L’anomalia della working class napoletana
Due libri ricostruiscono le diverse forme di autorganizzazione politica nei settori sociali ai margini dell’area metropolitana di Napoli degli anni Settanta
Alla fine del 1967 la giornalista e scrittrice Maria Antonietta Macciocchi decide di abbandonare il suo lavoro di corrispondente dell’Unità a Parigi, accettando la proposta del Pci di candidarsi alle elezioni politiche del 1968 nel collegio di Napoli. In occasione della campagna elettorale inizia un carteggio con il filosofo Louis Althusser, con cui condivide le scoperte, le impressioni, gli avvenimenti accaduti durante i due mesi estenuanti in cui ha macinato chilometri tra Napoli e provincia. Pubblicato nel 1969 come Lettere dall’interno del Pci a Louis Althusser, tra i fastidi della dirigenza comunista per il suo atteggiamento critico nei confronti del partito, il carteggio si apre con alcune lettere di Althusser in cui il filosofo invita la giornalista a servirsi della candidatura per indagare cosa accade realmente nel «popolo». Per Althusser, infatti, «le masse sono, in potenza (in potenza: nei fatti ma non se ne offre loro i mezzi) terribilmente in anticipo su di ‘noi’».
La campagna elettorale/inchiesta di Macciocchi, dopo alcuni insuccessi iniziali, ingrana quando la candidata decide di avvicinarsi ai quartieri popolari della città con un atteggiamento di ascolto, cedendo il microfono alle persone che ci abitano e ricostruendo così le loro biografie. Macciocchi restituisce un quadro inedito della composizione di classe della Napoli di cinquantacinque anni fa, difforme da quello che si presenta agli occhi dello stesso Partito comunista, la cui enfasi politica è tutta concentrata sul ruolo degli operai delle fabbriche. Negli anni Sessanta e Settanta Napoli vive il paradosso di essere contemporaneamente la quarta città industriale d’Italia, per la presenza di grandi stabilimenti come l’Italsider di Bagnoli, e la prima per numero di disoccupati. La fabbrica dunque non esaurisce l’esperienza delle masse cittadine, un mondo proletario assai più ricco e vivace di quello rappresentato dal Pci, ma è la stessa città a farsi fabbrica. Nei quartieri popolari prevale infatti un’economia del vicolo in cui esiste un complesso di relazioni che la borghesia e le classi medie instaurano con artigiani, guantaie, lavoratori e lavoratrici a cottimo, ambulanti. Un tessuto produttivo abitato da una working class fragile e frammentata, dove spesso la linea di demarcazione tra economia formale e informale, tra lavori legali e illegali, si assottiglia e si confonde.
Due libri di recente uscita raccontano la variegata costellazione di esperienze di autorganizzazione politica sviluppatesi tra gli strati sociali ai margini dell’area metropolitana di Napoli a cavallo degli anni Sessanta e Settanta a partire da interviste ai protagonisti di quell’epoca: Le fragili alleanze. Militanti politici e classi popolari a Napoli (1962-1976) di Luca Rossomando (monitor edizioni) e L’autonomia operaia meridionale. Parte prima, a cura di Antonio Bove e Francesco Festa. Quest’ultimo è il decimo volume degli Autonomi, longeva saga della casa editrice Deriveapprodi, e costituisce la prima parte di tre dedicate a una ricostruzione storica e politica del mondo dell’autonomia nel Mezzogiorno d’Italia. Entrambi i libri hanno il merito di fare luce su una stagione politica che nelle regioni meridionali venne vissuta diversamente rispetto al ciclo di lotte operaie che ha animato le città del triangolo industriale nel nord Italia negli anni Sessanta e Settanta. Se molto si sa dei cafoni meridionali, gli «operai massa» deportati nelle fabbriche del nord per sostenere lo sviluppo capitalistico del paese, poi protagonisti delle rivolte operaie raccontate da Nanni Balestrini in Vogliamo tutto, poco o nulla è stato invece riservato nelle ricerche storiche e nel dibattito politico a quanto accadde nello stesso periodo nella parte meridionale del paese, scosso comunque dai rivolgimenti del ’68 e dalla crisi precoce di un modello di sviluppo industriale mai arrivato a totale compimento.
«L’autonomia come comportamento»
Sul finire degli anni Sessanta a Napoli l’iniziativa politica è appannaggio di gruppi alla sinistra del Pci, che mettono in crisi la rigidità della narrazione consolidata che dipinge le classi subalterne della città – e talvolta, per estensione, dell’intero Mezzogiorno – come indisciplinate e riottose verso la civiltà, responsabili di comportamenti incivili e criminali, e più in generale, colpevoli dell’intera arretratezza della città e delle regioni meridionali nei confronti della parte settentrionale del paese. Una narrazione condivisa dalle classi dirigenti napoletane, ma anche dalla sinistra istituzionale che tende a diffidare dell’immaturo e ribelle «popolino» per privilegiare i quadri disciplinati e produttivi della fabbrica.
A Napoli, però, le esperienze di autorganizzazione in questo periodo non coinvolgono solamente gli operai degli stabilimenti – d’altronde la presenza della figura dell’operaio di fabbrica non è centrale come nelle città settentrionali – ma una classe più eterogenea che si contamina con militanti di gruppi e partiti alla sinistra del Pci, educatori, intellettuali che animano il movimento studentesco e attivisti provenienti dal mondo del cattolicesimo sociale e della non violenza. Sono quest’ultimi a porre con decisione l’importanza della questione abitativa, contraltare e conseguenza del boom edilizio fatto di speculazione e affarismo rappresentato nel film Le mani sulla città di Francesco Rosi. Le baracche della marina e di Poggioreale divengono il primo luogo di contatto tra attivisti, intellettuali e famiglie sottoproletarie, che evolvono la propria azione politica in una vera e propria lotta per la casa, esperienza che culminerà con le occupazioni degli appartamenti di edilizia pubblica nel 1969, con cui venne messo in discussione l’intero sistema istituzionale di assegnazione degli alloggi popolari.
La crisi economica dell’inizio degli anni Settanta, alimentata dall’epidemia di colera del ’73, accelera l’incontro tra i militanti politici e le fila di proletari precari ingrossate dai nuovi poveri: gli espulsi dalle fabbriche, gli emigrati che hanno fatto ritorno in città in seguito ai licenziamenti e coloro che hanno perso il lavoro in seguito ai provvedimenti restrittivi che con l’epidemia vengono emanati con l’obiettivo di smantellare varie attività, formali e informali, collegate alla pesca, ai mercati alimentari e alla ristorazione. È il periodo in cui nascono i Comitati di quartiere, esperimenti di autorganizzazione politica dal basso dalla composizione eterogenea, protagonisti di battaglie che sfuggono alle logiche sindacali, come quella per l’autoriduzione delle bollette intrapresa contro l’aumento dei prezzi conseguente alla crisi economica. Una forma organizzativa spontanea, che non sfocerà mai in un progetto organizzato o in un partito o movimento strutturato, e che autorizza a parlare per il caso napoletano di «autonomia con la minuscola», dell’autonomia – nelle parole di uno dei militanti intervistati da Bove e Festa – «come comportamento e non come organizzazione».
Nella riflessione politica dei Comitati trova spazio un ripensamento della logica legalitaria con cui il discorso pubblico tende a marginalizzare l’iniziativa di quei proletari coinvolti in attività economiche vietate dalla legge, con cui talvolta si formano comitati appositi – come quello dei contrabbandieri, che più di tutti subirà una feroce repressione. La soggettivazione politica di quella parte extralegale della working class napoletana, da sempre relegata ai margini del processo produttivo e della considerazione politica nella città, si deve al lavoro di quei militanti che nei quartieri e nelle reti di sostegno ai detenuti tentano di politicizzare l’estraneità delle classi popolari allo stato e alle sue leggi, strappandole ai rapporti ambigui che con esse tentano di instaurare sia i partiti dominanti che i fascisti. È una lettura in controtendenza delle classi popolari meridionali, se si pensa al caso eclatante della rivolta urbana di Reggio Calabria del 1970, dove i moti, scoppiati inizialmente per la mancata scelta della città come capoluogo della regione, furono snobbati dalle superficiali valutazioni del Pci che li giudicò prepolitici e campanilistici e lasciati alla strumentalizzazioni di forze reazionarie.
Governamentalità e pregiudizio
In questa congiuntura, i principali partiti politici al governo approfittano dell’impegno di spesa pubblica dello stato per rinsaldare il loro potere attraverso logiche di mediazione clientelare. La promessa dell’industrializzazione del Meridione è ormai già un miraggio, ma muove ancora la logica con cui la Cassa del Mezzogiorno, istituita dietro la retorica discorsiva sulla necessità di colmare il divario con il nord, opera assegnando fondi pubblici alle imprese, per la maggior parte a capitale estero e settentrionale, per la costruzione di infrastrutture e stabilimenti. Una logica appoggiata dalla lettura meridionalista del Pci, per cui con l’industrializzazione non si sarebbe ottenuta soltanto la possibilità di riallineare il sud nell’orbita del progresso italiano, ma anche quella di alfabetizzare alla lingua del produttivismo operaio masse di contadini e sottoproletari.
La storia della nascita dell’Alfasud di Pomigliano è emblematica nella rappresentazione di questo quadro. La costruzione di una gigantesca fabbrica di automobili in un territorio che ha già conosciuto una forte industrializzazione ma è ancora legato al mondo rurale, creò una riserva di manodopera maggiore rispetto a quello che la fabbrica, nel corso degli anni, fu capace di garantire. I giovani assunti, che effettuarono l’improvviso salto in fabbrica per la certezza di avere un reddito che le mutate condizioni agricole non erano più in grado di assicurare, condividevano poco e nulla del produttivismo operaio, percependo la fabbrica come una gabbia. Il racconto pubblico parla di una scarsa attitudine industriale della manodopera locale, che però, innalzando il livello di conflittualità con scioperi e contestazioni, svela al contrario l’irrealizzabilità delle promesse di occupazione della politica. I partiti di governo, in particolare la Democrazia cristiana, utilizzarono infatti l’inaugurazione dell’Alfasud per aumentare i consensi elettorali. Quando la fabbrica aprì i battenti negli anni Settanta arrivarono circa 160mila domande di assunzione di giovani precari, di cui molti braccianti e contadini, gestite attraverso la chiamata numerica dagli uffici del collocamento, eludendo le stesse graduatorie. Contro questa logica venne occupata la fabbrica da parte di 1.500 maestranze edili che avevano partecipato alla costruzione dello stabilimento nel 1970 e che sotto la spinta di un’organizzazione di stampo marxista-leninista, ottennero l’assunzione nell’autunno del ’71.
Le politiche attuate attraverso gli uffici del collocamento furono anche l’obiettivo delle proteste dei disoccupati organizzati a Napoli, che misero a nudo le modalità con cui la Democrazia cristiana aveva egemonizzato i sistemi di distribuzione dei posti di lavoro. I comitati di disoccupati stilavano liste alternative a quelle delle graduatorie di collocamento che, pur basate per legge sull’anzianità di iscrizione, risultavano viziate da raccomandazioni e false qualifiche. L’obiettivo delle cosiddette «liste di lotta», a cui poteva aderire solo ed esclusivamente chi partecipava alle lotte, era conquistare una precedenza rispetto a quelle ufficiali. Il programma politico delle liste prevedeva la rivendicazione di un lavoro stabile e sicuro e, in assenza di esso, un «salario garantito» pari all’80% di quello operaio, aprendo la possibilità di un fronte concreto con gli operai che miravano alla riduzione dell’orario di lavoro, fronte osteggiato da partiti e sindacati. È importante sottolineare come queste mobilitazioni fecero piazza pulita degli stereotipi sulle classi popolari, rappresentate da sempre, sia dalle stesse classi dirigenti napoletane che dall’opinione pubblica italiana in generale, come oziose e individualiste, una «razza maledetta» rassegnata alla propria condizione di miseria. Allo stesso tempo queste mobilitazioni resero cristallino come a guadagnarci da una gestione clientelare del potere – uno stereotipo spesso affibbiato indistintamente a tutta la società meridionale – siano solo le classi dominanti.
Le mobilitazioni degli anni Settanta conobbero uno stop improvviso nella seconda metà del decennio, quando i movimenti non riuscirono a tenere testa alla ristrutturazione capitalistica di questo periodo con tagli e licenziamenti, o semplici dislocamenti di produzione in stabilimenti più piccoli che incisero sulla capacità di aggregazione tra operai. I Comitati si spensero progressivamente, scontando la spontaneità con cui le lotte del decennio precedente si erano imposte sul tessuto cittadino senza culminare in un percorso uniforme.
Nonostante i limiti di quelle esperienze, questi due libri, pur a partire da impostazioni diverse, hanno il merito di non proiettare sui movimenti cittadini delle teorie confezionate altrove, adottando uno sguardo autonomo nella ricostruzione di quest’universo eterogeneo di lotte. Una genealogia a cui tornare cinquant’anni dopo per ripensare al ruolo degli strati sociali ai margini di una città da tempo anestetizzata dalla retorica pervasiva della legalità, e stordita dalle conseguenze economiche e sociali della pandemia e dall’ulteriore aumento della forbice delle disuguaglianze dovute al processo di turistificazione in corso.
*Carmine Conelli è co-animatore di Tamu Edizioni. Dopo aver conseguito un dottorato in Studi Internazionali all’Orientale di Napoli, lavorando sulla costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno ai tempi dell’unificazione italiana, si è dato alla fuga dal mondo accademico
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