L’amore al tempo della Brexit
Il falso dilemma sull'Europa sta alimentando il caos inglese. Il problema non è l'exit ma il capitalismo, come ci ricorda il nuovo romanzo di Anthony Cartwright
LGuardo la Gran Bretagna da lontano, ormai. Non ci vado da anni, da quando facevo le pulizie in un centro commerciale di Bristol. Da lontano la trovo incastrata nella vicenda tossica della Brexit e non mi riconosco in nessuno dei due corni del dilemma. D’istinto dovrei stare dalla parte di chi abbatte le frontiere. Sono internazionalista, odio i confini nazionali e le retoriche patriottarde. Ma sappiamo tutti che l’europeismo del capitale non è l’internazionalismo socialista. Temo anche chi promette protezioni e tutele ma solo per un popolo eletto. Da un lato Britain first, dall’altro prima gli italiani. Logiche di rinazionalizzazione della cittadinanza, che minano la forza universalista degli ideali e delle prassi operaie di mutuo aiuto e solidarietà sociale. Muri che imprigionano, che escludono, che creano un “noi” fittizio che mette assieme sfruttati e sfruttatori, affinché lo sfruttamento venga perpetrato incessantemente.
Alla Gran Bretagna non farà bene né il Leave né il Remain. Non mi trovo tra Leave e Remain perché il nemico non è né l’Europa né lo straniero, ma il capitalismo. Balcanizzare il capitalismo non ne rimuoverà la logica maligna. Al tempo stesso, prostrarsi ai diktat neoliberisti di quest’Europa ci garantirà solo più sfruttamento. Sarei però molto interessato a vedere il Labour di Corbyn a Downing Street. Io ero in Inghilterra a lavorare quando stava al potere il New Labour di Blair, infettato dalle tossine di Margaret Thatcher. I Tory avevano conquistato con le retoriche neoliberiste l’avversario di sempre. We’re all middle class era il mantra di quell’Inghilterra del sud che si arricchiva con la finanza, lasciando al nord ruggine e rancore. Come uscire da questo doppio vincolo tra Leave or Remain? È un arrocco perpetuo senza via di fuga? Perché il problema non è should I stay or should I go. Il problema non è l’Europa. Il problema è il capitale.
Raccontare questo dilemma in forma narrativa è una sfida titanica per qualsiasi narratore. Ma di fronte a Il taglio di Anthony Cartwright (Roma, 66thand2nd, 2019) non si può che rimanere colpiti. Leggo Cartwright sempre con ammirazione e lo sento come una sorta di mio doppelgänger inglese: è nato come me nel 1973 in una famiglia working class, in una zona industrializzata in dismissione. Il risvolto di copertina dell’edizione italiana lo definisce come la coscienza critica della working class inglese. Di certo riesce come pochi a raccontare le midlands del paese, deindustrializzate, devastate dalle politiche neoliberiste, con le comunità operaie solidali di un tempo frantumate. Lo fa distruggendo gli stereotipi che demonizzano la working class e trasformano in chav, in coatti, i figli dell’epica working class di un tempo, condannati a lavori precari nei centri commerciali o a piani di sussistenza ricattatori.
Il taglio di Cartwright pone di fronte due personaggi estratti da due contesti sociali diversi. Non sono metafore del Leave o del Remain, sarebbe una lettura semplicistica, anche se uno voterà per andarsene e l’altra per restare.
Lui è Cairo, ex pugile, operaio del black country. Non lavora in fabbrica e non fa manutenzione industriale. Demolisce gli ultimi brandelli della gloriosa storia industriale del Regno Unito. Raccoglie macerie di fabbriche dismesse per imprenditori che guadagnano dal riciclo. Ha grossomodo la mia età, è un quarantacinquenne con la memoria del periodo dei fuochi, ossia degli anni in cui l’altoforno scaldava una comunità operaia. Quel fuoco non scalda più nessuno. L’altoforno è spento, come è spento l’altoforno di Piombino accanto al quale sono nato io.
Lei è Grace e incarna la nuova generazione, multietnica e cosmopolita, di lavoratori immateriali dei servizi. In parte vedo in lei qualcosa di me: lavora nel mondo della comunicazione, viaggia, tutto sommato si aspetta qualcosa dal domani.
La loro storia d’amore non finisce bene. Il lettore vorrebbe che Cairo e Grace si amassero, che si riconoscessero come sfruttati. Che la rabbia e il senso di giustizia di Cairo incontrassero la capacità di Grace di guardare al futuro con qualche progettualità.
Io d’istinto mi rivedo molto in Cairo. Io sarei potuto diventare Cairo, avevo tutto per essere come lui. E invece sono diventato come Grace, almeno in parte. Ho smesso da qualche anno di fare lavori manuali dequalificati. L’ultima volta che la parola “operaio” è apparsa in una busta paga intestata a me era il 2004. Una vita fa. Adesso lavoro nell’industria editoriale, cerco di guardare al futuro con un minimo di prospettive, viaggio (anche se solo per lavoro), non vivo più all’ombra delle cattedrali industriali in dismissione e delle statue ai calciatori operai d’un tempo (immagino che la statua di Dudley sia quella del leggendario Edwards Duncan, calciatore working class di un’epoca ormai scomparsa).
Quando penso alla storia di Cairo e Grace, penso a quanto sia diventata sterile la telenovela della Brexit. Bisognerebbe uscire da un dibattito avvitato sulla logica del Leave or Remain. E leggendo questo libro guai a riconoscere nei due personaggi l’incarnazione dei due corni del dilemma. Perché è quel dilemma e le forze che lo pongono a schiantare Cairo e Grace.
Usciamo dal libro di Cartwright. Mandiamo Grace e Cairo a camminare per le vie di una High Street inglese. Come ai tempi dei Capuleti e dei Montecchi, contro il loro amore complottano Junker e Farage. Quel sentimento impossibile potrebbe mettere a fuoco l’Europa più di ogni retorica euroscettica e sovranista. Il sovranismo è il veleno che può intossicare Cairo, e lo stesso può fare il liberalismo tecnocratico di Bruxelles con Grace. Come potrà l’amore di Cairo e Grace diventare coscienza dello sfruttamento, come saprà farsi classe, come potrà sopravvivere tra la morsa del Leave e del Remain?
Nella nuova working class di oggi c’è qualcosa di Cairo e di Grace. C’è la meccanica e l’intelligenza, ma soprattutto c’è l’oppressione, c’è lo sfruttamento che consuma entrambe le loro vite. Ma attenzione: per troppo tempo i liberal di sinistra stanno chiedendo a Cairo di andare verso la gente di Grace. Verso quei privilegiati dalle buone maniere che mangiano pane al kamut e dispensano buoni consigli, facendo buone vite. Grace da sola, nonostante la sua vita problematica, è ancora una privilegiata. Grace senza Cairo tornerà nelle Midlands a guardare con condiscendenza quegli operai simili a formiche a cui un bambino cattivo, come un demiurgo feroce manovrato da Margaret Thatcher, ha distrutto con la suola della scarpa il formicaio. Perché si realizzi una nuova coscienza di classe, Grace deve camminare verso Cairo più di quanto lui debba camminare verso di lei. Su di lui gravano generazioni di oppressione e rabbia, di sfruttamento e fatica. Cairo è pieno di ferite e, come dice il poeta, ride delle cicatrici chi non è mai stato ferito. Anche Grace ha alle spalle storie di dure sofferenze ma oggi non cammina controvento nella tempesta del capitale. Grace deve contemplare le cicatrici sul corpo di Cairo: non sono i segni dei combattimenti del passato. Sono le ferite di classe che nascono dallo sguardo pieno di superiorità e condiscendenza dei quattrinai. Dei gentleman che camminano col naso all’insù, che bevono vino francese, studiano in prestigiose università e si fanno le vacanze nel Mediterraneo, mentre Cairo rimbalza tra il pub, qualche lavoraccio e i pezzi di una famiglia che lui tenta di tenere assieme.
Come andrà a finire con la Brexit non lo so. Probabilmente male in ogni caso per la classe lavoratrice, a meno che il governo non cada e il Labour compia scelte clamorose capaci di mettere in discussione decenni di politiche favorevoli ai quattrinai. Come va a finire tra Grace e Cairo non ve lo dico. Dovete arrivare in fondo al romanzo. Allora vi tornerà in mente un autore inglese vecchio di secoli che ancora fa battere il cuore degli innamorati in ogni angolo del pianeta. L’amore tra una ragazza transfuga di classe e un eroe working class sul viale della mezza età di solito non finisce bene. Finito il libro di Cartwright, presto ce li dimenticheremo. Forse rimarrà solo una pace che rattrista. Il business as usual neoliberista. A qualcuno sarà perdonato, ad altri punito. E il capitale andrà avanti con la sua macina che strangola vite e sogni. Eppure la morte di Giulietta non impedisce che le persone si innamorino ogni giorno. Anzi, quella storia ispira ancora sentimenti d’amore. Per questo dobbiamo immaginare Cairo felice. Dobbiamo immaginare Cairo e Grace che camminano assieme, mano nella mano, e assieme lottano per il pane e le rose. Perché saranno quelli come loro a partorire la working class del futuro. Che non lotterà per rimanere o per stare, ma per abolire il capitale.
*Alberto Prunetti, scrittore e traduttore, è autore di 108 metri. The new working class hero (Laterza), PCSP (Alegre Quinto Tipo) e Amianto. Una storia operaia (Alegre). Per Alegre dirige la collana di narrativa Working Class.
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