
La rivoluzione digitale (e quella politica)
La rappresentanza politica lascia il campo alla comunicazione e alle nuove tecnologie. Che spazi si aprono per la trasformazione sociale in questo scenario contraddittorio?
Davvero è assurdo parlare oggi di rivoluzione? Viviamo un’epoca in cui l’idea di trasformare radicalmente gli assetti sociali e di potere sembra al di fuori delle opzioni ragionevoli. Eppure, proprio nel momento in cui all’orizzonte non sembra esserci alcuna possibilità di trasformare strutturalmente la società, la parola rivoluzione diventa pervasiva. Sul piano economico, il potere stesso a evocarla. I nuovi prodotti sono spesso presentati come rivoluzionari, la parola rivoluzione è diffusa in modo pervasivo nelle campagne pubblicitarie. È come nella concezione dell’evento di Alain Badiou: sono prodotti-evento, descritti come rivoluzionari perché capaci di creare una frattura tra un prima e un dopo inventando ‘qualcosa che non esisteva’. La rivoluzione in questo caso è legata a prodotti tecnologici descritti come capaci di rivoluzionare la vita e la società. La merce si rappresenta come evento rivoluzionario: il capolavoro della società dello spettacolo. Questa politicizzazione del discorso economico, il suo stabilirsi sul terreno proprio della politica, fa venire in mente la sentenza di Marx per cui nel capitalismo «la sovranità appartiene al capitale», o le formule di Gramsci secondo cui «l’egemonia nasce dalla fabbrica» e «nelle fasi storiche di transizione, la politica viene innestata direttamente nell’economia». La merce incorpora oggi il discorso politico e i suoi miti, come quello della rivoluzione.
La parola rivoluzione è diventata pervasiva anche sul piano politico. Non viviamo in un’epoca pacificata. Per restare all’Europa, ovunque i sistemi politici e i partiti tradizionali sono sfidati, efficacemente, da nuove forze spesso definite populiste. La rivolta della cittadinanza non si esprime, in questi anni, per via di rivoluzioni o rivolte di piazza (se non, queste ultime, sporadicamente), ma principalmente per via elettorale. Di rivolta comunque si tratta. Le forze che incarnano, o sanno efficacemente raccogliere, questo sentimento, presentano quasi sempre sé stesse come rivoluzionarie, che siano di destra, di sinistra o né di destra né di sinistra. Anche sul piano politico la parola rivoluzione diventa ubiqua.
Si tratta ovviamente di uno scenario variegato. Esistono, tra i partiti outsider e quelli “populisti”, forze progressiste (come in Francia, Spagna, Portogallo, Grecia), forze di estrema destra (come in quasi tutti i paesi), o forze che non vogliono collocarsi nella dicotomia destra/sinistra (come il Movimento 5 Stelle o En Marche). Le prime accompagnano al proprio discorso antagonista verso l’establishment politico proposte di redistribuzione sociale, che non diventano progetti di trasformazione sociale del modo di produzione. Il populismo di sinistra non può fare questo passaggio, perché il populismo evoca sempre alleanze interclassiste: non può trasformarsi in un discorso di classe. Le altre forze, quelle di destra e quelle apparentemente non schierate (per ora decisamente maggioritarie, motivo per cui concentriamo d’ora in poi su di loro il ragionamento), si limitano ad attaccare il sistema politico e alcune minoranze (soprattutto i migranti). Sul piano politico propongono spesso il superamento del professionismo politico (è il caso del M5S) o una forte riduzione del ruolo delle rappresentanze e delle istituzioni politiche, con retoriche che richiamano a modo loro, e per certi versi, quelle della tradizione consiliarista o il discorso marxista sulla democrazia diretta (che aveva nella Comune di Parigi il proprio modello) e sulla “estinzione dello Stato”. La rivoluzione, per queste forze politiche, consisterebbe nell’assottigliamento della dimensione politica, nella sua quasi-estinzione come sfera autonoma.
C’è una connessione tra l’uso commerciale e l’uso politico del termine rivoluzione. Questa connessione risiede nelle tecnologie digitali come leva autonoma di trasformazione della società e della politica. Spesso le nuove forze politiche propongono un superamento o una forte riforma della democrazia rappresentativa a favore di forme di democrazia diretta. Molto dei loro discorsi rimandano alla centralità delle tecnologie digitali e alla loro capacità di realizzare l’ideale democratico di Jean-Jacques Rousseau: la partecipazione globale dei cittadini alla formazione delle leggi e all’assunzione delle decisioni politiche.
In tutto il mondo, va aggiunto, i parlamenti, i politici e i partiti sono attaccati, derisi e descritti come inutili dagli anni Ottanta del secolo scorso (cioè da quando sono nati i grandi network televisivi privati). Ora che le tecnologie digitali rendono idealmente possibile la partecipazione politica costante di tutta la cittadinanza, l’esito di questo processo di distruzione simbolica della rappresentanza appare quasi logico: a cosa serve mantenere “caste” politiche privilegiate se sono diventate inutili, e se chiunque può fare il loro lavoro? Siamo, e probabilmente saremo sempre più, in questa transizione storica.
La democrazia rappresentativa è nata e si è sviluppata dopo la prima rivoluzione industriale. C’è un legame stretto tra industrializzazione e democratizzazione, tra le forme e gli attori della società industriale e le forme e gli attori della democrazia rappresentativa. Il periodo delle rivoluzioni democratiche, che possiamo comprendere tra la Rivoluzione francese e la Comune di Parigi, è interpretabile in questi termini: la forma politica dell’Antico Regime non era più adeguata a una società trasformata da tre secoli di capitalismo e dalla rivoluzione industriale. Possiamo dire che oggi, ad essere in gioco, è una frattura di tipo simile? C’è una tensione strutturale tra la società digitalizzata e la democrazia rappresentativa?
Le più importanti imprese del capitalismo digitale, con la diffusione di dispositivi e piattaforme fondamentali per la produzione, la comunicazione e la creazione di consenso, possono rendere obsoleta l’impalcatura dello Stato moderno (su cui sono modellati i partiti tradizionali) e l’intera architettura della rappresentanza. Queste tecnologie sono già applicate alla dimensione politica come strumento di comunicazione tra dirigenti politici e cittadini-elettori, come strumento di organizzazione delle stesse forze politiche, e come forma di discussione e presa di decisioni interne di queste forze. Dall’altro lato, istituzioni e governi cominciano a sperimentare forme di e-government.
Le tecnologie comunicative contemporanee prefigurano un modello di governo che per ora si sta diffondendo all’interno delle nuove formazioni politiche, ma che in futuro potrebbe essere la base di un modello di Stato post-rappresentativo. Queste tecnologie producono soprattutto un doppio effetto: concentrano in alto il nucleo operativo e decisionale (il centro, il vertice); producono possibilità di partecipazione ‘puntuale’, specifica e potenzialmente permanente tra gli individui. Schiacciano quindi il livello intermedio tra vertice e base. O meglio: lo sostituiscono con sé stesse. Dove un tempo c’era la rappresentanza politica, oggi si innestano la comunicazione televisiva e digitale, le loro strutture, piattaforme e agende.
La forma politica costruita attorno alle piattaforme digitali assume i contorni di uno spazio liscio, privo delle vischiosità prodotte dalle tradizionali strutture organizzate (partiti e sindacati), in cui i cittadini possono essere chiamati a partecipare a un processo elettorale tendenzialmente permanente ma riguardante questioni specifiche e puntuali, con un forte apporto di expertise, grazie al quale è possibile presentare le scelte politiche come basate su parametri oggettivi, scientifici e neutrali, quindi prive di logica partigiana. Non viene, già oggi, presentata in questi termini la maggior parte delle decisioni politiche?
Tutto ciò diventerà più evidente con il possibile sviluppo futuro di queste tecnologie. Non siamo alla fantapolitica, basta ragionare su tendenze già in atto: cosa succederà, ai sistemi di governo e alle forme della politica, quando ci saranno avanzamenti significativi in campi come quello dell’intelligenza artificiale? Studiosi e analisti si stanno già occupando del modo in cui i sistemi di intelligenza artificiale e di machine learning (le macchine che auto-apprendono) potrebbero essere usati per progettare e realizzare politiche pubbliche e per conoscere sia le reazioni della popolazione che i risultati di queste politiche.
Il conflitto tra piattaforme e democrazia rappresentativa
Tra Settecento e Ottocento si è verificato un conflitto strutturale tra politica dell’Antico Regime ed economia industriale. Il conflitto strutturale odierno è quello tra capitalismo digitale e democrazia rappresentativa. Non è impossibile immaginare che in pochi decenni si prefiguri un modello di governo di questo tipo: le elezioni non scompariranno, ma non serviranno a eleggere un parlamento, bensì direttamente un governo. Un governo dei ‘migliori’, di esperti ‘senza partito’ che governano attraverso un uso intensivo delle tecnologie informatiche per la formulazione delle decisioni politiche e per la consultazione dei cittadini. I cittadini, a loro volta, saranno chiamati periodicamente a esprimersi sulle loro preferenze in merito a specifiche scelte politiche. Se le cose funzioneranno, ci si potrà poi chiedere: a cosa serve votare per il governo? Si vota già tutti i giorni con i nostri click sullo smartphone o sui dispositivi che li sostituiranno, e le nostre reazioni alle politiche pubbliche sono già costantemente monitorate attraverso i social media e con gli strumenti che li integreranno o sostituiranno, capaci di cogliere un sentiment aggregato che può sostituire il voto diretto. D’altra parte, già oggi, diversi analisti dell’informazione mainstream iniziano a legittimare o fare propri discorsi contrari al suffragio elettorale e perfino al principio elettorale, immaginando per esempio la selezione della rappresentanza politica attraverso il sorteggio, presentata ovviamente come più democratica della competizione elettorale tra partiti. Questo modello di governo rappresenta lo sviluppo di tendenze già in atto: sostanziale esautoramento dei parlamenti, retoriche tecnocratiche, partecipazionismo online completamente individualizzato. Lo si potrebbe definire un modello di “Partecipazionismo tecnocratico” o una “Monarchia digitale partecipativa”. Un modello compiutamente post-rappresentativo, post-parlamentare e post-conflittuale, ma non ‘dittatoriale’. Anzi, questo modello si ammanta di retorica iper-democratica, magari anche progressista nell’assunzione di valori come l’ambientalismo, la parità di genere, il rispetto delle minoranze e dei diritti civili.
Le retoriche e le ideologie contenute nei libri e nei documenti pubblici degli amministratori delegati dei grandi gruppi informatici (da Facebook a Apple, a Google), hanno già questi contenuti: democrazia partecipativa post-rappresentativa, inutilità e antichità del conflitto collettivo (ma non del conflitto individuale, per competere e diventare ‘i migliori’), con venature di progressismo e umanitarismo compassionevole. Sarebbe un modello coerente con le esigenze delle imprese dominanti del nuovo capitalismo. Perché gli assomiglia, e in gran parte arriva da lì. Somiglia al modo in cui queste imprese sono organizzate al proprio interno, ai loro modelli di business e al modo in cui costruiscono i propri ‘ambienti comunicativi’, cioè alle forme dell’interazione sociale che incentivano.
Si tratterebbe di una neutralizzazione della politicità delle istituzioni statali, della loro apparente riduzione a tecnica e amministrazione, dell’eliminazione della parzialità delle scelte politiche e del loro legame con gli interessi di gruppi sociali specifici. Un’eliminazione che riguarderebbe solo la parzialità e gli interessi sociali dei ceti subordinati, mentre quelli dominanti avrebbero in questa forma di governo la loro dimora ideale. La politica sarebbe ammantata di tecnica e rappresentata come scelta neutrale effettuata su basi esclusivamente razionali. Un esito iper-moderno: la razionalizzazione di ogni aspetto della vita è una delle basi dell’ideologia moderna. Quasi una realizzazione estremistica degli ideali dell’Illuminismo, a depurata di uno dei suoi aspetti costitutivi: l’emancipazione collettiva.
Sarebbe però anche un esito ‘dialettico’, che ha qualche aspetto in comune con i discorsi politici di chi storicamente il capitalismo l’ha sfidato. In questo modello infatti sono presenti alcune analogie con i discorsi della Comune di Parigi e con l’idea marxiana della politica post-rivoluzionaria. Evocano, infatti, la prospettiva della fine della separazione tra società civile e Stato, il riassorbimento del processo politico nel processo sociale, il superamento della rappresentanza e del professionismo politico, la fine della separazione funzionale tra politica e società. Tutti elementi presenti nella tradizione politica e culturale marxista.
Il raggiungimento di questi esiti però è qui delineato in modo opposto rispetto al marxismo e alle esperienze storiche di rivoluzione sociale: non come trasformazione dei rapporti sociali, ma come pieno dispiegamento delle potenzialità e delle caratteristiche tecniche e sociali dei settori e degli attori dominanti dell’economia. In esperienze storiche come quella della Comune di Parigi e nel marxismo la possibilità della fine del professionismo politico e della divisione governati/governanti non è il processo rivoluzionario, ma la sua conseguenza. È la rivoluzione sociale, cioè l’eliminazione delle differenze di classe, a consentire di superare gli antagonismi sociali e le loro oggettivazioni politiche. Attualmente avviene l’opposto. La trasformazione del processo politico, l’indebolimento dei partiti e della politica professionale, l’immissione di cittadini comuni nelle istituzioni, sono considerati, essi stessi, la rivoluzione. La posa rivoluzionaria assunta da molte nuove forze politiche è concentrata sulla riforma del processo politico. Il valore dell’eguaglianza è rivendicato solo all’interno di questi confini. I processi economici e sociali sono considerati come dati in sé. Anzi, sono questi stessi processi oggettivi a dover determinare l’evoluzione della politica. La «rivoluzione politica» diventa spesso un’applicazione – una trasposizione lineare, una sovrapposizione sostitutiva – delle tecniche, dei mezzi, dei processi e dei meccanismi vigenti in Rete. In Italia il Movimento 5 Stelle ha fatto di tutto questo un’ideologia, traducendo sul piano politico i discorsi e la propaganda delle grandi imprese informatiche.
Il fatto che il capitalismo contemporaneo evochi in modo parziale e deformato alcuni principi delle teorie e delle pratiche politiche rivoluzionarie impone di pensare al campo politico e sociale contemporaneo come a una costruzione molto stratificata e contraddittoria. Nessun esito è scontato. La direzione che la ‘grande trasformazione’ contemporanea prenderà e gli esiti della frattura strutturale tra vita materiale da un lato (cioè gli effetti della ‘rivoluzione digitale’ sulla produzione, il lavoro e le interazioni sociali) e architetture politico-istituzionali dall’altro, dipenderà, come sempre, dalla dinamica, dal conflitto e dai rapporti di forza tra gruppi sociali dominanti e gruppi sociali subordinati.
*Loris Caruso è ricercatore in sociologia politica alla Scuola Normale Superiore. Si occupa di teoria politica, movimenti sociali e trasformazioni del lavoro.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.