La scuola del futuro
Tre studenti impegnati nei movimenti per il diritto allo studio, nelle lotte ambientaliste e nella costruzione di forme di mutualismo discutono di scuola, pandemia, crisi economica, didattica e forme della mobilitazione
Pur in assenza di veri e propri movimenti studenteschi da quello dell’Onda del 2008, sono stati proprio le studentesse e gli studenti delle scuole a riempire le piazze più importanti degli ultimi anni. I Climate strike del movimento Fridays For Future sono un movimento ecologista in larghissima parte composto da studenti, ma sono state piene di giovanissime studentesse anche le mobilitazioni del movimento femminista Non una di meno e quelle antirazziste nate sulla scia del movimento statunitense Black Lives Matter. Del resto la crisi climatica riguarda per ragioni anagrafiche in modo particolare chi frequenta oggi le scuole, le nuove culture femministe trovano sensibilità in chi inizia ad affrontare sul proprio corpo la violenza di genere ma si rifiuta di adattarvisi, e le scuole sono il luogo dove, con la presenza massiccia delle seconde generazioni figlie di migranti, si sperimentano sia le ingiustizie razziali che le interazioni tra provenienze e culture differenti.
Abbiamo invitato per una tavola rotonda sul punto di vista studentesco sulla scuola di oggi due studentesse e uno studente impegnati in tre diverse esperienze di attivismo. Giorgia Mira, diciassette anni, frequenta il liceo a Bari ed è attiva nel movimento locale e nazionale di Fridays for Future; Alessandro Personè, vent’anni, ha concluso il liceo a Nardò in provincia di Lecce un anno e mezzo fa, ed è da tempo attivo nel sindacato studentesco Uds (Unione degli studenti) di cui è membro dell’esecutivo nazionale; Pamela Scarpini, 19 anni, ha preso la maturità quest’estate al Convitto Rinaldo Corso di Correggio, in provincia di Reggio Emilia, ed è attiva nell’esperienza mutualistica del doposcuola popolare della Casa del popolo Spartaco.
Vi chiedo di iniziare questa discussione raccontandoci le vostre esperienze di attivismo, analizzando insieme somiglianze e differenze con le forme tradizionali di organizzazione e mobilitazione studentesca, per capire come nasce e su quali canali di comunicazione viaggia questa nuova voglia di partecipazione di studenti e studentesse che abbiamo visto nei più recenti eventi di piazza.
Giorgia: Nella mia scuola abbiamo iniziato ad attivarci sulle questioni ecologiste prima delle mobilitazioni di ogni venerdì lanciate da Greta Thumberg. Non avevamo grandi idee, ma abbiamo iniziato a portare in classe i cartoni per la raccolta differenziata e abbiamo fatto il giro della scuola per proporlo a ogni classe. Da questo semplice passaggio è iniziato un processo che ha coinvolto in sole due settimane ben 900 studenti e studentesse dei 1.400 della mia scuola autogestendo la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. Molti professori spesso sminuiscono il nostro attivismo a una moda lanciata da Greta, ma in realtà la nostra passione ecologista è nata da un semplice passaparola. Greta ha avuto un grande coraggio ed è stata fondamentale come scintilla per creare la mobilitazione internazionale, e il suo impatto mediatico ha provocato un effetto domino nelle scuole: la differenza nella partecipazione degli studenti prima e dopo Greta è stata enorme. Ora abbiamo assemblee locali di Fridays For Future in tutte le città, composte di vari gruppi di lavoro che danno continuità quotidiana a campagne specifiche, e che sono anche il motore delle grandi manifestazioni in occasione dei Global Climate Strike che costruiamo sempre con largo anticipo mettendoci in contatto con tutte le scuole della propria città, proponendo attività o discussioni e attivando un dialogo diretto con i collettivi delle varie scuole. A Bari abbiamo anche la rete interscolastica cittadina dove ci sono scambi anche sulle vertenze ambientali portate avanti costantemente da ognuno.
Pamela: Io ho cominciato a frequentare il doposcuola della Casa del popolo Spartaco sei anni fa e da quel momento mi sono attivata per dare una mano in tutte le iniziative della Casa del popolo. Fin dall’inizio è stata data la possibilità a noi giovanissime ragazze e ragazzi di gestire autonomamente una parte degli spazi per socializzare fuori dalla logica del mercato. Sia io che altri ragazzi anche più giovani di me ci siamo messi a disposizione per organizzare feste e cene di autofinanziamento, progetti di solidarietà attiva e per seguire i percorsi sull’antifascismo. La partecipazione degli studenti è cresciuta soprattutto con l’esperienza del doposcuola popolare e dei suoi progetti collegati che vanno dalla musica, allo sport fino ai tornei di biliardino, ping-pong o PlayStation. Avere il senso di responsabilità di autogestire una stanza ci ha formato più di mille assemblee.
Alessandro: Le strutture classiche di organizzazione studentesca di tipo novecentesco oggi subiscono senza dubbio un’evoluzione. La stessa propaganda per costruire mobilitazione studentesca non si veicola più volantinando davanti alle scuole ma principalmente attraverso i social network. Un anno e mezzo fa la manifestazione contro la riforma degli esami di maturità fu lanciata e organizzata da gruppi facebook, che nel frattempo sono stati già superati da gruppi Telegram. I social network permettono anche alle stesse organizzazioni di intuire i bisogni di mobilitazione spontanea dal basso. Pensate che lo sciopero che abbiamo lanciato il 23 ottobre scorso sulle questioni inerenti la riapertura deriva in realtà da un finto volantino dell’Uds girato sui social network che convocava uno sciopero per il 16 ottobre e che in 24 ore aveva messo insieme 1.400 studenti: ci siamo accorti di questa voglia di mobilitazione spontanea e a quel punto abbiamo convocato uno sciopero vero e proprio per il 23 convogliando in modo organizzato questa spinta. Ciò segnala che non è la partecipazione degli studenti a essere in crisi ma sono le organizzazioni studentesche che devono ristrutturarsi se vogliono dare sponda a questo bisogno di mobilitazione. Fridays For Future in questi ultimi due anni ha consolidato un modello di organizzazione che ha rivoluzionato anche noi Uds, utilizzando una strategia di comunicazione che punta a costruire egemonia sui social network, riuscendo a rendere «pop» un tema come l’ecologia, e utilizzando un linguaggio e uno stile non solo di contestazione ma che mostra anche le evidenze scientifiche su ciò che bisogna fare per salvare il pianeta. Fridays For Future ci ha insegnato a snellire il linguaggio, a utilizzare anche slogan in inglese se arrivano in modo più immediato, e a smettere di rendere i nostri messaggi politici troppo complessi.
In questi due anni di movimento internazionale contro la crisi climatica siete riusciti a ottenere nuove politiche scolastiche di impostazione ecologista?
Giorgia: A livello istituzionale purtroppo non è cambiato nulla. Il grande cambiamento c’è stato nella sensibilità ecologista di studenti e studentesse, mentre a livello burocratico non abbiamo ottenuto risultati concreti. Il presidente dell’Associazione nazionale dei presidi ha annunciato la stipula di un accordo per la formazione dei docenti sul tema dell’educazione ambientale… ma ha chiesto a Eni di formare i docenti proprio perché azienda esperta di inquinamento! Invece di collaborare con realtà associative o anche aziendali che fanno politica ambientale hanno chiamato i campioni dell’inquinamento. La prima cosa che chiediamo ora è quindi cancellare questo contratto con Eni. L’ecologia infatti non deve essere solo un libro di testo, servono gesti concreti. È necessario studiare per capire i cambiamenti climatici, ma se poi a scuola mi ritrovo Eni, le bottigliette di plastica in vendita e le circolari con carta chimica anziché riciclata non c’è nulla di credibile. Il gesto ha più impatto del discorso: per questo l’uso della borraccia per veicolare un messaggio è più efficace di un volantino. A scuola servirebbero sia i testi ecologisti che i fatti concreti: è illusorio pensare di salvare il mondo con la borraccia ma non bastano nemmeno le grandi idee politiche se non sono seguite da fatti coerenti.
Alessandro: La battaglia da fare è ancora lunga, come dice Giorgia non abbiamo ottenuto vittorie radicali. L’ex ministro Lorenzo Fioramonti aveva proposto di introdurre come materia Educazione ambientale, ma la questione ambientale, così come quella femminista e antirazzista, non deve essere una materia specifica ma lo sfondo di ogni materia. E sono questioni che non vanno solo studiate ma praticate. La riconversione ecologica va praticata a scuola, la questione femminista contro la violenza va praticata a scuola, l’antirazzismo va praticato a scuola non solo studiato.
Le scuole con la pandemia sono state le prime a chiudere e le ultime a riaprire, derubricate a luoghi non essenziali al funzionamento del nostro paese, e in ogni caso non in grado di far convivere il diritto allo studio con quello alla salute. Come avete vissuto questi mesi di didattica a distanza? Quali sono secondo voi le contraddizioni della scuola che si sono accentuate in questo periodo e cosa vi sareste aspettati di diverso da professori, istituzioni scolastiche e governo?
Pamela: Per me essendo l’ultimo anno, l’esperienza del lockdown totale e della didattica a distanza è stata traumatica, non immaginavo di vivere così l’anno dell’esame di maturità. Con la Casa del popolo ci siamo attivati mettendo a disposizione i nostri computer e un fondo di 500 euro per cercare di risolvere il problema di chi non aveva mezzi tecnologici o la possibilità di connettersi a internet. Ciò ha creato una buona sinergia, che speriamo serva per il futuro, tra insegnanti, famiglie (soprattutto quelle numerose) e attivisti della Casa del popolo. In più è stato fatto il doposcuola popolare online per gli studenti delle superiori che ne avevano bisogno. La didattica a distanza ha portato in superficie alcune problematiche dovute alla disuguaglianza economica e alla divisione in classi della nostra società. In un paese di 25 mila abitanti per fortuna si riesce ad avere il polso della situazione, grazie soprattutto alla nostra credibilità di tanti anni sul territorio. Dal governo e dalle istituzioni scolastiche ci saremmo aspettati la consapevolezza di mettere a rischio con questa scelta la salute psicofisica di milioni di persone, mentre il dibattito ha ridotto la scuola a un problema di parcheggio per i figli di chi lavora.
Giorgia: Io sinceramente durante il lockdown mi sono incazzata come una bestia. Non ce la facevo a sentire di continuo Tg con notizie allarmanti e poi catapultarmi sul computer a studiare le materie del rigido programma scolastico: mi sembrava di non avere contatto con la realtà. Fridays For Future è stato per me un’apertura critica sul mondo durante il lockdown che mi ha permesso di sopravvivere, però ho visto una contraddizione anche tra gli studenti. Quando ho chiesto alla professoressa di filosofia di fare un percorso sui filosofi e il fare politica che ci aiutasse a comprendere le scelte che stava facendo in quel momento il governo, la classe mi si è rivoltata contro perché non si sentivano preparati sull’attualità, e così dopo essere scesi tante volte in piazza e aver chiesto di poter svolgere dibattiti, nel momento in cui c’era l’occasione di discutere a lezione è venuta fuori la paura di un maggior carico di lavoro e di perdere tempo rispetto al programma ufficiale. La stessa contraddizione l’ho vista però anche nei docenti: si lamentano spesso che non sappiamo niente del mondo eppure durante il lockdown sembrava che la loro priorità fosse unicamente finire i programmi ufficiali e metterci il voto. In un momento di emergenza sarebbero dovute cambiare le regole anche nei programmi, e più che mai avrei voluto fare educazione ambientale perché la crisi sanitaria ha fatto emergere soprattutto le contraddizioni della crisi climatica e i suoi effetti sull’emersione del virus e anche sull’indebolimento dei nostri stessi sistemi immunitari.
Alessandro: La nostra generazione sapeva di essere la più povera dal dopoguerra, con la crisi conseguente alla pandemia teme ora di diventare la più povera in assoluto. La scuola riflette la crisi politica ed economica che stiamo subendo, e con la didattica a distanza sono venute fuori le diseguaglianze sociali tra scuole del centro – che avevano già dei sistemi di digitalizzazione e una formazione dei docenti per poter reggere la Dad – e scuole di periferia, come in aree della Puglia dove solo uno studente su tre ha una connessione a internet. Non a caso infatti in questi mesi di pandemia l’abbandono scolastico in queste zone è aumentato. Quella della Dad è stata una scelta di emergenza, e forse non si poteva far altro perché la responsabilità delle mancanze strutturali della scuola non è solo di questo governo ma del disinvestimento degli ultimi vent’anni. Però il governo non è riuscito ad andare oltre l’emergenza: con il movimento Priorità alla scuola abbiamo incontrato la ministra Lucia Azzolina e di fronte alla richiesta che le ho fatto personalmente di intervenire sui problemi strutturali della scuola mi ha risposto che lei poteva solo provare a gestire l’emergenza. Però i problemi emersi sono strutturali non emergenziali. La polarizzazione della discussione non dovrebbe essere tra scuole aperte o chiuse, quella è una valutazione che spetta al Comitato scientifico seguendo i dati epidemiologici, occorre invece capire perché abbiamo dovuto chiudere mentre altri paesi europei si sono potuti permettere di tenere le scuole aperte, cosa ci sarebbe da fare in termini di edilizia scolastica, organico, e trasporti pubblici per fare scuola in sicurezza. Ora serve capire come lottare contro la dispersione scolastica di questi mesi, e cogliere l’occasione anche per cambiare la didattica abbandonando il modello «gentiliano-aziendalistico» imposto dalla riforma della «Buona scuola» di Matteo Renzi.
A cosa pensiate serva andare a scuola oggi? Vorreste che servisse anche a qualcos’altro? Pensando anche a cosa avete costruito nelle vostre esperienze di attivismo, come vi immaginate la scuola del futuro?
Pamela: La scuola oggi fa fatica a servire a qualcosa. Mi spiego meglio: tolta la grande volontà di alcuni insegnanti, oggi la scuola invece che fornire a noi studenti capacità critiche e autonomia di pensiero ci «inculca» nozioni e concetti in maniera veloce, spesso senza lasciare il tempo di ragionare e confrontarsi. La pandemia, come detto, ha sicuramente messo in evidenza le carenze e le dinamiche malate che la scuola aveva già da prima, in primo luogo le classi numerosissime e le scuole di Serie A e B. Questa situazione di emergenza però potrebbe anche essere una possibilità per ripensare la scuola come istituzione. La scuola dovrebbe tornare al centro della società e dovrebbe emergere l’educazione come bene comune. Per fare questo naturalmente servono investimenti e volontà politica, ma anche un lavoro fatto da tutti per incentivare la fiducia nell’istruzione pubblica. Esperienze come il nostro doposcuola popolare possono lavorare a fianco della scuola pubblica, non per sopperire alle sue carenze ma per costruire laboratori e progetti che esaltino la creatività degli studenti.
Alessandro: Come dice Greta, se tra pochi anni continuando così il mondo finisce allora a scuola è meglio non andarci e mobilitarsi fino a che le cose non cambieranno. A oggi andare a scuola forse non serve a nulla ma dobbiamo provare a cambiarla standoci dentro. «Change the school to change the system», è stato lo slogan con cui ci siamo mobilitati prima del lockdown, mentre la riforma della «Buona scuola» con l’alternanza scuola-lavoro ci mette in contatto con le grandi aziende del sistema come Eni, McDonald’s e varie banche che il ministero ha definito nell’accordo di collaborazione con loro «campioni dell’alternanza». Io penso che sia utile se gli studenti vanno da Eni o all’Ilva, ma solo se poi tornano in classe per studiare come quelle aziende possono essere riconvertite per cambiare questo modello produttivo che genera devastazione climatica e sfruttamento. La scuola dovrebbe slegare la conoscenza dagli interessi privati, tenere i saperi liberi, deve essere il luogo in cui gli studenti possano ribaltare la società contro il sistema neoliberista che sta scricchiolando a causa della pandemia.
Giorgia: Alessandro ha detto una parola chiave: riconversione. È importante perché ci accusano di voler lasciare le persone senza lavoro quando chiediamo di chiudere l’Ilva, ma noi vorremmo riconvertire queste persone in attività lavorative sicure per l’ambiente uscendo dal ricatto tra lavoro, salute e ambiente. Per questo ci tengo a dire che Fridays For Future non è un movimento ambientalista ma ecologico, la giustizia climatica è giustizia sociale non semplice amore per la natura.
La scuola che vorrei dovrebbe essere in grado di valorizzare le diverse passioni di ognuno di noi. L’ho imparato con il movimento Fridays For Future: non tutti siamo fatti per occuparci di questioni mondiali e chi non se ne occupa non vale di meno perché può contribuire con la propria specifica passione. Dentro il movimento c’è chi ha competenze scientifiche sulla crisi climatica, chi competenze grafiche, chi capacità di scrittura e ognuno è importante. Solo se riesce a valorizzare le passioni di ciascuno di noi la scuola da dovere si può trasformare in diritto. Quando scioperiamo perdiamo un giorno di scuola, di conoscenza, ma non percepiamo la perdita perché per noi ciò che ci viene chiesto di studiare per avere il livello necessario a entrare nel mondo del lavoro non sempre è una ricchezza. Ovviamente ci vuole anche la disciplina nello studio, però la scuola dovrebbe essere la miccia delle passioni. In questi giorni sto leggendo La scuola nel bosco di gelsi, di Pietro Ratto, che racconta una storia in cui il governo permette a tutti i lavoratori di prendersi un anno senza lavorare, e il preside della scuola si ritrova con tutti gli studenti ma senza docenti. A quel punto capisce che l’unica cosa da fare è cambiare le regole, non potrebbe certo insegnare tutte le materie, e invita gli studenti ad andare a scuola per il gusto di andarci proponendo i temi per il gusto di impararli senza avere dei voti. Io sogno questo.
*Giulio Calella, cofondatore di Edizioni Alegre, è coautore di Studiare con lentezza (2006) e L’onda anomala (2009).
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