La riconversione nucleare con i soldi della cultura
II ministro Franceschini dice che la cultura guiderà la ripartenza, ma nel Recovery plan solo il 3% dei fondi sono destinati al settore. E sotto quella voce troviamo anche un regalo al gruppo Sogin per la bonifica di cinque impianti
Il Recovery Plan è stato approvato in fretta e furia dalle Camere, con una discussione parlamentare e pubblica ridotta al lumicino. E non stupisce che, tra le missioni del piano, uno dei reparti più problematici sia quello culturale: meno del 3% dei fondi (6,675 miliardi sui complessivi 222,1), molti dei quali destinati a rafforzare il modello turistico pre-pandemico o, addirittura, concentrati su quelle che appaiono vere e proprie speculazioni immobiliari. C’è poco o nulla per le questioni propriamente culturali. Si è parlato dei fondi per lo Stadio Franchi di Firenze (promosso ad «attrattore culturale»), dei miliardi stanziati per il turismo e per la riqualificazione architettonica dei borghi, o ancora dei 300 milioni per il rilancio di Cinecittà a novella «Hollywood europea», operazione condotta in parallelo al rinnovamento, per cooptazione, del nuovo consiglio di amministrazione dell’Istituto Luce.
Ma non si è discusso abbastanza di una misura comparsa nel piano Draghi e presentata per la prima volta dal Ministro Dario Franceschini, senza alcun dibattito, lo scorso 17 marzo a margine della sua audizione davanti alle commissioni Cultura riunite. Si tratta dello stanziamento, denominato «Recovery Art», di 800 milioni di euro per restauri di specifici edifici religiosi afferenti Ministero dell’Interno (Fec, Fondo Edifici di Culto) e, soprattutto, per la creazione di cinque «depositi per beni culturali da utilizzarsi in caso di calamità naturali», dove contestualmente troverebbero collocazione non meglio identificate start-up, industrie culturali e creative, e laboratori di restauro. A questo scopo sarebbe destinata la riconversione di due caserme, a Roma e a Camerino, delle due ex centrali nucleari di Caorso (Pc) e Garigliano (Ce), e del centro di fabbricazioni nucleari di Bosco Marengo (Al). La misura lascia perplessi: qual è il senso del riversamento di centinaia di milioni di euro su soli cinque depositi, mentre molti di quelli esistenti boccheggiano in abbandono, con poche migliaia di euro l’anno, per mancanza di personale, spazi e investimenti nelle attività ordinarie? Perché proprio quei luoghi, tra i tanti possibili? E chi lavorerà in questi spazi, estesi per chilometri quadrati, se gli organi ministeriali preposti alla tutela del patrimonio sono ormai a rischio immobilismo per carenza di organico, mancati turnover e assenza di concorsi?
Se la scelta del Ministero è stata poco commentata dagli addetti del settore, ha ricevuto il prevedibile plauso dei giornali locali nei luoghi dove si trovano le centrali selezionate. Complice la pubblicazione del programma ministeriale nei giorni dell’anniversario del disastro di Chernobyl, l’attenzione è andata tutta ai benefici ecologici che deriverebbero dall’attuazione del piano. I siti individuati sono, infatti, tutti di proprietà del gruppo Sogin (partecipato al 100% dal Ministero dell’Economia). Il centro delle ex Fabbriche nucleari di Bosco Marengo doveva essere uno dei primi bonificati in Italia, entro il 2020. Tuttavia, lo sversamento dei liquidi radioattivi contenuti negli undici bidoni interrati, scoperti nel 2014, ha prodotto la contaminazione del terreno e richiesto la riprogrammazione delle attività di smantellamento dell’area, ancora in corso. Problemi importanti si riscontrano anche per la centrale di Caorso, il cui decommissioning non si concluderà prima del 2025 (come da previsioni di Sogin), previo l’adeguamento di tre depositi temporanei di scorie e il correlato trattamento di resine e fanghi radioattivi. Più a Sud, anche la centrale di Garigliano è tuttora in pieno smantellamento: la fine degli interventi sul reattore è prevista per il 2026, ma servirà altro tempo per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi. Un azzardo in un sito che, all’evenienza, dovrà fornire supporto al patrimonio della Campania e delle regioni appenniniche contigue, aree ad altissimo rischio sismico. Si tratta, dunque, di luoghi che necessitano di una lunga e costosissima riconversione, e che non saranno disponibili in tempi brevi: non sono, insomma, le «centrali già dismesse e già bonificate» di cui Franceschini parlava presentando il piano il 17 marzo.
Viene perciò il sospetto che quegli 800 milioni non vadano alla creazione dei depositi, ma innanzitutto e soprattutto alla bonifica degli impianti. Per creare depositi di beni culturali occorrono fondi cospicui, strutturati in un piano articolato e destinati al personale, alle strumentazioni utili alla salubrità degli ambienti e del microclima, alla ricerca, al trasporto delle opere fragili, ai costi di accompagnamento delle stesse nei luoghi d’origine. Lo dimostra bene il caso del Deposito di Santo Chiodo di Spoleto, centro di ricerca e ricovero dei beni nato a seguito del terremoto umbro del 1997, ma divenuto pienamente operativo solo grazie agli ingenti finanziamenti stanziati dopo il sisma del 2016. Eppure, al netto degli aspetti positivi, anche il modello spoletino ha una zona d’ombra: la mancata restituzione, a oggi, di molte opere alle comunità locali. Un rischio, questo, che attraversa sottotraccia l’impianto del Recovery Art. Alcuni dei siti presentati sono lontani (come Caorso) o lontanissimi (come Bosco Marengo) dalle aree d’Italia dove si concentra il più alto rischio di disastri naturali: terremoti, dissesti idrogeologici ed eruzioni. Cosa dovremmo immaginare se un’emergenza si scatenasse nelle regioni più lontane da questi luoghi, come la Sicilia o la Calabria? Forse aerei che sbarcano a Roma o in Piemonte carichi di beni culturali, decretandone lo sradicamento dai luoghi d’origine?
Molto più facile pensare che questo stanziamento venga in soccorso di Sogin. Il gruppo, proprietario di tutte e tre le centrali in questione, si trova in grossa difficoltà a causa di una gestione poco oculata (per usare un eufemismo) che ha portato negli anni a debiti e rischio sanzioni dalla corte europea per ritardi, con ombre tali da aver spinto la senatrice Margherita Corrado (Gruppo Misto) a chiedere il commissariamento della società. Alla fine del 2019 Piersante Morandini, consulente Sogin e avvocato italiano presso il cui studio l’azienda ha da poco aperto una sede di rappresentanza a Bratislava, lamentava che «la situazione italiana del Decommissioning delle Centrali Nucleari è in una evidente fase critica e l’auspicio è che si possa avere un veloce rilancio». Pare proprio che quel momento sia arrivato, e poco importa se lo sblocco avverrà grazie a uno stanziamento che nel Recovery Plan risulta come «culturale» e che copre circa un quarto dei fondi previsti per il settore cultura. Questo è più di quanto sia previsto per musei, biblioteche, archivi, teatri, cinema, produzione artistica: ovvero più di zero, che è quanto assegnato per alcune di queste voci. La stessa programmazione triennale dei lavori pubblici nel settore culturale, appena varata, prevede uno stanziamento per il 2021 di 28 milioni: cifra risibile, se confrontata ai numeri del piano che abbiamo discusso in questo articolo.
Sebbene il Ministro propagandi che «la cultura guiderà la ripartenza del Paese», di fatto quegli 800 milioni saranno spesi in massima parte (le cifre esatte sono ancora ignote) per risolvere l’annosa questione della riconversione nucleare: per un fine, cioè, esterno alle competenze del Ministero. Il rischio è l’ennesimo aiuto di stato a dirigenti di partecipate, un richiamo dall’Unione europea per utilizzo truffaldino dei fondi e tre cattedrali nel deserto in cui entreranno soprattutto quadri… elettrici. E tutto, ancora una volta, a spese della cultura.
*Virginia Caramico e Gaia Ravalli sono storiche dell’arte e ricercatrici universitarie. Leonardo Bison è archeologo, ricercatore e giornalista. Tutte/i e tre sono attiviste/i dell’associazione Mi Riconosci.
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