
La rivoluzione femminista del Rojava
Le risate, i sogni, la determinazione delle donne curde sono la prova che, nonostante la guerra e la disperazione, la luce della speranza può sempre farsi strada
Nel cuore del Medio Oriente, dove le cicatrici di decenni di conflitto e oppressione sono ancora visibili, una rivoluzione silenziosa ma radicale sta riscrivendo la storia. Il Rojava, regione curda nel Nord-Est della Siria, è il fulcro di un cambiamento che vede le donne non solo come protagoniste di una trasformazione politica e sociale senza precedenti, ma come vere e proprie architette di un nuovo modello di società. In questo laboratorio di cambiamento, l’emancipazione femminile non è semplicemente una lotta politica, ma il motore principale di una visione che ridefinisce concetti fondamentali come la libertà, l’autodeterminazione e la democrazia diretta. Qui, le donne stanno sfidando secoli di disuguaglianza, costruendo una comunità in cui la giustizia sociale e la parità di genere non sono ideali lontani, ma realtà tangibili.
In un contesto geopolitico frammentato, tra le rovine di una guerra civile e sotto la costante pressione di potenze straniere in competizione per la supremazia regionale, questo territorio, abitato da popoli di lingue e fedi diverse, rappresenta un’eccezione straordinaria. Sebbene la guerra civile siriana e il conflitto tra le potenze regionali siano al centro della scena, la resistenza femminista nel Rojava si sviluppa come una risposta non solo alle minacce interne, ma anche all’influenza esterna di potenze come la Turchia, l’Iran e le forze occidentali, che spesso hanno interessi contrastanti.
Storicamente perseguitata e ridotta al silenzio da potenze imperialiste e nazionaliste, la società curda ha trovato nel pensiero di Abdullah Öcalan, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), una via di riscatto. A partire dagli anni Novanta, Öcalan ha elaborato una teoria politica che fonde il socialismo democratico con la parità di genere. Questa visione è diventata la spina dorsale della rivoluzione curda e, per le donne, non solo un’alternativa al patriarcato, ma anche una speranza concreta per la costruzione di una società più giusta.
«Un paese non può essere libero se le donne non sono libere», ha scritto Öcalan. Parole che risuonano come un grido di battaglia per un’intera generazione, determinata a non restare in silenzio di fronte alla devastazione della guerra civile siriana e alla brutalità dell’Isis. Le donne del Rojava hanno preso in mano il proprio destino, affrontando una doppia oppressione: da un lato, le tradizioni patriarcali delle loro comunità; dall’altro, regimi autoritari che hanno tentato di cancellare la loro identità. Eppure, da queste ceneri, sono risorte come fenici, diventando leader, combattenti e visionarie.
Questa rivoluzione femminista non è limitata ai confini del Rojava, ma rappresenta un faro per il mondo intero, invitando a re-immaginare le possibilità della libertà e della giustizia. Il loro coraggio e la loro determinazione dimostrano che il cambiamento non è solo necessario, ma possibile, anche nei contesti più ostili.
Oggi, c’è una sfida ancora più grande da affrontare. Con la caduta di Bashar al-Assad e l’ascesa al potere di Ahmed al-Sharaa come presidente di transizione, la Siria si trova in una nuova fase politica che suscita molte preoccupazioni. La storia del paese ha visto i diritti delle donne limitati dalle dinamiche patriarcali e da un regime che, pur adottando narrazioni laiche, ha spesso represso ogni forma di dissenso.
Con questo nuovo governo si teme un’involuzione. La politica di «reintegrazione» delle forze conservatrici, inclusi gruppi jihadisti e movimenti islamisti, alimenta solo timori. Questi gruppi non solo hanno mostrato un disprezzo profondo per i diritti delle donne, ma hanno anche cercato di imporre un’interpretazione estremista e patriarcale della legge islamica, relegando le donne a un ruolo subordinato. La prospettiva di un governo che favorisca l’islamismo conservatore non lascia ben sperare per la protezione dei diritti femminili, specialmente in un contesto dove libertà di movimento, istruzione e partecipazione politica sono sempre state ostacolate.
A questo si aggiunge il ruolo della Turchia, che accusa Daanes, l’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord-Est, di essere un’estensione del Pkk. Con questo pretesto, ha avviato numerosi attacchi militari contro le Forze Democratiche Siriane (Sdf), le sue forze di autodifesa, nel tentativo di smantellare il progetto politico che ha preso forma nel Nord-Est della Siria.
Il recente appello di Abdullah Öcalan ha scosso il movimento curdo, innescando una reazione a catena che attraversa la Turchia e la Siria. Il suo invito a porre fine alla lotta armata contro lo Stato turco e a sciogliere il Pkk ha aperto un dibattito che potrebbe ridefinire il futuro del conflitto curdo-turco e influenzare gli equilibri di potere nel caos siriano.
L’importanza dell’appello di Öcalan risiede nella sua reiterata volontà di una risoluzione pacifica, privilegiando una soluzione diplomatica e politica rispetto alla lotta armata. Questo rappresenta una rottura significativa con il passato, per quanto non definitiva. Il Pkk la considera un invito alla pace, ma non un’immediata cessazione della resistenza. Piuttosto, sembra aprire un nuovo capitolo della lotta curda, che potrebbe orientarsi verso una strategia più politica che militare.
Le Sdf (Syrian Democratic Force), che riuniscono milizie curde e arabe, controllano ampie aree del nord-est della Siria, hanno accolto l’appello di Öcalan come un passo positivo verso la pace, ma senza compromettere la propria autonomia. Sebbene una cessazione delle ostilità con il regime di Assad e con le forze turche sia auspicata, le Sdf non sono disposte a cedere il controllo dei territori conquistati con il sangue, a meno che non vengano garantiti diritti politici, sicurezza e autodeterminazione.
Questo scenario si inserisce in un contesto geopolitico più ampio, in cui il futuro della Siria e della causa curda è strettamente legato alle tensioni tra potenze regionali e locali. La Turchia continua a considerare il Pkk una minaccia per la propria sicurezza nazionale e ha reagito con scetticismo all’appello di Öcalan, intensificando le operazioni sia contro le Sdf in Siria che contro il Pkk in Iraq. L’opinione pubblica turca non sembra ancora pronta ad accettare una transizione che potrebbe apparire come troppo favorevole nei confronti del movimento curdo, da sempre guardato con ostilità. Tuttavia, nel lungo periodo, le dichiarazioni di Öcalan potrebbero aprire un varco per un processo di disarmo e dialogo, a condizione che la Turchia mostri segnali concreti di apertura.
Le Unità di Protezione delle Donne (Ypj) sono uno dei simboli più potenti della rivoluzione in Rojava e hanno una risposta a tutto questo. Non sono quelle donne con le trecce e il fucile in spalla che i rotocalchi europei hanno dipinto come icone di bellezza, bensì combattenti di una rivoluzione globale che cerca di riscrivere non solo le regole della guerra, ma quelle della vita quotidiana.
Il mondo le ha conosciute durante la battaglia di Kobane nel 2014, quando grazie al loro coraggio, unito alla loro astuzia tattica, hanno ribaltato le sorti dello scontro, riconquistando la città dalle mani di Daesh. Comandanti come Rojhelat Afrin ci ricordano che il loro impegno va ben oltre la difesa militare, per loro il fucile non è uno strumento di dominio, ma un mezzo per abbattere le strutture oppressive e difendere la dignità e i diritti di ogni essere umano.
Nonostante le difficoltà, la lotta delle donne curde non è solo un atto di resistenza, ma un atto di emancipazione che trascende il patriarcato e il machismo che ancora permeano la società. «Abbiamo sconfitto l’Isis non solo per noi, ma per l’umanità», afferma Afrin e continua «stiamo vivendo una rivoluzione delle donne».
Il cambiamento in un contesto segnato da radici patriarcali non è mai immediato, e sfidare le strutture culturali che continuano a definire il ruolo delle donne nella famiglia e nella società non è scontato. «Non ci vedrete mai come vittime, ma come combattenti per la libertà», afferma Nessrin Abdalla, un’altra comandante delle Ypj, un’affermazione che racchiude la forza di questa resistenza. Non si tratta solo di resistere alla violenza, ma di cambiare un sistema che ha relegato le donne a ruoli passivi e silenziosi.
La guerra è solo una parte della storia, infatti la rivoluzione delle donne in Rojava è prima di tutto una rivoluzione del cuore, un movimento che non si ferma all’autodifesa armata, ma che cerca di costruire un nuovo ordine sociale dove le donne non siano più spettatrici, ma protagoniste del cambiamento. Ogni passo che le donne in Rojava compiono nella loro lotta è un passo verso una società in cui ogni individuo possa determinare liberamente il proprio destino.
In questo contesto, il tema del militarismo assume una valenza tutta sua. Infatti, l’autodifesa non è solo una risposta alla violenza, ma una necessità: quando i diritti e la libertà sono sotto minaccia, questa diventa l’unico strumento per proteggere sé stesse e la propria comunità. Non si tratta di inseguire la violenza, ma di garantirsi il diritto di esistere e di combattere per ciò che è giusto. Il pregiudizio che riduce la lotta a un atto di brutalità va scardinato.
Il femminismo rivoluzionario del Rojava si distingue nettamente da quello neoliberale occidentale. Nato in una società povera, contadina e profondamente religiosa, è un femminismo dirompente che non si limita a conformarsi alle convenzioni sociali, ma le sfida continuamente. Le sue radici affondano nelle antiche divinità mesopotamiche, nelle interpretazioni democratiche del cristianesimo e dell’Islam, e nel marxismo di Rosa Luxemburg. Non cerca legittimazione nel sistema esistente, ma combatte per costruire un nuovo ordine in cui le donne possano finalmente determinare il proprio destino.
Come afferma la scrittrice e attivista Audre Lorde: «Non c’è niente di più pericoloso di una donna che non ha più paura di lottare». La resistenza delle donne in Rojava non è un concetto astratto o una semplice narrazione adattata agli ideali occidentali. È un’azione quotidiana che pervade ogni aspetto della loro esistenza, ridefinendo continuamente il significato di libertà e giustizia. In un mondo che impone modelli precostituiti, dimostrano che l’autodeterminazione femminile è la base per una società più giusta e equa. Non è un femminismo separatista, né volto a distruggere gli uomini o il sistema, ma pronto a sfidare un ordine che ha a lungo silenziato le voci femminili.
In queste combattenti risuona l’eco di una storia più lunga, quella delle partigiane italiane della Seconda guerra mondiale che, come le Ypj, non si limitarono a opporsi al fascismo, ma ridefinirono il proprio ruolo all’interno della società. Non furono semplici figure di supporto agli uomini, ma protagoniste di una resistenza che mirava a trasformare le strutture sociali. Come le combattenti curde, affrontarono non solo la dittatura, ma anche un sistema patriarcale che le voleva relegate a un ruolo marginale. Non era solo una battaglia militare, ma un impegno per un mondo in cui le donne potessero essere libere, indipendenti e protagoniste della propria storia. Oggi, le donne nel Nord-Est della Siria si muovono in un contesto segnato dalla guerra e dalla miseria, ma, a differenza delle partigiane italiane, fanno parte di un movimento che riconosce e legittima il loro ruolo di leader e promotrici del cambiamento.
Questa è la rivoluzione delle donne: una trasformazione che non si esaurisce nella dimensione armata, ma si estende a quella ideologica, culturale e sociale, in cui ogni conquista è un atto di autodeterminazione. Un messaggio potente che risuona non solo tra le donne curde, ma ovunque si combatta l’oppressione, la violenza e la discriminazione.
E così, mentre il cielo sopra il Rojava rimane minacciato da bombardamenti e attacchi, nei villaggi e nelle città del Nord-Est della Siria cresce una nuova fiamma di speranza. Le loro risate, i loro sogni, la loro determinazione sono la prova che, nonostante la guerra e la disperazione, la luce della speranza può sempre farsi strada.
In un angolo remoto della Siria, un gruppo di donne sta cambiando il destino del suo popolo. Non si arrenderanno. Non si fermeranno. Perché la lotta per la libertà, l’uguaglianza e la giustizia non è solo un atto politico, ma un atto d’amore. Un amore per la vita, per la comunità, e per le generazioni future. E mentre le donne del Rojava combattono, con coraggio e passione, il loro messaggio è chiaro: «Jin, Jiyan, Azadi». Donna, Vita, Libertà. Un grido che non sarà mai muto.
*Anna Irma Battino è giornalista free lance con una grande passione per il cinema, ma scrive soprattutto di giustizia sociale, transfemminismo e politica. Ha partecipato a diverse carovane in Palestina, Brasile, Messico, Argentina e Kurdistan.
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