
La Superlega e l’avidità capitalista
La Superlega non è un'anomalia ma la continuazione del percorso che il calcio ha intrapreso ormai da molto tempo. L'alternativa verrà dal basso
Ancora una volta, ha preso quota la prospettiva di una Superlega Europea (Esl). La proposta – una competizione continentale in cui quindici dei club d’élite sono qualificati di diritto – è stata accolta con grande sgomento da chi ama il calcio.
Nonostante un anno in cui è stato evidente quanto siano vitali i tifosi per lo «spettacolo» del calcio, ancora una volta sono loro quelli di cui ci si preoccupa meno. Se i piani andranno avanti, il futuro del calcio sarà plasmato dalla televisione e dalla pubblicità: un’industria dell’intrattenimento che i migliori club stimano fornirà loro 300 milioni di sterline all’anno, superando di gran lunga i rispettivi ricavi dai campionati nazionali e dalla Champions League.
È importante sottolineare che la Superlega non è un’anomalia. Si tratta, piuttosto, della continuazione del percorso che il calcio ha intrapreso ormai da molto tempo. Alcuni indicano la creazione della stessa Premier League negli anni Novanta, con l’incentivo dei soldi della televisione di Sky, come punto di origine. Ma stavolta c’è qualcosa di qualitativamente diverso nei club stessi che controllano il gioco – perlomeno nell’era della Premier League, anche giganti del calcio inglese come Newcastle, Leeds, Aston Villa e persino il Manchester City, Founding Club della Superlega, sono retrocessi.
Solo pochi mesi fa i club d’élite della Premier League hanno cercato di centralizzare il controllo della struttura di voto della Lega attraverso le proposte del Project Big Picture. Avrebbero riservato i diritti di voto ai nove club più longevi, tra di essi tutti i big six che ora hanno in programma di passare alla Superlega europea. Il Project Big Picture era un tentativo di forzare il resto dei club in Inghilterra, in particolare quelli dei campionati inferiori che lottano finanziariamente contro gli effetti della pandemia Covid-19, ad accettare un accordo che ridurrebbe il loro potere decisionale, addolcito con la promessa di ulteriori finanziamenti disperatamente necessari.
Alla fine, non è andato in porto. I membri della Premier League hanno detto molti no, e anche i due club che avevano proposto il Project Big Picture, Liverpool e Manchester United, hanno aderito all’unanime rifiuto. Ma ora sappiamo che si trattava solo della mossa iniziale. All’epoca si pensava che il Project Big Picture fosse stato lanciato in preparazione di un nuovo accordo tra la European Club Association (Eca) e l’Unione delle associazioni calcistiche europee (Uefa) sulla formula della Champions League. In realtà è stato un precursore dei piani per una Superlega europea.
Allo stesso modo l’Uefa ha cercato di piegarsi ai grandi club con una riforma della Champions League. Dopo molti mesi di trattativa, le sue proposte per aumentare il numero di partite giocate e le squadre qualificate dovevano essere messe ai voti ieri. Molti di coloro che hanno ora annunciato la Superlega europea e si sono dimessi dalle strutture Uefa facevano parte dei negoziati. La proposta di riforma è una concessione a questi padroni: il numero di partite garantite giocate nelle fasi a gironi passava da sei a dieci e le partite complessive giocate da 125 a 225. Più calcio europeo tra i big significava più introiti pubblicitari. L’Uefa ha anche promesso il coefficiente storico, ossia un posto nella competizione in base alle prestazioni passate per ogni super club che non si fosse qualificato attraverso il campionato nazionale: era l’inizio dell’attacco alla competizione.
Ma non era abbastanza. Andrea Agnelli – presidente della Juventus – è stato la figura di riferimento per le proposte dell’Eca e il loro rappresentante nel comitato esecutivo Uefa. Ma si è dimesso per difendere la Superlega. La sua squadra, ovviamente, ha anche firmato la dichiarazione di intenti, insieme alle connazionali Milan e Inter, alle già citate big six inglesi e alle tre grandi spagnole: Barcellona, Real e Atlético Madrid. Questi aspiranti marchi commerciali ora sono le squadre più impopolari nel calcio mondiale.
Ma dopo tanti anni in cui il gioco sembrava perdere la sua anima a vantaggio del mercato, perché i piani della Superlega europea hanno colpito così nel segno? In parte, c’è l’assenza di retrocessione, ma qui c’è qualcosa di più profondo. Dopotutto, la struttura finanziaria del gioco moderno fa sì che sempre più spesso siano le stesse squadre a contendersi la vittoria anno dopo anno. Eppure la Superlega europea è diventata il simbolo di un malessere molto più profondo: come in molti altri settori della nostra economia e società, è una storia di grandi che dominano e centralizzano i poteri a spese di tutti gli altri.
La Superlega diventa un affare chiuso a poche squadre d’élite che giocano sempre, rimuovendo anche la misera quantità di supporto per il calcio delle serie inferiori e strappando i club dalle loro comunità per cementarli come marchi globali che potrebbero, in realtà, giocare ovunque.
Come viene affrontato un problema come questo? La protesta dei tifosi in tempi normali sarebbe il punto di riferimento: gli ultras tedeschi hanno vinto battaglie contro problemi che continuano ad affliggere gli inglesi, come il calcio del lunedì sera per motivi televisivi. I boicottaggi regolari hanno avuto un impatto sulle casse dei club e sullo «spettacolo» per i telespettatori – senza nessuno dei tifosi e del tifo che attira l’attenzione e rende la Bundesliga un oggetto televisivo attraente. I tifosi inglesi si sono organizzati in modo simile contro l’aumento dei prezzi dei biglietti, ma senza una campagna nazionale i risultati sono stati limitati. Indipendentemente da ciò, è probabile che tali proteste saranno minime fino a quando il Covid-19 non si dissolverà, cosa che i superclub hanno senza dubbio preso in considerazione.
Ci sono anche proposte più radicali. Per anni, i puristi del calcio hanno sostenuto il modello tedesco dell’azionariato popolare come alternativa alla traiettoria aziendale del calcio senz’anima. In questo caso, i primi segnali sembrano dare loro ragione: nessun club della Bundesliga ha ancora aderito ai piani della Superlega, con Bayern Monaco e Borussia Dortmund che hanno entrambe rilasciato dichiarazioni contrarie forti. Resta da vedere se la prospettiva sarà tanto redditizia da essere ignorata a lungo termine. Il modello di proprietà dei tifosi del Barcellona non ha impedito alla squadra di entrare nella competizione, ma si tratta di una struttura molto più limitata, che consente solo di votare per il presidente. Con il nuovo presidente del Barcellona eletto, i «socios» del club potrebbero trovarsi esclusi da questa decisione.
L’idea dell’azionariato popolare è arrivata al punto decisivo. I recenti sforzi dei tifosi del Newcastle United per creare un fondo che possa offrire un’alternativa all’acquisizione saudita dovrebbero essere accolti con favore da tutti coloro che si oppongono alla Superlega europea. È assolutamente chiaro che se il calcio fosse democratizzato, se ci fosse una reale proprietà dei tifosi che desse voce significativa alle scelte future, la Superlega sarebbe morta ancora prima di nascere. L’unica alternativa a un gioco dominato da marchi aziendali con poca lealtà verso le comunità della classe operaia che li ha costruiti è una riaffermazione di quei valori fondamentali – e ciò può accadere solo se il potere viene tolto dalle mani di coloro che vedono il calcio come poco più che una scusa per trarre profitto.
Nel frattempo, la stessa Superlega europea potrebbe essere bloccata dagli interessi esistenti. La Fifa e l’Uefa hanno dichiarato che qualsiasi giocatore che milita in un campionato scissionista perderà il diritto di rappresentare i propri paesi a livello internazionale, seguendo una linea simile ai tabelloni da cricket negli anni Settanta e Ottanta in risposta alle prime Kerry Packer’s World Series e poi ai tour «ribelli» nell’apartheid del Sud Africa durante il boicottaggio sportivo. I giocatori potrebbero dover scegliere tra le ricompense finanziarie che questa competizione promette e la gloria che un campionato europeo o una coppa del mondo potrebbero fornire.
I campionati nazionali hanno minacciato di escludere le grandi squadre dalle loro competizioni: una Premier League senza le sei grandi non pare plausibile, ma questi sono tempi incerti. È interessante notare che i governi europei e la stessa Unione europea si sono opposti al progetto. In effetti, anche gli interessi commerciali sembrano essere poco convinti: domenica Sky Sports ha offerto la sua piattaforma a Gary Neville per una vistosa denuncia. Molti sponsor devono ancora decidere se sostenere il progetto, anche se ora è stato confermato che la banca di investimenti JP Morgan lo finanzierà con 6 miliardi di dollari all’anno.
Ma la risposta a questo problema non può essere quella di asserragliarsi in difesa del modello esistente. La realtà è che la proposta della Superlega europea è l’inevitabile esito di un percorso che il calcio sta percorrendo da tempo: un piccolo numero di club d’élite che si preoccupano più di vendere un prodotto di intrattenimento che riduce gli spazi contendibili per lo sport. Anche se la Superlega europea non diverrà realtà e fosse solo una minaccia o merce di scambio, questi club continueranno a perseguire la loro agenda all’interno del gioco così com’è oggi. Ieri è stato un momento decisivo. Devono avvenire cambiamenti molto più radicali.
Più stretta è la morsa del capitalismo monopolistico esercitata dai club più grandi, più diventa utopistico parlare di ritorno del calcio alla classe operaia. Ma i tifosi pensano al calcio come se fosse il loro gioco, e lo vedono in mano a un’élite danarosa, con grandi sponsor ed emittenti che stanno sul trespolo – e hanno ragione. Ora è necessaria una riforma radicale, che sarà attuata solo da movimenti dal basso.
* Ben Joyce è un operaio delle ferrovie e rappresentante di Rmt sul posto di lavoro. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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