La razzializzazione dei diritti per decreto
La legge in discussione per regolarizzare i migranti concede diritti fondamentali solo in forma temporanea a chi in questo momento è utile al lavoro agricolo e di cura. Una logica razzista che mantiene lavoratrici e lavoratori sotto ricatto
Nonostante il lavoro in nero, caratterizzato da sfruttamento, assenza di diritti, ricattabilità e mancanza di qualsiasi forma di tutela e dignità per i lavoratori, sia una caratteristica endemica e strutturale di alcuni settori della nostra economia, solo ora sembra essere diventato di rilevanza nazionale. Ora che i braccianti che raccolgono la frutta e la verdura presente ogni giorno sulle nostre tavole mancano e quelli presenti sul territorio sono irregolari. Ora che la Coldiretti denuncia che il 40% di frutta e verdura non raccolta rischia di marcire. Ora che le badanti, le colf e le babysitter che si prendono cura delle nostre case e parenti più vulnerabili rischiano di essere rimpatriate perché non in possesso del permesso di soggiorno.
Solo ora è al vaglio del governo un decreto-legge per la regolarizzazione di determinate categorie di persone. Stando alla bozza circolata in questi giorni, il decreto si propone di regolarizzare solo le persone utili alla domanda del mercato – persone che già svolgono un lavoro in nero. La logica del decreto segue la logica dello «Straniero utile», funzionale al lavoro agricolo e al lavoro di cura: lo straniero, che va accolto solo se necessario, solo se svolge il lavoro che i nativi non vogliono fare. Lo straniero, che viene «premiato» con l’accesso – temporaneo – a diritti umani che dovrebbero essere universali solo perché «serve». La sua ascesa da persona invisibile a persona «essenziale» per mandare avanti la Grande distribuzione organizzata (Gdo) e altri settori della nostra economia va premiata con l’accesso ai diritti umani. Questo accesso ai diritti – tra i quali diritto alla salute, a una vita degna, a un salario minimo – ha però il termine di sei mesi con la possibilità di rinnovo di altri sei.
Insomma, la precarietà dei diritti umani viene stabilita per decreto-legge. Questo è ciò che accade quando si smette di pensare allo straniero come «persona» e lo si vede solo come «numero»: percentuale della perdita nel settore agricolo o del settore dell’assistenza, percentuale del lavoro sommerso che sottrae tasse allo Stato italiano, percentuale del potenziale introito all’erario se venissero regolarizzati.
Legare la regolarizzazione di queste persone al loro possesso di un contratto di lavoro, così come vuole la proposta in discussione in questi giorni, significa legare i loro diritti a ragioni di mercato. Significa far sì che queste persone debbano accettare qualsiasi tipo di contratto – anche sottopagato – per poter avere accesso ai propri diritti. Cosa che avvalla, tra l’altro, il traffico di contratti di lavoro che ha contraddistinto le precedenti regolarizzazioni in Italia.
La cruda verità è che gli «invisibili» sono tali almeno sin dalla loro ultima regolarizzazione avvenuta nel 2012. Sono cambiati i governi ma nessuno ha mai voluto effettuare cambi strutturali al Testo unico sull’immigrazione. Sia i governi di centrodestra che quelli di centrosinistra succedutisi, hanno lasciato immutato l’impianto della legge Bossi-Fini, che ha portato più di 600 mila persone, secondo le ultime stime, a vivere in condizione irregolare. La legge Bossi-Fini, legge criminogena che lega il permesso di soggiorno al possesso di un contratto di lavoro, ha fatto cadere nell’irregolarità moltissime persone, che alla fine del loro contratto di lavoro non sono riuscite a trovarne un altro e quindi a rinnovare il permesso di soggiorno. Questa legge, insieme ai Decreti sicurezza I e II a firma Matteo Salvini che hanno cancellato la possibilità dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, ha allargato le file delle persone irregolari in Italia. È questo quello che succede quando si lega il diritto a rimanere nel nostro paese alle logiche volatili del mercato come denuncia l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). A questo proposito quest’ultima associazione ha formulato una controproposta che promuove la «regolarizzazione dei cittadini stranieri presenti in Italia perseguendo due obiettivi oggi imprescindibili: l’emersione dall’invisibilità di migliaia di persone che vivono e/o lavorano nel territorio italiano e una conseguente migliore tutela della salute personale e pubblica». Tale proposta prevede due diversi tipi di permesso di soggiorno: per «ricerca occupazione», di durata annuale e convertibile alla scadenza, oppure la richiesta di emersione dal lavoro irregolare. Questa controproposta, secondo Asgi, favorirebbe l’emersione delle persone in quanto tali e non solo in quanto manodopera.
In questi giorni in cui si parla di manodopera che «serve», di numeri e percentuali, occorre ridare umanità e dignità alle persone. Con frustrazione, devo ribadire da operatrice legale, attivista e studentessa universitaria con specializzazione in Diritto dell’immigrazione internazionale e del rifugiato, nonché da figlia di migranti che ha vissuto sulla propria pelle le inadeguatezze del sistema, che parliamo di persone con nomi, cognomi e con proprie storie. Persone che non possono affittare un appartamento in maniera regolare e sono costrette a vivere in stanze stracolme nel ricco e multiculturale nord Italia o in baracche fatiscenti nel mezzogiorno. Persone come Angelica, che lavora in nero come badante sei giorni su sette per pochi euro al mese sperando di poter regolarizzare la propria posizione. Oppure come Antonio, manovale edile nel bergamasco, costretto a vivere con un visto scaduto per mantenere la sua famiglia in Ecuador. La mancata regolarizzazione, oltre a non garantire il pieno accesso al diritto alla salute, non permette di registrarsi all’anagrafe dei Comuni di residenza e usufruire degli ammortizzatori sociali. Il fatto di non possedere un contratto di lavoro regolare impedisce a queste madri, figlie e figli di poter dimostrare il reddito necessario richiesto per poter presentare domanda di ricongiungimento familiare. Essendo la cittadinanza ancora legata al reddito, molte di queste persone che lavorano in nero non possono presentare domanda. Il loro vivere nell’ombra e non essere registrati all’anagrafe non gli permette di accumulare gli anni di residenza legali ai fini della richiesta di cittadinanza. Si tratta di una parte della nostra popolazione che vive nell’oscurità, tra cui anche bambini nati e/o cresciuti in Italia, che data la condizione di irregolarità dei propri genitori non hanno pieno accesso ai diritti e rischiano di non essere riconosciuti per ciò che sono – ovvero cittadini italiani. Costretti a vivere nell’ombra per la mancanza di coraggio, umanità e lungimiranza della classe politica del nostro paese che li costringe a vivere in una situazione di apartheid sociale.
La visione che emerge dal decreto in esame è quella del migrante come «bene di consumo», la cui esistenza in termini di permanenza nel territorio e accesso ai diritti basilari viene regolata dalla sua minore o maggiore funzionalità di mercato. Secondo tale logica solo i beni di consumo «utili» meritano la regolarizzazione temporanea, necessaria alla raccolta nei campi. Questa logica rimarca il profondo razzismo della classe dirigente, secondo cui ci sono persone titolari di diritti alla nascita e altre che non hanno gli stessi diritti. Persone che devono essere utili per «meritarsi» questi diritti e altre che quegli stessi diritti li acquisiscono alla nascita. Proprio come il concetto di cittadinanza che da diritto ad avere diritti diviene un premio che ti viene riconosciuto se vali veramente.
A beneficiare di questo esercito di manodopera a basso costo e sfruttabile saranno ancora le mafie, i caporali del nord e sud. Questi ultimi potranno approfittare della loro condizione di vulnerabilità per imporgli prezzi e orari di lavoro. Mentre i lavoratori e le lavoratrici vivranno nel ricatto di essere rimpatriati o di perdere l’unica fonte di salario.
Per quanto la congiuntura attuale richieda soluzioni urgenti e immediate, è il momento di andare oltre i provvedimenti emergenziali e dare soluzioni strutturali a fenomeni e problemi altrettanto strutturali. Questa situazione di sfruttamento endemico e moderna schiavitù era la normalità per questi lavoratori ben prima della pandemia. La domanda, che ci dovremmo porre è: davvero è a questa normalità costituita da provvedimenti ad hoc che non forniscono soluzioni strutturali che vogliamo tornare? O vogliamo elaborare alternative in grado di garantire uguaglianza sociale, dignità, proteggere la salute individuale e con essa quella collettiva? Dopo tutto almeno ci si dovrebbe rendere conto che sapere chi c’è in Italia, includere tutte le persone nei percorsi di diagnosi, trattamento e cura è fondamentale per tutti e tutte per combattere la pandemia.
*Elizabeth Arquinigo Pardo, nata in Perù, è laureata in lingue per le relazioni internazionali. Si occupa di progetti di integrazione in qualità di operatrice sociale e legale. Ha pubblicato per Peoplepub Lettera agli italiani come me.
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