dettagli), è dunque importante ribadire il valore e la necessità della parte «assistenziale» della misura – garanzia minima per assicurare a tutti una vita decente di fronte alle avversità.
Reddito e salario
È necessario ribadire, come ha fatto l’economista Elena Granaglia, che il RdC è perfettibile ma sta funzionando, nella sua principale funzione che è quella di portare le persone fuori dalla povertà. La misura è perfettibile, ma nella direzione di renderla ancora più efficace, e moltiplicarne il potenziale di liberazione per chi lo riceve e per tutti noi. Un reddito minimo, non condizionato com’è ora alla ricerca di un lavoro di qualsiasi tipo è uno strumento di cittadinanza sociale, garantendo una condizione di vita dignitosa a chi sta al di fuori della rete di sostegno legata al lavoro. Ma ha senso quando è anche in grado di aumentare il potere di negoziazione dei lavoratori sul luogo di lavoro, sostenendo la battaglia per migliori condizioni salariali – e quindi anche per forme di salario minimo che impediscano un appiattimento delle retribuzioni ai livelli «minimi» garantiti dal RdC. Al contrario, come scrivono Marta e Simone Fana, obbligando «ad accettare una delle prime tre offerte di lavoro a prescindere dalla retribuzione, pena la decadenza del diritto al sussidio», il RdC rischia ora di rafforzare la pressione verso il basso dei salari – e dunque quella povertà che deve contrastare.
Parlare di reddito minimo incondizionato vuol dire quindi spostare lo sguardo anche al di fuori della lotta alla povertà. Significa essere in grado di raccontare che l’esplosione della povertà non può essere solo il risultato delle sempre nuove crisi, ma piuttosto dell’insieme di disuguaglianze economiche e sociali che gli ultimi trent’anni di politiche neoliberiste hanno prodotto. Questo implica anche trovare il modo di includere chi è privo di cittadinanza italiana – una componente importante del «nuovo modello italiano di povertà», che pone difficoltà pratiche e politiche, ovvie ma non eludibili.
Se la sua introduzione è stata per molti versi «calata dall’alto», è difficile che un tale miglioramento del Reddito di cittadinanza possa prescindere da un protagonismo di chi da questo trarrebbe beneficio e forza. Uno degli spunti che ci lascia il libro di Gori è che in fasi simili è necessario saper formulare rivendicazioni e proposte chiare, su cui costruire consenso e coalizioni più ampie possibile. In una battaglia per rilanciare il Reddito di cittadinanza e farne davvero uno strumento di difesa anche da nuovi shock come quello della pandemia, su chi si potrà contare? Il libro come detto rende evidente come le associazioni cattoliche siano riuscite in questi anni a lasciarsi alle spalle il tradizionale scetticismo verso forme pubbliche di intervento e il loro focus tradizionalmente orientato alla povertà, ingaggiando una lotta a più ampio spettro contro le disuguaglianze. È significativo, ad esempio, che la stessa Caritas sia parte del Forum Disuguaglianze, e dunque portatrice di una proposta di salario minimo legale di almeno 10 euro. Campagne efficaci per un reddito minimo incondizionato dovranno porsi il tema di come dialogare con queste forze. Possibili alleati sono anche alcune grandi Ong, che con la pandemia hanno ricentrato la loro attività in Italia. Il caso forse più evidente è Emergency, che ha sostenuto progetti di aiuto alimentare in diverse città italiane, in collaborazione con le Brigate Volontarie per l’Emergenza – una delle tante realtà e movimenti sociali che hanno messo al centro della loro agenda politica il mutualismo. La sfida più difficile sembra però quella di portare su queste posizioni anche i sindacati confederali.
Dopo essersi fatto promotore, da segretario Fiom, di iniziative di reddito minimo, da leader Cgil Maurizio Landini chiese già un anno fa un «tagliando» al RdC, ricevendo le dure critiche del Blog delle Stelle. Nei mesi scorsi, quando Confindustria alzava gli strali contro il «Sussidistan», Landini ha ribadito che il lavoro va creato con gli investimenti, ma che «non bisogna cancellare il Reddito di cittadinanza perché è un intervento di emergenza per combattere la povertà». Quella attuale è forse l’ultima occasione per Landini per affiancare alla sacrosanta mobilitazione del pubblico impiego e alla richiesta di investimenti pubblici in grado di creare buona occupazione, la battaglia per l’estensione ai non tutelati di un welfare moderno (fatto di reddito, ma anche di case popolari, scuola e sanità pubbliche e davvero di qualità e accessibili). Una sintesi di queste battaglie, capace di mobilitare mondi così diversi, potrebbe non solo migliorare concretamente le condizioni materiali di milioni di persone ma anche mostrare la via per nuove alleanze in grado di scuotere l’immobilismo della politica, ponendo le basi per una vera alternativa alle miserie del presente.
*Emilio Caja è laureato in politica e società europea all’Università di Oxford. Si occupa delle nuove forme di rappresentanza politica nell’economia delle piattaforme. Giacomo Gabbuti è dottorando di storia economica e sociale all’Università di Oxford.
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