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La seconda ondata progressista 

Marco Morra 15 Novembre 2022

Con la vittoria di Lula in Brasile si configura un nuovo ciclo di governi di sinistra in America latina. Riusciranno a rompere i dogmi del neoliberismo?

Con la vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva alle elezioni presidenziali del Brasile, lo scorso 30 ottobre, le cinque principali economie dell’America Latina saranno guidate da governi di sinistra, con Gabriel Boric in Cile, Gustavo Petro in Colombia, Alberto Fernández in Argentina e Andrés Manuel López Obrador in Messico. La vittoria del leader del Partido dos Trabalhadores (Pt) avrà una ripercussione geopolitica fondamentale nel continente, poiché non solo comporta la momentanea retrocessione della reazione neoliberale che ha avuto in Bolsonaro il suo principale rappresentante nel subcontinente, ma consolida una nuova ondata progressista nella regione. La «seconda», dopo quasi un decennio di lotte politiche senza esclusione di colpi, che hanno visto, in questi anni, il trionfo delle destre.

La prima ondata può essere situata tra il 1999, anno d’inizio della rivoluzione bolivariana, e i primi anni Dieci del secolo, chiudendosi con la morte di Chávez nel 2013, la vittoria del macrismo in Argentina, il processo di impeachment contro Dilma Rousseff in Brasile alla fine del 2015 e il golpe in Bolivia nel novembre del 2019. Essa fu caratterizzata dal ruolo ideologicamente e politicamente propulsivo del socialismo bolivariano e da una grande varietà di governi progressisti e nazional-popolari in Argentina, Brasile, Bolivia, Ecuador, Paraguay e Venezuela, eletti sulla spinta di lotte sociali e di mobilitazioni che attraversarono la regione opponendosi agli effetti nefasti del neoliberalismo e dell’imperialismo. Benché nessuna di queste esperienze abbia realizzato una rottura con le strutture sociali del capitalismo, tali governi si impegnarono ad articolare politiche dagli accenti antimperialisti e riforme strutturali, in alcuni casi anche molto importanti, che mettevano al centro il ruolo dello Stato nell’economia, il controllo pubblico delle risorse strategiche, piani di nazionalizzazione e politiche redistributive verso le classi popolari. In alcuni paesi, come la Bolivia, l’Ecuador e il Venezuela, queste riforme si accompagnarono a un notevole avanzamento del processo democratico, attraverso la convocazione di assemblee costituenti e l’instaurazione di organismi di democrazia partecipativa sui territori (vedi qui e qui).

Malgrado le promesse a lottare per «la igualdad y la justicia», secondo le parole di López Obrador, e un rinnovato impegno ecologista, soprattutto da parte di Petro e Lula, a cominciare dalla preservazione dell’Amazzonia, questa «seconda ondata progressista» sembra molto lontana da quella che fu rappresentata da Hugo Chávez, Rafael Correa, Evo Morales, Néstor y Cristina Kirchner e lo stesso Lula da Silva. Le separano differenze strategiche e una congiuntura economica meno favorevole a quella crescita dei prezzi delle materie prime che permise, nel primo decennio del secolo e oltre, di realizzare importanti politiche redistributive.

López Obrador, in Messico, e Fernández, in Argentina, non sembrano voler rinunciare ai buoni rapporti diplomatici e commerciali con il vicino statunitense, ben lontani dal progetto d’integrazione latinoamericana promosso da Chávez e Castro nel primo decennio del secolo, e doppiamente in contrasto con Cuba e Venezuela, che, in questi anni, hanno ripetutamente denunciato l’embargo nordamericano e fatto appello alla comunità internazionale perché cessassero le sanzioni economiche durante la pandemia.

Teatro delle più violente rivolte sociali degli ultimi anni, che hanno preceduto le due storiche vittorie elettorali di Petro e di Boric, la Colombia detiene a oggi il primato nella regione latino-americana per indice di povertà e di povertà estrema (rispettivamente 39.8% e 19.2% della popolazione, dati Cepal 2020), mentre il Cile, sebbene vanti la crescita del Pil e il salario medio reale più alti della regione (dati Cepal 2021), resta il paese con l’indice di concentrazione della ricchezza più diseguale, dove, secondo il World Inequality Report 2022 , l’1% più ricco della popolazione concentra il 49,6% della ricchezza totale del paese, mentre oltre un milione di studenti si indebita per accedere agli studi superiori, un pensionato su quattro riceve un sussidio al di sotto della soglia di povertà e i consumi sono sostenuti dall’indebitamento di vasti settori della popolazione. Come annunciato da Boric in occasione dell’anniversario dell’estallido social, lo scorso 18 ottobre, «Il disagio di fondo espresso dal popolo cileno durante le rivolte del 2019-2020 persiste ancora, così come il nostro impegno a farcene carico». Riusciranno i nuovi governi ad affrontare  queste sfide?

Proprio in Cile, forse, è più emblematica la dimostrazione delle difficoltà, o dei limiti, di questa nuova sinistra. In carica dall’11 marzo di quest’anno, Gabriel Boric ha vinto il ballottaggio contro l’avversario di estrema destra, José Antonio Kast, con il 55,8% dei voti contro il 44,1%, alla testa di una coalizione di sinistra, con forze di nuovo corso, come il Frente Amplio, e partiti tradizionali, come il Partito comunista, e sulla base di un programma che prevedeva, tra gli altri provvedimenti, la riforma del sistema pensionistico, il recupero di cinquecento mila posti di lavoro per le donne, la creazione di un sistema sanitario pubblico e universale, la riduzione dell’orario di lavoro a quaranta ore settimanali, l’aumento del salario minimo, il condono dei debiti contratti dagli studenti universitari, la creazione di 260.000 alloggi pubblici, la gratuità ed ecocompatibilità dei trasporti pubblici, la riforma del sistema tributario in senso progressivo e l’introduzione di una tassa sui grandi patrimoni e di royalty per le società private dell’estrazione del rame. Non di certo un programma massimalista. Per realizzarlo, tuttavia, dovrà fare in conti con l’opposizione, maggioritaria in parlamento, e con un alleato scomodo, il centro-sinistra, il cui appoggio è risultato indispensabile alla coalizione Apruebo Dignidad (Frente Amplio, Partito comunista e altri partiti) per vincere il ballottaggio contro Kast e conservare, ad oggi, la maggioranza governativa, ma non senza significative divergenze emerse specialmente nei lavori dell’Assemblea costituente e in occasione del referendum.

Stretto tra l’opposizione parlamentare e le divisioni interne alla sinistra, il governo sconta non poche difficoltà. Innanzitutto eredita dal suo predecessore un clima di insicurezza crescente determinato, in parte, dalle migrazioni massicce che provengono dal nord della regione, in parte dall’attività dei gruppi del narcotraffico, infine dall’annoso conflitto dell’Araucania per le terre ancestrali dei Mapuche, e aggravato dalla sfavorevole congiuntura internazionale, ovvero dalla crescita dell’inflazione. La principale difficoltà del governo, tuttavia, deriva dall’opposizione che detiene la maggioranza, sebbene di poco, in entrambe le camere, così che, a oggi, importanti misure come l’abolizione della legge sulla pesca, la riforma delle pensioni e la riforma tributaria, restano ostaggio di un dibattito parlamentare che rischia di essere senza via d’uscita. Dal canto suo, la destra ha gioco facile ad attribuire al governo la responsabilità dell’insicurezza e dell’inflazione che colpiscono il paese, favorita dal controllo dei principali mezzi di comunicazione del paese. Infine, è significativo tanto della forza dell’opposizione quanto della divisione della sinistra, che lo scorso 12 ottobre, il Senato cileno ha approvato il Trattato di Libero Commercio Transpacifico, il cui rifiuto è stato uno stendardo della lotta dei comunisti e del Frente Amplio in questi anni.

In questa situazione, il processo costituente, che è stato il vero punto di rottura dell’esperienza cilena, fatica a continuare dopo la vittoria del rechazo, per la mancanza di un accordo tra i partiti dell’arco parlamentare. Iniziato dietro la spinta propulsiva dell’estallido, esso poteva fornire, al nostro secolo, la seconda esperienza di transizione, dopo quella tentata in Venezuela, a un modello sociale ed economico differente, per via legale, ma forse non pacifica, di sicuro non priva di conflitti. Per il governo, tuttavia, dopo la sconfitta del referendum, non è facile rilanciare il processo, a causa dell’opposizione dell’estrema destra, impegnata a difendere la costituzione di Pinochet, e della destra moderata che vorrebbe una Convenzione composta maggioritariamente da parlamentari. Alle forze della sinistra restano due possibilità. La prima, che sembra quella percorsa anche dagli altri leader progressisti della regione, consiste nel moderare le proprie pretese riformiste per condurre un dialogo con il centro e la destra moderata e isolare, in tal modo, la destra più intransigente rappresentata dal Partido Republicano e dal Partido della Gente. L’altra, invece, porterebbe a fare appello e organizzare la spinta di massa nelle piazze, senza la quale si dimostra ora più difficile apportare dei reali cambiamenti socio-economici e costituzionali.

Non molto diversa è la situazione del Brasile, dove Bolsonaro non ha conseguito la carica presidenziale, ma il bolsonarismo resta un avversario temibile, avendo conquistato il Senato e guadagnato i governatorati degli Stati più popolosi del paese, a cominciare da São Paulo. Se il leader venerando della sinistra brasiliana eredita un paese diviso e più povero di quello che aveva lasciato dopo il suo secondo mandato, rischia di non trovare ampi margini di manovra nella ricerca di un’intesa con gli altri partiti dell’arco democratico, senza la quale non potrebbe tener testa ai sostenitori di Bolsonaro. La minaccia del bolsonarismo ha costretto Lula a cercare appoggi in settori del centro e perfino del centro-destra, da cui proviene il suo candidato vicepresidente, Geraldo Alckmin, cosicché il tentativo di realizzare una conciliazione nazionale e democratica tra le parti sociali non renderà facile neppure l’attuazione delle riforme minime per garantire inclusione e diritti sociali. 

D’altra parte, la stentata vittoria di Lula contro Jair Bolsonaro in Brasile, con appena il 50,9% dei consensi, la vittoria del «no» al referendum per la nuova costituzione in Cile con il 62% dei voti, il ritorno annunciato di Donald Trump per le prossime elezioni presidenziali negli Usa e la crescita delle destre nell’Unione europea, che governano in Polonia, Ungheria e, ora, anche in Italia, sono altrettante prove dell’affermazione potenzialmente egemone di un nuovo paradigma neoconservatore, con caratteri di populismo, autoritarismo e liberismo in campo economico, e dell’attestarsi intorno a esso di settori ampi della borghesia e di parti non trascurabili dell’elettorato.

In America Latina sembra definitivamente conclusa l’era degli Allende e dei Chávez, e i  nuovi leader di sinistra non lo nascondono affatto. È comprensibile che nel programma di Boric non ci sia nessun accenno al socialismo, ma sorprende che lascino tanto a desiderare le misure verso i grandi gruppi economici che controllano le risorse e l’economia del paese. Il progetto di creazione di una impresa nazionale del litio non si accompagna ad alcun programma di nazionalizzazioni, nessuna espropriazione dei fondi pensione è prevista nella riforma previdenziale, mentre le società forestali e minerarie dovranno, nel migliore dei casi, pagare delle royalty per finanziare politiche redistributive e rispettare nuove norme di compatibilità ambientale. In Brasile, la lotta oppone un progetto di capitalismo redistributivo, che dovrebbe garantire condizioni di vita e di lavoro dignitose, a un capitalismo del saccheggio, che acuisce le disuguaglianze attraverso la deregolamentazione del mercato del lavoro e mette a rischio l’ecosistema con lo sfruttamento intensivo e sregolato delle risorse, come nel caso dell’Amazzonia. Petro, infine, resta il solo ad aver posto esplicitamente il tema della transizione a un modello economico non basato sull’estrattivismo (petrolifero e del carbone), bensì sullo sviluppo di un’economia della conoscenza, benché neghi che una simile trasformazione debba avvenire nel quadro di una società socialista, e ambisce piuttosto a un capitalismo democratico e pacificato.

Questa nuova sinistra è, certamente, meno ideologica, più pragmatica, di quella che l’ha preceduta. A ben vedere, tuttavia, molte delle sfide che dovrà affrontare restano le stesse e possono riassumersi nella lotta all’indigenza, alle diseguaglianze e alla devastazione ambientale prodotte dalle politiche neoliberali e nel superamento del modello estrattivista. Quest’ultimo, oltre ad avere un costo sociale e ambientale elevato, vincola le economie regionali all’esportazione delle materie prime, le rende dipendenti dalle tecnologie dei paesi imperialisti e dalle fluttuazione del mercato mondiale e, dunque, nel lungo periodo,  estremamente vulnerabili, come dimostrato dal drammatico fallimento del socialismo bolivariano. Di certo gli attuali governi di sinistra in America Latina dovranno fare i conti con il dato fondamentale che non c’è alcun cambiamento possibile in termini sociali, economici e ambientali che non passi dalla rimozione dei pilastri del neoliberalismo subcontinentale, ovvero il modello dello «stato minimo», la preminenza del settore privato anche nel campo dei beni e dei servizi essenziali, lo sfruttamento intensivo delle risorse a opera dei grandi gruppi privati. Un vasto programma, che i nuovi governi avranno non pochi problemi ad articolare, a maggior ragione se proveranno a farlo nel quadro del consociativismo e senza l’ausilio delle mobilitazioni sociali.

*Marco Morra è dottorando in Studi Internazionali all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Si occupa di storia della sinistra e dei movimenti sociali tra America Latina ed Europa occidentale.

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