La sinistra latinoamericana ci riprova
Le elezioni in Argentina, Bolivia e Uruguay del prossimo ottobre saranno un giro di boa per le sinistre. Dopo esser state un modello per un decennio oggi sono in crisi e provano a reinventarsi
Per molti è stato il «decennio conquistato». Un momento d’oro per la sinistra latinoamericana da cui, secondo i più entusiasti, avrebbero dovuto imparare anche gli ormai svalutati partiti socialdemocratici europei. Una quindicina d’anni in cui partiti, movimenti, o singole figure sorte dalle più semplici tradizioni popolari sudamericane hanno avuto un assaggio dei vertici del potere dei loro stati. Tramontati poi tra accuse più o meno fondate di populismo, autoritarismo e corruzione, hanno però il chiaro pregio di aver cambiato il paradigma politico latinoamericano. I collettivi di disoccupati argentini, ad esempio, hanno abbandonato il «que se vayan todos» del 2001, e oggi cantano «vamos a volver», ritorneremo al potere, nei comizi in cui partecipano il candidato a presidente Alberto Fernandez e l’ex presidente Cristina Kirchner, sua vice nel binomio peronista.
La radice popolare
Di certo la visione idillica e romantica che vorrebbe ridurre la storia latinoamericana a un continuo avvicendamento di governi popolari rivoluzionari e regimi oligarchi vendepatria senza scrupoli non è nuova. Anzi, si tratta di una delle solfe più ritrite dell’infervorato clima pre-elettorale di qualsiasi paese latinoamericano. Ma ogni momento storico ha le sue caratteristiche che vale la pena sviscerare. Quello del «decennio conquistato» è un modello sorto dalle ceneri dell’ultraliberismo testato in America Latina tra gli anni Ottanta e Novanta e concluso nelle tragiche crisi finanziarie in Messico nel 1994, Brasile nel 1998, Ecuador nel 1999, Argentina nel 2001, Uruguay nel 2002, per citarne solo alcune. In queste circostanze i movimenti sociali latinoamericani hanno confermato il loro ruolo di veri e propri agenti di costruzione sociale, cittadina e umana, oltre a quello di attori politici di peso. Si tratta di movimenti che ancor oggi entrano fino in fondo nella dinamica quotidiana dei settori popolari, che creano mense, costruiscono case, propongono attività di aggregazione sociale. Non solo vanno in piazza per chiedere la continuità dei sussidi statali alle loro attività, ma hanno saputo costruire un’alternativa reale e tangibile per quei settori che vogliono interpellare. Uno degli esempi più tradizionali è quello del Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra del Brasile, nato alla fine degli anni Settanta con le prime occupazioni di terra organizzate dai contadini del centro-sud del paese, e che oggi scandisce le giornate di quasi due milioni di contadini organizzati in 23 dei 27 stati brasiliani.
Le fabbriche recuperate nell’Argentina della crisi del 2001 sono diventate anch’esse il simbolo di un nuovo movimento politico. Nate dall’organizzazione dei lavoratori di aziende andate in bancarotta, e rimesse in moto dagli ex dipendenti in forma autogestita, oggi sono quasi 400 realtà produttive. All’inizio dei 2000 erano il fiore all’occhiello di un movimento che non voleva solo pensare a un futuro possibile ma cercava di prefigurarne i lineamenti generali: produzione cooperativa, gestione assembleare, partecipazione diretta nella gestione territoriale.
Gli stati nazionali sin dagli anni Novanta hanno dovuto ammettere che questi movimenti avevano saputo colmare in parte il deficit creato dalle loro politiche economiche. Le loro scuole hanno cominciato a poter conferire titoli di studio, le loro radio a ottenere licenza legale per la trasmissione, le loro cooperative a essere ammesse come fornitrici per lo stato. Le crisi economiche di fine secolo hanno messo di fronte ad alcuni di essi la possibilità di creare coalizioni e piattaforme in grado di cavalcare l’onda di indignazione e sfiducia nel sistema liberale e proporsi come alternative di governo. Questo è stato un passaggio chiave, che alcuni movimenti, più legati ai dibattiti della militanza urbana e della classe media, hanno saputo accettare molto velocemente. Altri invece hanno rifiutato qualsiasi coinvolgimento con le istituzioni, considerate l’antitesi della prefigurazione di una società nuova. Anche perché, seguendo la classica tradizione latinoamericana, il blocco storico di conquista del potere statale da parte del popolo conta anche di una buona fetta della «burguesía nacional» e l’immancabile sostegno dei settori redenti della fetida politica tradizionale.
Il modello latinoamericano
Vari i fattori che hanno permesso il mantenimento per più di un decennio di governi frutto dell’alleanza tra movimenti sociali, partiti di sinistra, chiese di svariata indole, settori politici tradizionali e gruppi economici. In primo luogo il parziale disinteresse di Washington nei confronti del «giardino di casa» dopo la sconfitta definitiva del piano per l’Area di Libero Scambio tra le Americhe (Alca) nel 2005. Il pantano in Iraq e in Afghanistan e la crisi finanziaria del 2008 hanno allentato l’ingerenza delle amministrazioni Bush e Obama in un territorio che appariva almeno temporalmente ostile. Ma è stato soprattutto l’aumento esponenziale dei prezzi delle materie prime a dare l’ossigeno necessario a estendere la vita del decennio progressista. Tra il 2005 e il 2011 il prezzo internazionale di prodotti primari, che rappresentano i due terzi delle esportazioni della regione verso il resto del mondo, è aumentato dell’82%. Solo nel 2016 è tornato ai valori del 2005 e da allora continua a scendere.
Nei primi anni del 2000, gli stati latinoamericani si trovavano quindi a un passo dall’uscita dalle crisi liberiste, con una certa libertà di movimento rispetto ad anni precedenti, una bonanza economica inaspettata, e una crescita generalizzata dell’agibilità politica di movimenti e partiti alternativi a quelli tradizionali, anche se in alleanza a essi. Le ricette seguite dai governi di Chávez (1998-2013) in Venezuela, i Kirchner (2003-2015) in Argentina, Lula e Rousseff (2003-2016) in Brasile, Tabaré Vázquez e Mujica (dal 2005) in Uruguay, Morales (dal 2006) in Bolivia, Correa (2007-2017) in Ecuador, Ortega (dal 2007) in Nicaragua, Lugo (2008-2012) in Paraguay, Funes e Sanchez Cerén (2009-2019) in Salvador, sono molto simili. Maggior centralità dello stato nella distribuzione delle risorse, sussidi e agevolazioni per stimolare il consumo, fissazione di un salario minimo e ripristino delle negoziazioni collettive nazionali, misure di protezione alla debolissima industria locale, aumento della pressione fiscale ai settori più abbienti. Alcuni si sono spinti a intaccare veri e propri capisaldi della dottrina liberista imperante, come con la nazionalizzazione degli idrocarburi in Venezuela e Bolivia, la statizzazione delle imprese di servizi argentine privatizzate durante gli anni Novanta, o la sottomissione delle politiche monetarie delle banche centrali alla volontà dell’esecutivo. In Bolivia, Ecuador e Venezuela, dove i processi di riorganizzazione dello stato hanno incluso lunghe e difficili riforme costituzionali, i cambiamenti sono stati chiaramente più profondi. E i risultati economici hanno velocemente accresciuto la popolarità dei leader latinoamericani. Nel periodo compreso tra il 2002 e il 2012 i paesi della regione hanno vissuto una crescita economica media del 6%; la povertà è passata dal 44% del 1999 al 28% del 2014.
Anche alcuni settori dell’establishment videro di buon occhio la svolta progressista della regione, intesa come una politica anticiclica temporanea. Le alleanze – anche se volatili – con questi strati del potere economico e della politica tradizionale hanno in molti casi permesso di allungare la durata al potere di governi spesso indeboliti dal cambiamento delle condizioni macroeconomiche. I movimenti della geopolitica sono stati un altro importantissimo sostegno: la riduzione del peso degli Usa nella regione ha favorito il massiccio ingresso di capitali cinesi e interessi russi. L’America Latina si è trasformata nella seconda regione di importanza per gli investimenti della Cina nel mondo dopo l’Asia Centrale. In alcuni casi a un alto costo, come testimoniano i 40 miliardi di dollari impantanati nella crisi venezuelana.
La crisi
Eppure, il modello di inclusione e maggior partecipazione democratica cominciava a scricchiolare proprio nell’area di maggior successo apparente, quello della gestione economica. L’andamento dei mercati a livello globale e l’interesse cinese avevano favorito un processo inverso a quello sostenuto ideologicamente dalle sinistre latinoamericane. Le esportazioni del settore primario erano aumentate, e gli investimenti industriali inalterati, quando non diminuiti. L’accelerata crescita dell’accumulazione via esportazioni aveva favorito l’espansione della frontiera agricola e mineraria con conseguenze atroci: disboscamento, diminuzione delle terre dedicate al pascolo, monocolture estensive di soia, mega miniere a cielo aperto, abuso di Ogm, cianuro e pesticidi. Coi conseguenti conflitti aperti con le comunità locali e i propri movimenti di base.
Anche gli investimenti in tecnologia e sviluppo hanno mantenuto un livello molto basso: in media ammontavano allo 0,7% del Pil, la metà di quelli di un paese medio in via di sviluppo che voglia diversificare la propria matrice produttiva. Con l’arrivo – ritardato di un paio d’anni – degli effetti della crisi globale del 2008, anche le misure di redistribuzione hanno mostrato i loro limiti: se non accompagnate da riforme strutturali dei sistemi fiscali latinoamericani, profondamente regressivi, dimostrano serie difficoltà nel combattere la disuguaglianza, poco diminuita durante il «decennio conquistato». Le misure intraprese per combattere la recessione in alcuni paesi come Brasile o Argentina portarono a forti scontri dentro al blocco di governo. Gli aumenti nelle imposte e le restrizioni finanziarie colpirono soprattutto le classi medie e molto superficialmente i grandi capitali. Tra i più favoriti quelli della finanza e dell’agrobuisness. I media, la cui proprietà in America Latina è particolarmente concentrata e storicamente legata ai principali poteri economici, guidarono la polemica «anti-populista», promuovendo il filone della politica locale che poneva l’accento su certe tendenze al nepotismo, clientelismo e corruzione dei partiti di governo. Lo stesso canovaccio fu messo in scena in tutti i paesi del continente, debilitando la capacità di risposta di dirigenti e funzionari, e provocando in molti casi grandi spaccature nel seno di società intere.
In Argentina venne battezzata «grieta», crepa. Un termine squisitamente giornalistico che vorrebbe descrivere il clima politico stabilitosi verso la fine della seconda presidenza di Cristina Kirchner: o si è a favore o contro. Molto simile era la situazione brasiliana, o quella venezuelana. È da lì che sono sorti i Macri, i Bolsonaro, i Capriles o i Guaidó, trasformati da poco probabili dirigenti di destra, ad affermati presidenti «post-populisti», grazie alla cantilena anti-corruzione ripetuta non solo in America Latina durante l’ultimo decennio, ma senza un vero e proprio programma, al di là delle ricette classiche del liberismo.
Quello di Mauricio Macri in Argentina è diventato una sorta di modello per il resto delle destre latinoamericane di uscita dal sistema creato dalla sinistra. Per l’attuale presidente-candidato, si attuò una normalizzazione dello stato: licenziamento di 30.000 impiegati pubblici, considerati esuberi frutto del clientelismo nell’amministrazione pubblica; rottura dei legami con le organizzazioni sociali, sostituite dove possibile da Ong e preferibilmente straniere; eliminazione immediata di ogni controllo statale nel mercato di valute; eliminazione dei sussidi statali ai servizi energetici. Misure di shock che dovevano essere accompagnate da ingenti investimenti internazionali, attratti dalla prevedibilità del suo governo e la nuova politica «market friendly». Il piano però non è riuscito, e il deficit creato dalla fenomenale contrazione economica è stato salvato temporalmente contraendo debiti. Il governo ha chiesto un pacchetto di aiuti al Fondo Monetario Internazionale di 57 miliardi di dollari, il più grande mai elargito dal Fmi ed equivalente al 12% del Pil argentino. Il risultato: povertà sopra il 30%, inflazione al 55% (la terza più alta del mondo), un debito estero ormai impagabile – al di sopra del 90% del Pil –, disoccupazione oltre il 10%, svalutazione (la moneta nazionale, il Peso, ha perso il 122% del suo valore rispetto al dollaro tra il 2016 e il 2018), contrazione del Pil (-2,5% nel 2018 e -1,5% prevista per il 2019 secondo Moody’s, -1,1% secondo il Fmi) e l’attività industriale crolla a un ritmo del 5-8% mensile. Anche l’attesissima fiducia dei mercati internazionali sembra essersi dissipata. Bloomberg ha di recente indicato che l’economia argentina è la più vulnerabile al mondo.
In Brasile, l’opposizione al modello progressista ha spianato la strada a gruppi reazionari ancor peggiori. L’apertura della scatola di Pandora della corruzione brasiliana, che coinvolge tutti i partiti ma castiga con maggior durezza la sinistra, ha sdoganato militaristi, evangelisti e fascisti di ogni sorta, vero e proprio spauracchio anche per il progressismo liberale del resto del continente. Che in alcuni casi ha le spalle al muro: o populismo, o Fmi, o Bolsonaro. La nuova grieta.
Operazione ritorno
Le campagne elettorali in Argentina, Bolivia e Uruguay oggi vertono proprio sulla dicotomia passato/presente. Per Macri, l’Argentina «non vuole tornare al passato»; per i peronisti, l’Argentina vuole tornare ai tempi in cui la carne si poteva comprare. E per riuscirci la leader indiscutibile del movimento progressista, l’ex presidente Cristina Kirchner, s’è fatta un po’ da parte cedendo il posto di candidato presidenziale al suo ex collaboratore e ministro Alberto Fernández, più moderato e aperto al dialogo. Evo Morales si presenta come l’unica garanzia di continuità del «miracolo boliviano» – il Pil del paese andino è passato dagli 11 miliardi di dollari del 2006 a più di 40 nel 2018 – anche quando per candidarsi per la quarta volta consecutiva abbia dovuto – nuovamente – forzare certe interpretazioni costituzionali e scavalcare un referendum del 2018 che glielo impediva. Il suo governo ha ridotto la povertà alla metà nei primi dieci anni, e il timore di un ritorno alle condizioni degli anni Novanta, per di più sempre più visibili nelle strade di Buenos Aires, è oggi uno dei suoi principali capitali politici.
In Uruguay, il forzato rinnovamento politico dovuto all’età dei tre storici dirigenti del Frente Amplio (l’attuale presidente Tabaré Vázquez, il ministro dell’economia Danilo Sartori e l’ex presidente Pepe Mujica) non ha modificato a fondo la difesa del modello, ma ha introdotto un elemento che finora è risultato ostico alle sinistre del sub-continente: le successioni dei leader (Lenín al posto di Correa, Maduro al posto di Chávez per esempio), sono state piuttosto traumatiche senza la presenza quasi permanente del capo carismatico. Ora ci prova l’ex sindaco di Montevideo, Daniel Martinez, candidato a presidente del Frente Amplio.
Un primo banco di prova dell’operazione ritorno per la sinistra latinoamericana si è vissuto in Brasile nel 2018. I coordinamenti di protesta sorti contro le grandi opere del mondiale di calcio del 2014 e le olimpiadi di Rio 2016, e quelli nati per resistere alle prime riforme di austerity formulate dal secondo governo Rousseff, sono serviti da trampolino per un movimento di massa, confluito poi nella campagna elettorale di Lula da Silva alle elezioni di ottobre 2018. È stato il potere giudiziario a stroncare le possibilità di rielezione dell’ex presidente, favorito secondo tutti i sondaggi e condannato sei mesi prima delle elezioni a 12 anni di prigione per corruzione. Il giudice che ha emesso la polemica sentenza, Sergio Moro, è stato poi nominato ministro di giustizia di Bolsonaro, in un caso considerato papale esempio di Lawfare: l’incursione della magistratura nelle vicende politiche di un paese per impedire cambiamenti negli assetti del potere reale. La maggior parte dei presidenti progressisti in America Latina sono stati indagati dalla giustizia quando in condizioni di ricandidarsi.
Pur cercando di mantenere l’essenza – più sentimentale e retorica che politica – Fernandez, Morales e Martinez affrontano le elezioni di ottobre in un contesto molto diverso a quello che ha visto nascere i movimenti politici che rappresentano. Quello macro, dettato dalla presenza sempre più tangibile di Usa e Cina negli affari latinoamericani; ma anche quello locale, dovuto al logoramento dell’immagine politica dei settori di sinistra, a causa delle grane giudiziarie, l’uso strumentale che i conservatori fanno della crisi in Venezuela presentata come sbocco inevitabile di una agenda alternativa alla loro, o le non sempre azzeccate strategie elettorali. Di fronte a questi deficit, la principale strategia è stata quella di ampliare la base d’appoggio a settori centristi, o addirittura vecchi avversari – come i peronisti liberali di Sergio Massa in Argentina o i Colorati progressisti di Fernando Amado in Uruguay. La nenia sull’eroismo popolare e il dovere storico di unità contro la destra odiosa ha aiutato a far digerire il rospo alla maggior parte dei movimenti sociali e alla sinistra non trozkista. A favore, il disastroso esempio del governo Macri in Argentina e i passi falsi già commessi da Bolsonaro dopo appena sei mesi di governo in Brasile, caricatura perfetta dei danni che le oligarchie locali fanno quando assumono il potere. Insomma, in fin dei conti, in America Latina si ritorna allo scontro ormai classico di narrative, che rivela la mancanza di un progetto nazionale di fondo e condanna pesantemente ogni forma di ignavia. I movimenti sociali, quelli dell’economia popolare, e le esperienze più interessanti di sinistra sociale hanno già preso – anche se a volte a malincuore – la loro posizione. Ora tocca alle urne.
*Federico Larsen, giornalista argentino vissuto per 16 anni in Italia, è redattore di giornali, riviste e radio in lingua spagnola e italiana. È membro dell’Istituto di Relazioni Internazionali dell’Università di La Plata.
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