La sinistra e il golpe in Cile
La scommessa di Salvador Allende su una transizione democratica al socialismo era insostenibile? La questione è stata elusa o trascurata, ma non è inattuale
L’11 settembre 1973 fu l’evento fondante della controrivoluzione neoliberista che avrebbe attraversato il mondo capitalista negli anni successivi. Il suo impatto arrivò ben oltre i confini del Cile e dell’America Latina. Tutti coloro che avevano seguito con simpatia l’esperienza dell’Unidad Popular in Cile (Up) furono commossi e travolti dal sovvertimento militare del governo presieduto da Salvador Allende e dalla sua fine eroica, avendo scelto il sacrificio piuttosto che la fuga o la resa. Va detto che la via cilena al socialismo fu una «passione militante» a cui i partigiani dell’emancipazione riuscirono ad aggrapparsi dopo una lunga serie di battute d’arresto.
In un articolo accademico, Olivier Compagnon e Caroline Moine ricordano che all’inizio degli anni Settanta le speranze nate dalle rivolte del 1968 erano svanite. Il regime sovietico era segnato dai crimini dello stalinismo e aveva represso le aspirazioni alla libertà «socialista» nei suoi paesi satellite. Il fascino di Cuba era diminuito proprio dopo l’allineamento dell’isola con l’Urss, mentre Che Guevara era morto nel suo tentativo di esportare la rivoluzione.
Per quelle sinistre europee che avevano ancora un orizzonte socialista, l’identificazione con il Cile era resa possibile da un panorama politico che presentava, nel paese andino, alcune analogie con quello del Vecchio Continente: «La strutturazione della sfera pubblica da parte dei sindacati dei lavoratori, con un partito socialista, un partito comunista, ma anche la democrazia cristiana, esisteva solo in Europa… e in Cile», osserva l’attivista altermondialista Christophe Aguiton. In Francia e in Italia, in particolare, Unidad Popular aveva suscitato grande interesse.
Pochi mesi prima di intraprendere i negoziati per un Programma comune nel 1972, i dirigenti francesi del Partito Socialista (Ps) e del Partito Comunista (Pcf) si recarono a Santiago. François Mitterrand, da sempre sostenitore dell’unità delle sinistre, fu ricevuto dal presidente cileno. Sebbene l’esperienza dell’Up non sia mai stata assunta «come esempio da seguire» [dalla sinistra francese, ndt], osserva la storica Judith Bonnin in una nota per la Fondazione Jean-Jaurès, «i francesi e i cileni non potevano rimanere indifferenti ai segni della loro somiglianza politica, e [l’incontro] sembra essere stato il frutto di una curiosità reciproca».
In Italia, il Partito Comunista (Pci) aveva da tempo forti legami con il proprio omologo cileno. Enrico Berlinguer, leader del Pci, aveva persino intrattenuto una corrispondenza con il socialista Allende una volta eletto. L’importanza assunta dal partito della Democrazia Cristiana in entrambi i paesi e l’esistenza di tendenze progressiste al suo interno facilitarono l’«identificazione», spiega lo storico Roberto Colozza: «La vittoria di Up – scrive – realizzò in Cile ciò che il Pci cercava di ottenere in Italia, dove la prospettiva di una rivoluzione violenta non era più un’opzione se non negli ambienti dell’estrema sinistra extraparlamentare».
Unidad Popular fu d’ispirazione nella via praticata per la conquista del potere. E la sua tragica fine? Il colpo di Stato indusse le sinistre a rivedere le proprie strategie? Quali insegnamenti si trassero da quella sanguinosa sconfitta?
Le sinistre non dubitarono della loro strategia
In un contesto di solidarietà con le vittime della dittatura, ha dominato la mitizzazione dell’Unidad Popular e dell’eroismo dei suoi protagonisti. Al punto che il significato politico più profondo di quanto accaduto in Cile tra il 1970 e il 1973 è andato in qualche modo perduto.
Un esempio recente è il tributo che si appresta a rendere ad Allende il Partito dei socialisti europei, che da tempo governa l’Unione europea in una grande coalizione con i conservatori e i liberali. L’omaggio dovrebbe certamente celebrare il martire della democrazia, ma sarà evidentemente povero di riflessioni sul superamento del capitalismo.
Tuttavia, la singolarità della scommessa di Allende è stata quella di voler mantenere fino in fondo la duplice promessa di socialismo e democrazia, all’interno di un quadro legale, senza tradirlo né sconfinare nella guerra civile. Ed è proprio la capacità di mantenere questa promessa che il colpo di Stato del settembre 1973 sembrava distruggere. Eppure, ieri come oggi, le organizzazioni impegnate in una profonda trasformazione dell’ordine sociale non sono state affatto turbate da questo evento. In genere hanno interpretato il caso cileno in modo da rafforzare le opzioni strategiche esistenti o hanno nascosto le inquietanti questioni che esso poneva.
Nell’estrema sinistra, il golpe sembrò convalidare l’opinione che la scommessa di Allende fosse stata sbagliata fin dall’inizio e che il suo rifiuto di prepararsi al confronto armato fosse irresponsabile. Come ha recentemente riassunto l’accademico Franck Gaudichaud, «varie correnti della sinistra rivoluzionaria (libertaria, trotskista, maoista, operaista) [hanno visto] nel massacro che seguì l’immolazione di Allende sull’altare repubblicano la conferma dell’impasse delle strategie riformiste e legaliste, e persino dei loro pericoli per le classi lavoratrici».
«A sinistra, le lezioni apprese si escludevano a vicenda e attraversavano vecchie divisioni – afferma il filosofo Pierre Dardot, allora membro della Ligue Communiste – “Armare il proletariato” era il nostro slogan in risposta al putsch. Oggi penso che avrebbe portato a una frantumazione ancora più terribile…». «All’estrema sinistra, abbiamo imparato dal caso cileno l’importanza di essere presenti nell’esercito, con comitati di soldati clandestini – dice Christophe Aguiton – Ma era l’epoca del servizio militare e l’ultimo tentativo di putsch in Francia risaliva a soli dodici anni prima».
In effetti, la lotta militare non è più tra le priorità dei gruppi di estrema sinistra. Ma non è nemmeno stata sostituita da una dottrina alternativa, se non quella della conquista delle istituzioni da parte delle masse popolari. Significativamente, il libro di Olivier Besancenot e Michael Löwy, Septembre rouge (Textuel, 2023), si presenta come «un racconto politico “romanzato”» della cospirazione militare contro Unidad Popular. «In ultima analisi, l’estrema destra non esita mai sul da farsi», ricorda Besancenot a Politis, riferendosi all’11 settembre 1973. Nella stessa intervista, chiarisce che «non si tratta di trarre conclusioni politiche dal passato al posto dei rivoluzionari cileni». Ciononostante, gli attivisti internazionalisti hanno la consuetudine di riflettere sulla propria pratica a partire dalle esperienze fatte altrove.
A differenza delle sinistre rivoluzionarie dell’epoca, i comunisti italiani furono ancora più cauti di Allende nel loro legalismo dopo l’11 settembre 1973. Iniziatore dell’orientamento eurocomunista, il leader del Pci, Enrico Berlinguer, pubblicò in autunno una serie di tre articoli sulla rivista Rinascita, intitolati Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile. In essi avanzò l’ormai famosa proposta di un «grande compromesso storico» con la Democrazia Cristiana. Questi testi riflettevano il suo desiderio di vedere il Pci svolgere un ruolo attivo nella gestione del paese, ma anche la sua convinzione che, anche con una maggioranza nelle urne, il partito avrebbe visto troppe forze – interne e internazionali – schierate contro di lui. Era quindi giunto il momento di ripiegare su un’«alternativa democratica», piuttosto che su un’«alternativa di sinistra» per la situazione politica italiana. Quest’ultima era segnata dagli attentati stragisti dell’estrema destra, che facevano temere una deriva autoritaria delle istituzioni.
Dopo due decenni di retorica ostile alla Democrazia Cristiana, si trattava di una svolta significativa, presumibilmente in linea con la logica dell’unità contro il fascismo a cui il Pci si era già uniformato nel 1944-1947 e che, in ogni caso, si fondava su ragioni interne che le «lezioni» del rovesciamento di Allende rafforzavano, ma non erano sufficienti a ispirare.
«La paralisi che immobilizza[va] l’Italia e la minaccia alla stabilità democratica del paese – scrive Pascal Delwit nella sua storia della sinistra radicale – incoraggiavano i dirigenti del Pci ad adottare una strategia di compromesso, che si sarebbe tradotta nell’appoggio parlamentare al governo del democristiano Giulio Andreotti».
Il Partito socialista di François Mitterrand, invece, non moderò né radicalizzò la sua linea strategica, bensì prese radicalmente le distanze dall’esperienza cilena. La reazione televisiva del leader socialista francese, all’indomani del colpo di Stato, è un esempio di questa operazione: in due brevi minuti, Mitterrand elogiò la nobiltà dei princìpi che Allende aveva difeso fino alla morte, ma si affrettava a respingere qualsiasi analogia tra il caso francese e quello cileno, contrapponendo «un paese industriale» a «un paese sottosviluppato», e «il socialismo dell’abbondanza» al «socialismo della penuria».
Già all’inizio del 1973, sottolinea Judith Bonnin, Mitterrand scriveva in La Rose au poing: «Non ho mai proposto il Cile come modello […]. Non si può fare un paragone ragionevole tra quel paese e il nostro». La storica sottolinea che il paragone fu fatto dopo il suo ingresso all’Eliseo nel 1981, ma provenne dall’opposizione di destra, che cercava di «sottolineare il prevedibile fallimento del mandato di François Mitterrand».
«Che abbiano il coraggio di dire chi è Pinochet in Francia oggi!», replicava nel 1983, sulle pagine dell’Unité, il socialista Claude Estier, che aveva organizzato il viaggio a Santiago del Cile dodici anni prima. La polemica, tuttavia, ebbe vita breve: il primo presidente socialista della Quinta Repubblica portò a termine il suo mandato e il ricordo dell’esperienza cilena sembrò ormai lontano col finire della Guerra fredda.
Nonostante la diversità di queste reazioni, le domande sollevate dall’esperienza cilena rimasero in gran parte senza risposta in termini politici. Da un lato, perché furono talvolta ignorate; dall’altro, perché i sostenitori di una transizione democratica al socialismo non riuscirono a dimostrare di poter riuscire dove Up aveva fallito.
In Italia, la strada del compromesso storico si è impantanata e il Pci è poi diventato un banale partito di centro-sinistra. In Francia, il Partito socialista ha sacrificato l’ideale di una società socialista aprendo una «parentesi» liberale che non è mai stata veramente chiusa. In realtà, afferma Pierre Dardot, «la linea radical-riformista di Allende non è mai stata riprodotta in Cile… né altrove».
Gli interrogativi che continua a porre la sconfitta di Unidad Popular
Si potrebbe dire che, oltre alle differenze tra i contesti nazionali, invocate all’epoca per non spaventare l’elettorato, la distanza storica che ci separa dagli anni di Unidad Popular rende superfluo interrogarsi su quell’esperienza. Ma è proprio questo che l’intellettuale marxista Ralph Miliband contestava sulle pagine di Socialist Register, appena pochi mesi dopo il putsch.
Dopo tutto – sottolinea nel suo articolo – il Cile era una società pluralista, una democrazia liberale e parlamentare, e la sua economia faceva parte del sistema mondiale capitalista. Al di là delle differenze di contesto geografico e storico, questi tratti generici caratterizzano molti Stati. L’esperienza cilena offre un esempio suggestivo di ciò che potrebbe accadere quando un governo in una democrazia borghese dà l’impressione di voler davvero apportare seri cambiamenti all’ordine sociale e muoversi in una direzione socialista, anche se in modo graduale e costituzionale.
«E ciò che potrebbe accadere – continuava – è la trasformazione della lotta di classe “ordinaria”, da parte dei settori più conservatori e privilegiati della società, in “guerra di classe”». A questo proposito, Miliband impugna le critiche che hanno insistito sull’imprudenza di Allende, privo di una maggioranza parlamentare assoluta in favore di Unidad Popular – la coalizione superò il 50% dei voti solo nelle elezioni municipali del 1971. L’autore sottolinea che è stato proprio dopo che Up guadagnò terreno nelle elezioni legislative del 1973 che sono iniziati i preparativi per il putsch.
Certo, i sostenitori dell’ordine costituito sarebbero tanto più «intimiditi» quanto più alta fosse la percentuale di voti per un programma di trasformazione sociale. Ma questo non significa che saranno «disarmati». «Ciò che conta per la destra – dice ancora l’intellettuale – non è la percentuale di voti che sostiene un governo di sinistra, ma gli obiettivi che lo guidano». Quindi la questione cruciale non è tanto l’entità della vittoria elettorale che dà accesso alla guida delle istituzioni, ma quello che succederà dopo, di fronte alla prevedibile coalizione di resistenze interne e internazionali.
Eppure questa questione rimane in gran parte non affrontata dalla sinistra radicale contemporanea, anche quando difende un programma di rottura e rivendica un ruolo di leadership piuttosto che di sostegno al centro-sinistra.
Anche senza parlare di un’opzione militare, che oggi sembra improbabile, ci sarebbero molti modi per la borghesia di sabotare l’azione di un Mélenchon al potere – afferma Christophe Aguiton – Sarebbe facile per loro usare la demagogia per mobilitare settori ostili a questa o quella misura del programma, moltiplicare il numero di azioni giuridiche… D’altra parte, saremmo lontani dal livello di organizzazione che avevano i partiti cileni. Oggi ci sono mobilitazioni massicce nella società, ma le organizzazioni sono ancora molto piccole».
Pierre Dardot aggiunge:
Non bisogna trascurare la forza d’inerzia dell’alta amministrazione. Si può sempre invitare la gente a sostenere il governo in carica, ma ricordiamoci di Syriza, che ha tradito il risultato di un referendum popolare a causa delle pressioni dell’Unione europea e della sua mancanza di preparazione. Lo Stato non sarà mai uno strumento a disposizione di una sinistra che cerca di rovesciare le gerarchie sociali, e molti dei suoi membri fanno ancora fatica a venire a patti con questa idea.
Su Jacobin Magazine l’attivista Ben Beckett, immaginando uno scenario in cui Bernie Sanders arrivasse alla Casa Bianca, ha utilizzato l’esempio del Cile per chiedersi se la «rivoluzione politica» promessa sarebbe realizzabile. Non che il programma di Sanders sia paragonabile a quello di Allende, ma l’aggressività delle forze della reazione sarebbe fuori discussione: «Per questo motivo – ha scritto – è essenziale che la sinistra sviluppi una base politica organizzata, alleata ma indipendente dalle forze interne allo Stato».
Nel Cile degli anni Settanta c’è stata effettivamente una dialettica tra potere popolare e potere istituzionale. Ma alla fine non si arrivò a nulla, senza che nessuno dei due riuscisse a superare le proprie contraddizioni e i propri limiti. Secondo Miliband, ciò è dovuto in parte alla «rigidità strategica» del governo di Allende, che ha mantenuto la stessa intransigenza legalista e non ha mai smesso di esprimere la sua fiducia nella lealtà delle forze armate dall’inizio alla fine, anche se le circostanze erano cambiate radicalmente.
In Allende e l’esperienza cilena (Teti, 1976), un ex consigliere del Presidente cileno, sostiene questa tesi, anche per quanto riguarda la questione militare, vero «tabù» della coalizione. Pur essendo ostile a qualsiasi «tattica insurrezionale», Joan Garcés riteneva che si sarebbe potuta tentare una politica di difesa civile, che avrebbe permesso un collegamento tra «il settore democratico delle forze armate» e «le organizzazioni popolari e operaie», in grado di prevenire o resistere allo «scatenamento della violenza controrivoluzionaria».
Se la rivisitazione di questi dibattiti sembra lontana dalla vita politica contemporanea, non è tanto perché un colpo di forza contro un governo democratico sarebbe impossibile. È successo in diverse occasioni nell’Unione europea degli anni Dieci di questo secolo, attraverso la minaccia di asfissia finanziaria e monetaria. Quanto allo scenario di un intervento militare, ritiene Pierre Dardot, «è certamente improbabile nelle condizioni attuali, ma non è assurdo interrogarsi sulle tentazioni che si presenterebbero nel cuore di un processo di crisi, con uno Stato paralizzato».
È solo che, in questa fase, i partigiani superstiti di un superamento democratico del capitalismo sembrano ancora molto lontani da una vittoria elettorale basata su un tale programma, conosciuto e accettato dalle masse popolari organizzate. Da qui la tentazione di nascondere sotto il tappeto il problema della resistenza, forse molto brutale, che il loro progetto susciterebbe se messo in pratica. Ma è lecito chiedersi se questa mancanza di riflessione non finisca per pesare sulla credibilità di questo stesso progetto.
*Questo articolo è tratto da Mediapart.fr. La traduzione è di Marco Morra.
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