
La ricerca della felicità
Andiamo verso un mercato del lavoro in cui la domanda diminuisce sempre di più e riguarda quasi esclusivamente le attività creative e affettive, dice Domenico De Masi. Per questo c’è bisogno di un reddito universale
La povertà sembra essere diventata un fenomeno strutturale: è proprio così?
Sì, da sempre la povertà è un fenomeno universale e strutturale. I poveri, infatti, sono in prevalenza indigenti analfabeti per cui la loro storia è stata scritta da funzionari severi, da borghesi intolleranti, da religiosi o filantropi caritatevoli. L’atteggiamento è di volta in volta tenero, pietoso, rispettoso, rancoroso o spietato a seconda che si veda nel povero un fratello in Cristo, un malato, un vagabondo, uno spostato, un astuto simulatore, un pericoloso taglieggiatore. Da sempre, comunque, l’opinione pubblica si è divista tra chi giudica il povero come incolpevole vittima della società ingiusta o come pigro sfruttatore di risorse pubbliche o come minaccioso delinquente capace di tutto. Anche nel recente dibattito sollevato dall’introduzione del Reddito di cittadinanza, ognuna di queste distinzioni, attizzate dai media, ha trovato i suoi sostenitori e ha condizionato l’atteggiamento dei cittadini fino a incanalare le loro preferenze di voto.
Chi sono i poveri? Si discute ormai da anni di working poors, di lavoro che si impoverisce a causa di stipendi rimasti fermi, ma anche di middle class impoverita, una volta si sarebbe detto di proletarizzazione dei ceti medi. Sono questi i maggiori vettori?
Per molti secoli sono stati considerati cittadini in senso pieno solo quelli che, dotati di proprietà e diritti, si guardavano bene dal lavorare. Di conseguenza, venivano considerati poveri tutti quelli che, per vivere, erano costretti a lavorare. Nel saggio La politica, Aristotele scrive: «È perfetto solo il cittadino che è libero dai compiti necessari, che vengono sbrigati da servi, da artigiani e da braccianti… Si dovrebbe rifiutare la qualifica di cittadino a tutti coloro che hanno bisogno di lavorare per vivere… La città perfetta non darà la cittadinanza all’operaio. Non è possibile praticare la virtù politica conducendo la vita di un operaio, di un salariato… Noi chiamiamo mestieri operai quelli che alterano le disposizioni del corpo e i lavori retribuiti che impediscono allo spirito ogni elevatezza e ogni agio». Tre secoli dopo, Cicerone scriveva a sua volta: «La condizione salariale è sempre sordida e indegna di un uomo libero. Ogni artigianato è sordido e lo è anche il commercio in quanto fonte di lucro».
In Francia, ancora nel 1634, un Traité de la pauvreté évangélique si chiedeva: «Cos’è la povertà? È, dicono alcuni, la scarsità o la mancanza delle cose necessarie per vivere comodamente, cioè senza lavorare… Da ciò possiamo dedurre che è veramente povero colui che non ha altro mezzo di sostentamento se non il lavoro, l’applicazione delle proprie energie mentali e fisiche ». Ma in Inghilterra già le cose stavano cambiando: il lavoro andava guadagnandosi il ruolo e il rango di motore dell’economia; gli oziosi erano marchiati con la R di Rogue, cioè furfante; se recidivi, erano giustiziati. Il surplus di manodopera era spedito nelle Americhe. Tra il Seicento e l’Ottocento il lavoro passò da condizione infamante a «misura del valore di un bene» (Locke) e a «essenza dell’uomo, essenza che si avvera dell’uomo» (Marx). Per la Chiesa continuò a essere «espiazione del peccato, non senza fatica e molestia» (Leone XIII).
Oggi chi non lavora non ha niente più a che fare con un aristocratico come il Gattopardo che viveva di rendita e di ozio, ma è un disoccupato che vorrebbe lavorare e, quando non trova lavoro, proprio per questo diventa povero. Ed è povero anche chi ha un lavoro retribuito in misura così miserabile da restare povero pur lavorando (working poors).
Nei decenni della società industriale, che ha prevalso tra la metà del Settecento e la metà del Novecento, la stragrande maggioranza dei lavoratori (addirittura il 94% nella Manchester del 1850) era composta da operai, cioè da proletari che lottavano per l’occupazione, per l’orario di lavoro e per il giusto salario, vivendo in uno stato di perenne insicurezza. Nell’attuale società postindustriale il progresso tecnologico e la globalizzazione, gestite in modo neoliberista, hanno gettato nell’insicurezza occupazionale e nella sottoccupazione (cioè, hanno « proletarizzato») fasce crescenti di lavoratori e lavoratrici non solo appartenenti al sottoproletariato e al proletariato ma anche alla classe media.
Nella sua storia il capitalismo, nei momenti di maggior crescita o guidato da forze socialdemocratiche o progressiste, ha mostrato di voler ridurre il peso della povertà con politiche assistenziali mirate. È davvero così? Ti sembra ci sia riuscito? E oggi invece qual è la strada privilegiata?
Già nella Teoria generale del 1936 John Maynard Keynes aveva lucidamente constatato che «i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi». Ma le disuguaglianze non si limitano alla sfera economica e lavorativa: cominciano dall’indigenza e poi si estendono anche al potere, al sapere, alle opportunità e alle tutele.
La politica economica ispirata a Keynes e al New Deal, che ha prevalso anche in Italia nel trentennio successivo alla Seconda guerra mondiale, è riuscita a ridurre almeno in parte le disuguaglianze, ad attivare un sia pur debole ascensore sociale, a garantire una buona stabilità occupazionale ai lavoratori. L’Ina-casa (1949), la Riforma agraria (1950), la Cassa per il Mezzogiorno (1950), lo Statuto dei lavoratori (1970), la Riforma sanitaria (1978) rappresentano altrettanti tasselli di questo mosaico socialdemocratico.
A quei tempi i poveri si chiamavano proletariato e sottoproletariato, vi erano almeno tre partiti a rappresentarli dandogli, in misura diversa, obiettivi, bersagli, voce, organizzazione e combattività. In altri termini, trasformandoli – per usare la terminologia marxiana – da «classe in sé», indistinta e ininfluente, in «classe per sé», compatta, solidale, vincente. Una classe consapevole che proprio dalla sua appartenenza di classe dipende la vita intera di chi ne fa parte. Nel 1971, in una fortunata Guida alla ricerca sociale adottata da diecine di cattedre universitarie, il sociologo Gian Antonio Gilli scriveva: «L’appartenenza di classe influenza pressoché ogni aspetto del comportamento degli individui, e ogni momento della loro vita. Dipendono dalla classe sociale di appartenenza, per citarne solo alcuni: le probabilità di sopravvivenza alla nascita; le probabilità di conseguire il massimo di istruzione formale; la capacità di verbalizzare (cioè, di parlare con proprietà e completezza su ogni argomento); il tipo di lavoro che si sceglie; il reddito, il livello e lo stile di vita; il comportamento sessuale; il comportamento religioso; la probabilità di contrarre determinate malattie; la probabilità di essere rinchiusi in carceri o manicomi, e così via. È forse inutile aggiungere che, sotto ciascuno di questi aspetti, le classi subordinate sono sfavorite rispetto alle classi dominanti».
Ma, proprio a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la progressiva affermazione della politica economica neoliberista, centrata sul profitto privato, sul laissez faire, sulla concorrenza e sull’espulsione dello stato dalla sfera economica, ha sferrato un potente attacco vincente contro il proletariato, ha ribaltato la lotta di classe dei poveri contro i ricchi in lotta di classe dei ricchi contro i poveri e ha esteso a dismisura i rischi e la precarietà gettando nell’insicurezza non solo il sottoproletariato e il proletariato ma anche una vasta fascia della classe media.
Nel mercato del lavoro il neoliberismo dispiegò la sua influenza prima di tutto attraverso la privatizzazione delle aziende di stato e l’abolizione della loro associazione sindacale, l’Intersind. Fino agli anni Ottanta lo stato aveva pieno controllo di treni, aerei, autostrade, acqua, elettricità e gas. Possedeva più del 70% del sistema bancario, la telefonia, la Rai, porzioni consistenti della siderurgia e della chimica. I settori partecipati andavano dalle assicurazioni alla meccanica e all’elettromeccanica, dal settore alimentare all’impiantistica, dalle fibre al vetro, dalla pubblicità ai supermercati, dagli alberghi alle agenzie di viaggio. Il tutto impiegava il 16% dell’intera forza lavoro nazionale.
Demiurgo di quella che è stata la più vasta operazione privatizzatrice d’Europa, più ancora di quella effettuata da Thatcher in Gran Bretagna, fu Mario Draghi, Direttore generale del Tesoro e presidente della Commissione per le privatizzazioni dal 1991 al 2001, sotto nove governi tra cui ben quattro di sinistra: due presieduti da Massimo D’Alema, uno da Giuliano Amato e uno da Romano Prodi. Dunque il neoliberismo, facendo fare ai leader di sinistra (complici o sciocchi) il lavoro sporco che avrebbe dovuto fare la destra, era entrato profondamente nelle vene della sinistra e oggi, in base a ciò che si può dedurre dalle prime operazioni del governo Meloni, appare altrettanto penetrato nel sistema sanguigno della destra.
A operazione compiuta, le forze conservatrici sono riuscite a mitigare perfino il linguaggio della sinistra: mutuando i termini non più distillati da Marx ma presi in prestito da papa Francesco, i proletari e i sottoproletari, vengono vezzosamente chiamati «ultimi», «deboli», e facezie analoghe.
Il Reddito di cittadinanza in Italia ha rappresentato questa impostazione? Si è incaricato cioè di limitare gli effetti perversi della povertà? Ti sembra ci sia riuscito? Se sì perché e se invece no qual è stato il suo limite principale?
Il Reddito di cittadinanza ha rappresentato un vero e proprio strappo alla politica neoliberista. Dopo il trentennio keynesiano le poche provvidenze in favore dei poveri e per la riduzione delle disuguaglianze derivarono da fortuite coincidenze tra le richieste di una sinistra sempre meno radicale e le concessioni di una destra sempre più aggressiva. Non solo i singoli poveri rimasero senza assistenza, non solo le disuguaglianze si andarono divaricando, ma l’intero Mezzogiorno fu abbandonato a sé stesso.
La battaglia per il Reddito di cittadinanza, condotta con forte incisività dal Movimento 5 Stelle, ha preso alla sprovvista sia la destra che la sinistra ed entrambe hanno reagito stringendolo dentro una tagliola di critiche corrosive manovrata per anni e con tutti i mezzi. Il Pd corse precipitosamente ai ripari cercando di precedere il Reddito di cittadinanza con un Reddito di inclusione (Rei) sgangherato ma il Movimento 5 Stelle incalzò con una legge con cui rinforzava lo stesso Rei in termini di beneficiari, di platee e di risorse, passando da un contributo individuale massimo di 187 euro a uno di 780 euro, da una platea potenziale di 1 milione di beneficiari a una di 5 milioni e da un fondo poco superiore a due miliardi a uno poco superiore a 8 miliardi. Le risorse della rete di protezione sociale attraverso i Comuni crebbero di 130 milioni nel 2019 e poi via via fino a raggiungere i 615 milioni incrementali nel 2021. Praticamente una vera e propria rivoluzione nella lotta alla povertà, mai realizzata prima né dai partiti cattolici, né da quelli laici, basata su due filoni: il Patto per l’inclusione sociale, dedicato ai più distanti dal mercato del lavoro (minori, inabili, vecchi) e il Patto per il lavoro dedicato ai poveri in grado di lavorare.
Questa commistione, criticatissima dagli oppositori e poco difesa dagli stessi promotori, è invece affatto ineludibile dal momento che, tra i poveri, vi sono quelli che non possono lavorare, quelli che possono lavorare ma non hanno lavoro e quelli che hanno lavoro ma con salari talmente bassi da non essere sufficienti a sollevare dalla povertà.
La battaglia per il Reddito di cittadinanza ha riguardato anche la rete di Centri per l’impiego, indispensabile per attuare le politiche attive del lavoro. Oggi la vita lavorativa di molti cittadini è ridotta a uno slalom tra periodi di occupazione e periodi di disoccupazione, per cui una rete di Centri è indispensabile non meno della rete idrica o di quella elettrica. Senza di essa non si realizza l’incontro vitale tra domanda e offerta di lavoro. Nel 2019, quando il Reddito di cittadinanza entrò in vigore, in Germania, dove la percentuale dei disoccupati era un terzo di quella italiana, i Centri operavano su un raggio nazionale, erano serviti da 110.000 addetti, attrezzati tecnologicamente di tutto punto e con un investimento di 11 miliardi l’anno; in Italia gli addetti erano appena 9.000, operavano su raggio regionale e lo stato spendeva appena 750 milioni per mantenere gli uffici.
Da allora a oggi i sussidi erogati ai poveri sono stati pari a 7,21 miliardi l’anno; milioni di poveri sono stati messi in grado di sopravvivere; centinaia di migliaia sono stati accompagnati al lavoro; sono stati spesi centinaia di milioni sia per rimpolpare il numero degli addetti ai Centri per l’impiego, sia per rafforzare le loro infrastrutture fisiche e tecnologiche ma, in soli tre anni si è spento lo slancio a favore dei poveri: nell’opinione prevalente essere poveri è diventato colpa esclusiva e imperdonabile dei poveri stessi, il Reddito di cittadinanza è stato discreditato con ogni mezzo mendace, i Centri per l’Impiego restano sgangherati come sempre, ora il governo si gloria di mettere fine a questa misura, la percentuale dei disoccupati apparentemente diminuisce solo perché un numero crescente si sottomette a un lavoro di dieci ore al giorno con un salario di 4 euro l’ora.
In tutta Europa esistono misure di sostegno sociale alle classi più povere. Perché in Italia c’è un così pesante accanimento contro il Reddito di cittadinanza?
A prima vista sembrerebbe un mistero. In un paese in cui risiede il Vaticano, in cui il 67% della popolazione si dichiara cattolico, in cui almeno il 40% si colloca ideologicamente a sinistra, la maggioranza dei cittadini, delle associazioni, delle parrocchie dovrebbe fare a gara con tutto il resto d’Europa per l’attenzione verso proletariato e sottoproletariato. Invece, tra tutti i 36 paesi dell’Ocse, siamo stati gli ultimi a introdurre il Reddito di cittadinanza, il nostro sussidio è il più basso di tutti e ora viene tolto a tutti i poveri occupabili ma disoccupati.
A ben pensarci, esistono più fattori che spiegano l’accanimento degli italiani e di molti loro partiti (Italia Viva, Azione, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia) contro il Redditoi di cittadinanza. Il neoliberismo che ispira in modo tenace la nostra politica economica è contrario a qualsiasi forma di welfare. La Chiesa considera i poveri come un suo monopolio per il quale l’assistenza laica dello stato non deve entrare in concorrenza con la carità organizzata delle istituzioni cattoliche. Il Reddito di cittadinanza è stato promosso dal Movimento 5 Stelle e ne ha mutuato l’antipatia di cui questo soffre in varie sedi politiche e mediatiche. Il M5S, i suoi ministri e sottosegretari, dopo averlo varato ed essersene gloriati, hanno abbandonato al loro destino sia il Reddito sia coloro che dovevano curarne l’applicazione. Esemplare è la scandalosa vicenda dei navigator: quasi 3.000 persone scelte accuratamente tra 35.000 candidati, con voti di laurea altissimi, adeguatamente formati ma poi assunti a tempo determinato e mandati in pasto alle Regioni riluttanti e ai media forsennati.
Questi media hanno trovato nella diffamazione del Reddito di cittadinanza un argomento favorevole all’audience e hanno tirato fin da subito colpi bassissimi contro di esso, ricorrendo aulla più fraudolenta delle informazioni. Basti pensare all’insistenza sconcertante su poche decine di singoli «furbetti» accuratamente scovati e trionfalmente esibiti come scalpi dalle varie emittenti televisive a dimostrazione della superficialità con cui il Reddito veniva assegnato. Laddove, invece, la selezione operata dall’Inps è stata talmente severa che, su 6.022.865 domande presentate tra il 2019 e il 2022, ben 1.735.677 sono state respinte e 83.347 sono state annullate. Nei quattro anni in cui i sussidi sono stati erogati, si calcola che quelli percepiti fraudolentemente ammontano a una somma che raggiunge appena l’1% del totale erogato: infinitamente più bassa di quella raggiunta dagli evasori fiscali. Si tenga conto, inoltre, che il calcolo della povertà ai fini del Reddito di cittadinanza è stato effettuato in Italia secondo un metodo più severo che nel resto d’Europa. Scrive il presidente dell’Inps Pasquale Tridico nel libro appena pubblicato Il lavoro di oggi, la pensione di domani: «La legge sul Reddito di cittadinanza individua giustamente come verifica per il livello di povertà una soglia Isee, dove non c’è solo il reddito, che è la variabile più vicina ai consumi, ma anche il patrimonio, i beni mobili e immobili, le auto, altri beni durevoli».
In una prospettiva più evoluta, il Reddito di cittadinanza non sembra possa bastare. Quali potrebbero essere le misure ottimali per un welfare state moderno che si faccia carico dei poveri, ma che allo stesso tempo eviti che la povertà dilaghi?
Qui il discorso si fa complesso e non può essere esaurito in questa sede. Almeno sette fattori, tra loro interconnessi, influenzano il rapporto tra domanda e offerta di lavoro: l’andamento demografico, il progresso tecnologico, lo sviluppo organizzativo, la globalizzazione, la distribuzione della ricchezza, i mass media, la scolarizzazione. Mentre il numero di lavoratori potenziali (la cosiddetta offerta) cresce in tutto il mondo con il crescere della popolazione, il fabbisogno di lavoro (la cosiddetta domanda) tende a crescere meno o addirittura a decrescere. Si pensi, per esempio, all’incidenza di quattro dei fattori elencati: il progresso tecnologico sostituisce l’attività umana con macchine sempre più intelligenti; lo sviluppo organizzativo consente di produrre più beni e servizi con sempre meno impiego di energia umana; la globalizzazione rende più vantaggioso comprare all’estero ciò che prima si produceva in casa; l’eccessivo addensamento della ricchezza in poche mani riduce lo stock di ricchezza che i consumatori possono destinare al consumo, il minore consumo riduce la necessità di produrre e produrre meno significa impiegare meno manodopera.
Di fronte a questo fenomeno complesso e irreversibile, l’unico rimedio efficace è la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. In Germania, ad esempio, un occupato lavora in media 1.356 ore l’anno mentre in Italia lavora 1.723 ore. Di conseguenza, il tasso di occupazione è del 79% in Germania e del 60% in Italia.
Intanto un altro fenomeno si sta espandendo a vista d’occhio. Man mano che i robot e i computer assorbono lavoro umano di tipo operaio e impiegatizio, resta agli esseri umani il monopolio delle sole attività che esigonocreatività, affettività, estetica, etica, collaborazione, pensiero critico e problem solving. Ma queste attività richiedono molti meno addetti di quanto ne richiedeva la catena di montaggio meccanica o burocratica.
Andiamo dunque verso un mercato del lavoro dove la domanda diminuisce sempre di più e riguarda quasi esclusivamente le attività creative e affettive. Un mondo, dunque, dove pochissimi avranno il privilegio di lavorare, assistiti da macchine potenti, mentre la massa non avrà nulla da fare che somigli all’attuale lavoro. Allora questa massa non potrà vivere se non di reddito universale e, se ne sarà capace, realizzerà ciò che Maynard Keynes aveva già previsto nel 1930 in quel suo testo profetico che è Prospettive economiche per i nostri nipoti: «Per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza».
Vuoi spiegarci il tuo concetto di Felicità e come è possibile realizzarlo?
La felicità è uno stato d’animo positivo che può esprimersi in modi diversi come la serenità, la beatitudine, la gioia, l’eccitazione, l’entusiasmo. Deriva dalla soddisfazione di bisogni quantitativi come la tranquillità economica e di bisogni qualitativi come l’introspezione, l’amicizia, l’amore, il gioco, la bellezza, la convivialità. Tale stato d’animo deriva in parte dalla predisposizione personale e caratteriale a essere felici e in parte dal contesto esterno che può fornire condizioni favorevoli alla felicità (un tramonto, una carezza) o barriere che la ostacolano (un licenziamento, la morte di una persona cara, una guerra). A livello sociale le decisioni dei potenti possono frapporre queste barriere o rimuoverle. Come ho detto in un mio recente libretto, non a caso intitolato La felicità negata, credo che non ci possa essere progresso senza felicità e non si possa essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza. Ma quest’inumana disuguaglianza non avviene a caso. Bensì è lo scopo intenzionale e l’esito raggiunto di una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza e come obiettivo proprio l’infelicità. Lo aveva già capito molto bene Karl Marx quando scriveva: «Siccome una società, secondo Smith, non è felice dove la maggioranza soffre […] bisogna concludere che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica. […] Gli unici ingranaggi che l’economia politica mette in moto sono l’avidità di denaro e la guerra tra coloro che ne sono affetti, la concorrenza».
Ma Marx diceva anche un’altra cosa: che non si può essere felici accanto a infelici e che la ricerca della felicità, oltre a essere un nostro dovere, è anche una nostra missione: «L’esperienza definisce felicissimo l’uomo che ha reso felice il maggior numero di altri uomini. Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l’umanità, nessun peso ci può piegare, perché i sacrifici vanno a beneficio di tutti; allora non proveremo una gioia meschina, limitata, egoistica, ma la nostra felicità apparterrà a milioni di persone, le nostre azioni vivranno silenziosamente, ma per sempre».
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018). Domenico De Masi è professore emerito di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma. Il suo ultimo libro è La felicità negata (Einaudi, 2022).
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