L’Algeria dopo Bouteflika
La ribellione contro il presidente, in carica dal 1999, si è trasformata nella richiesta di un cambiamento sociale e politico profondo. Ma le potenti élite del paese stanno tentando di mantenere il controllo
L’ondata di ribellione popolare che si è manifestata il primo marzo, con proteste di milioni di persone in tutto il paese, ha indubbiamente cambiato la situazione politica dell’Algeria. Ma se è vero che c’è un mutamento a livello di coscienza, il rapporto di forza in campo è ancora fermo.
La richiesta all’origine di questa marea umana è stata l’opposizione alla campagna per un quinto mandato dell’attuale Presidente Abdelaziz Bouteflika, specialmente alla luce della sua evidente cattiva salute. Lunedì 16 marzo Bouteflika ha dichiarato che non si presenterà al voto del 18 aprile, e ha inoltre rinviato le annunciate elezioni presidenziali.
Le proteste sono iniziate da un’opposizione morale al regime che si è a lungo nascosto dietro l’età avanzata e la malattia di Bouteflika. Usando lo stesso registro morale, i manifestanti hanno espresso il loro rifiuto di un regime «corrotto e ladro», chiedendone la destituzione immediata.
Tuttavia, la forza di questo movimento in tutto il paese ha già portato la rivolta a essere qualcosa di più di una semplice opposizione alla candidatura di Bouteflika per un quinto mandato. La ribellione contro il presidente, in carica dal 1999, si è trasformata nella richiesta di un cambiamento sociale e politico profondo.
Un presidente malato
Il movimento algerino non è certo sbucato dal nulla, frutto della semplice spontaneità: durante i due decenni di dominio di Bouteflika ci sono state proteste culturali, politiche e sociali. L’annuncio del presidente malato di presentarsi nuovamente alle elezioni presidenziali del prossimo aprile ha però dato il via a una rivolta, che è cresciuta esponenzialmente fino al 3 marzo, giorno in cui è stata chiusa la lista dei candidati alle elezioni.
Ovviamente, la direzione che prenderanno gli eventi nel prossimo futuro dipenderà dal risultato delle elezioni. Ma, in buona sostanza, lo sviluppo del movimento sarà deciso dal livello di organizzazione interna, dal tipo di leadership che ne emergerà, e dal peso che avranno i vari attori politici e sociali coinvolti. Tutto ciò sarà inoltre determinato dai dibattiti sia sugli slogan che sulle richieste immediate da fare al regime – uno scontro che ha già cominciato a emergere.
A livello organizzativo, il movimento ha preso delle forme simili a quelle dei gilets jaunes in Francia. A seguito di alcuni appelli anonimi apparsi sui social, il 22 febbraio scorso sono iniziate le proteste. Nelle settimane seguenti si sono estese agli studenti, a cui ha fatto seguito la grossa mobilitazione del primo marzo che ha coinvolto più di un milione di persone. Il movimento non ha alcuna leadership. Rifiuta ogni forma di ingerenza da parte della politica ufficiale, e tuttavia è perfettamente organizzato e disciplinato.
Da un punto di vista sociologico, è un movimento popolare, nel senso che è composto da persone di ogni età e di ogni estrazione sociale. Ciò nonostante è importante segnalare la grande presenza di giovani, specialmente giovani della working class – soprattutto studenti delle scuole secondarie, che hanno dato il ritmo alle manifestazioni intonando i cori delle curve da stadio. È inoltre presente quella che potremmo definire “classe media”, all’interno della quale emerge una forte presenza femminile.
Anche la presenza di lavoratori industriali è molto evidente, ma non come parte distinta delle proteste. Sono più un elemento sociologico che una forza sociale autonoma. Gli slogan socioeconomici sono, per il momento, assenti; la risposta allo sciopero generale del primo marzo indetto da alcuni è stata tiepida – ma una cinque giorni di sciopero generale è iniziata lunedì 11 marzo. In questo melting-pot sociologico finora c’è stata coesione e armonia tra i manifestanti – per dirla con le loro parole, «siamo tutti contro un governo immorale, ladro e corrotto».
La crisi di regime
A livello formale, l’attuale regime è invischiato in una crisi politica. Il regime parlamentare dominante è composto da una coalizione di quattro partiti: i due partiti più grandi, e cioè il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) e il Raggruppamento Nazionale Democratico (Dnr), e due gruppi più piccoli, il Movimento Popolare Algerino (Mpa) e il Raggruppamento per la Speranza dell’Algeria (Taj). Questa coalizione è largamente riconosciuta come legata all’esercito, alla polizia, al sindacato più grande del paese – l’Unione Generale dei Lavoratori Algerini (Ugtt) – e ai capi della confederazione Fce.
La crisi, latente per diverso tempo, si è manifestata con attacchi e regolamenti di conti all’interno delle istituzioni stesse: la sostituzione potenzialmente incostituzionale del presidente dell’Assemblea Popolare Nazionale (la camera bassa) lo scorso ottobre; il “Cocainegate”, che ha portato alla scoperta di settecento chilogrammi di coca nel maggio 2018, e il conseguente licenziamento da parte di Bouteflika del «funzionario della sicurezza di rango più alto del paese», il Generale Abdelghani Hamel; e le lotte intestine sia nell’esercito che nella polizia.
L’opposizione parlamentare alla coalizione di governo è in sé stessa liberale, e in alcuni frangenti addirittura ultra-liberale. Quest’ultima fazione non ha nessuna espressione parlamentare forte, ma include oligarchi come il milionario Issad Rebrab, diverse società di comunicazione, alcuni partiti di poco peso, e uno degli attuali candidati presidenziali, il generale in ritiro Ali Ghediri.
Questa contraddizione politica ha assunto la forma di una discussione sulla riforma costituzionale che seguirà a Bouteflika. La coalizione in carica ha proposto un’«assemblea inclusiva» da farsi dopo le elezioni del 18 aprile; ma, con la rielezione di Bouteflika, avrebbe il controllo di questa “riforma”. Consapevole della trappola, l’opposizione liberale, benché divisa, ha chiesto di andare a elezioni senza Bouteflika, nella convinzione che questa crisi indebolisca la coalizione presidenziale – da qui il dibattito sull’opportunità o meno di candidarsi per un “quinto mandato”.
Nuove forze
La crisi a lungo latente è finalmente giunta allo scoperto. Ciò permette l’intervento di un terzo attore nell’equazione: le classi popolari.
Metterla nei termini di un’opposizione binaria tra rivoluzione e riformismo significa seguire un approccio che poggia su una visione statica, quasi scolastica, della storia. Le rotture politiche non possono essere decretate né risolte a posteriori. Non c’è nessun “Grande Evento”. Per il momento, la crisi si sta esprimendo con richieste immediate collegate alle prossime elezioni presidenziali. Il risultato sarà sicuramente frutto delle lotte, con tutta la sua buona fetta di possibilità e contingenze. E i possibili risultati ruotano attorno a tre ipotesi principali:
1. La coalizione presidenziale opta per un confronto e mantiene Bouteflika come suo candidato. Ciò significherebbe annullare le elezioni; del resto come potrebbero svolgersi, dato il nuovo rapporto di forze imposto dal movimento? Questo risultato prevederebbe l’intervento dell’esercito, in modo da stabilire uno stato d’eccezione che organizzi la “transizione”. Una soluzione del genere potrebbe facilmente guadagnare un ampio consenso, anche nelle masse, visto l’attuale livello di coscienza e organizzazione.
2. Le dimissioni (o il ritiro) di Bouteflika prima delle elezioni. Creerebbe un “vuoto giuridico”, e sarebbe un buon modo per cancellare le elezioni. Le elezioni potrebbero anche essere rimandate senza necessariamente fa intervenire l’esercito.
3. Terzo, c’è la possibilità che ci si muova in direzione di una transizione negoziata attraverso un’assemblea nazionale sulla riforma costituzionale, prima di indire nuove elezioni.
Il tempo sta scadendo. Le strade piene fanno aumentare la pressione; in queste condizioni, la storia accelera. Ora come ora, il problema è fermo a una lotta intestina tra le varie richieste dei manifestanti. Lo slogan «contro il quinto mandato», ad esempio, ambisce a indebolire la coalizione presidenziale, e anzi la vuole cancellare del tutto. Lo slogan «riformiamo la costituzione» (prima o dopo le elezioni) mira a organizzare una transizione dolce sotto l’attuale leadership di regime. Come la chiamata per un’«assemblea costituente», questo slogan ha la funzione di tenere una breccia aperta e prevenire un consenso totale tra i liberali dal quale le voci discordanti sarebbero escluse.
Ci sono state tuttavia alcune esitazioni tra le forze politiche che hanno tradizionalmente richiesto l’Assemblea Costituente. Se tali forze hanno a lungo inflazionato questo slogan lodevole – proponendolo quando le opportunità erano scarse – oggi sembrano averlo abbandonato o, al limite, sembrano restare silenti, proprio ora che le opportunità sono molte. Alcuni gruppi liberali si sono affrettati a sostenere una posizione che avrebbe «unito tutti gli algerini», mentre altri hanno garantito un supporto critico a Bouteflika. Entrambi sono ora chiusi in questi atteggiamenti, mentre un nuovo consenso si sta formando senza di loro.
I gruppi politici che hanno deciso di non partecipare alle elezioni – perché «non ci sono le condizioni per partecipare a un processo trasparente» – sono stati messi da parte. Ma gli appelli per i Comitati Popolari in vista di una futura Assemblea Costituente nei quartieri working-class, nelle municipalità e nelle università, rimangono intrappolati in un astratto formalismo. Mentre il successo di una sorta di Assemblea Costituente ha necessariamente bisogno dell’esistenza di Comitati Popolari, e del contro-potere che ne deriva, è anche necessario assicurarne il carattere democratico e progressista, in modo da evitare esiti come quello dell’Iran di Khomeini.
Quando la storia accelera, le masse costruiscono le loro strutture di rappresentanza andando avanti seguendo il loro ritmo interno. La organizzazioni politiche possono accelerare il processo alzando la voce. Ma quelli che invocano le dimissioni di Bouteflika stanno in realtà puntando a rinviare le elezioni, cosa che farebbe soltanto un favore al regime.
Né la malattia del principale candidato del regime né il riversarsi delle masse nelle strade erano stati previsti. Non fanno parte di qualche calendario storico – e, per la verità, è stato così per tutti i processi rivoluzionari del ventesimo secolo! Ma se bisogna sviluppare una dinamica democratica significativa, è necessario cogliere le opportunità per tenere aperta la breccia, prima che i neoliberali riescano a chiuderla.
Il piano B
A un altro livello di analisi, emerge un candidato presidenziale in particolare: Ali Ghediri, un soldato in congedo, sembra essere un potenziale piano B. È sicuramente arrivato tardi sulla scena, ma la sua comparsa ci permette di individuare un pattern di sottofondo.
Ghediri sembra rappresentare una frazione dell’esercito che ha voglia di conflitto. È questa una rivolta da dietro le quinte, ma un dietro le quinte che è quasi una famiglia: più grande dell’entourage di Ben Ali (il precedente presidente della Tunisia), e persino del clan al-Assad (la famiglia regnante in Siria). È un gruppo burocratico-borghese con una grossa clientela. È più legato alla popolazione di quanto non lo sia la burocrazia egiziana, e meno elitista della famiglia reale marocchina, e pertanto difficile da controllare o manipolare.
Quali che siano i progetti, è stata aperta una breccia nel sistema di comando. Da ciò potrebbe trarne beneficio la fazione tatticamente più esperta, che sia all’interno della coalizione di governo o dell’opposizione liberale. Dovremmo prestare molta attenzione alle future mosse di Ghediri.
Per il momento, il regime non ha cercato un confronto diretto; potrebbe facilmente schierare la propria base, la sua clientela, nelle strade. Se non lo ha ancora fatto significa semplicemente che le trattative sono ancora in corso.
Ma il movimento stesso sta crescendo, ben oltre le aspettative iniziali di chi gli ha dato vita – sempre che siano davvero esistiti degli “iniziatori”, come sostengono quelli che pensano che i manifestanti siano orchestrati da una frazione de le pouvoir, il regime. E le manifestazioni fanno salire la pressione. L’intera battaglia è tra, da un lato, l’opzione “riformista” (e su chi dovrà gestire le riforme) e, dall’altro, la possibilità di un’Assemblea Costituente (con, ovviamente, la questione di chi la organizzerà).
Guardando a livello regionale e geopolitico, possiamo ascrivere questa rivolta al processo delle Primavere arabe iniziato in Tunisia? O dobbiamo leggere questo momento all’interno di una più ampia crisi del capitalismo?
Senza dubbio, la rivolta potrebbe innescare un’onda d’urto e investire i vicini diretti dell’Algeria: la Tunisia, dove la breccia aperta dalla rivoluzione del 2011 non si è ancora chiusa, e il Marocco, dove la rivolta del Rif ne ha aperto un’altra. Gli scenari in discussione oggi non appartengono soltanto al dietro le quinte del regime algerino. Per non parlare della crisi strutturale sociale ed economica i cui effetti reclamano una risposta.
Oggi in Algeria si è riscoperta la dignità. Gli algerini sentono la gioia di essere di nuovo in grado di pensare al futuro in modo non velleitario, e di preparare le lotte che verranno. Possiamo solo sperare che la nazione non sia nuovamente fatta sprofondare nell’abisso.
*Nadir Djermoune è un architetto e un urbanista, e insegna all’Università di Blida. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.
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