L’antisemitismo dalle Crociate al 7 ottobre
La storia dell’odio contro gli ebrei affonda nel pensiero Occidentale ed è ancora attuale. Bisogna conoscerne le sfaccettature per rifuggirne le strumentalizzazioni politiche
L’antisemitismo è un concetto relativamente recente, coniato dal giornalista tedesco Wilhelm Marr alla fine dell’Ottocento. Il fenomeno, invece, ha una storia lunga due millenni. Nel corso dei secoli, l’antisemitismo si è manifestato nei contesti più disparati, da quelli spirituali e religiosi a quelli laici e secolarizzati, in ambienti di destra come di sinistra, tra conservatori e progressisti. Ha sviluppato un archivio sterminato, fatto di superstizioni, pseudo-teorie e calunnie, e ha assunto forme, nomi e definizioni diverse.
Negli ultimi tempi, e ancor di più a partire dalla guerra genocidaria di Israele a Gaza, l’accusa di antisemitismo è diventata in tutto il mondo occidentale un mezzo per silenziare, censurare e reprimere la solidarietà alla Palestina. In modo speculare, i casi di antisemitismo reale vengono giustificati, banalizzati e minimizzati. Oggi è in atto un ampio dibattito per definire una volta per tutte l’antisemitismo, chi e cosa sia antisemita e per contrappasso chi e cosa sono gli ebrei. Prima di definirlo, occorre analizzarne le molteplici sfaccettature, gli spazi simbolici che ancora oggi occupa così come le sue strumentalizzazioni politiche.
L’antigiudaismo cattolico
Per quasi due millenni, l’ostilità antiebraica fu il collante, a intensità alternate, dell’Europa cristiana. L’accezione dell’antigiudaismo – inteso come un’opposizione nei confronti degli ebrei sostenuta da un’ideologia religiosa – non comporta che le ragioni dell’ostilità nei confronti degli ebrei siano esclusivamente di origine teologica. Piuttosto, possono riflettere dinamiche di carattere culturale, psicologico, sociale, politico o economico connesse ai modi in cui una maggioranza si rapporta a una minoranza. Tra il II e il IV secolo, la Chiesa ha elaborato un compatto e duraturo sistema teologico che giudicava gli ebrei, intesi in modo collettivo, come popolo carnale, considerato colpevole in blocco dell’uccisione di Cristo, maledetto, immorale, diabolico e idolatra.
Nel corso dei secoli, queste credenze assunsero forme sempre più violente. Si pensi agli attacchi contro le comunità ebraiche renane durante la Prima Crociata del 1096, all’obbligo imposto nel 1215 dal Concilio Laterano IV di utilizzare segni distintivi (come la rotella gialla) per gli ebrei, all’introduzione delle leggi di limpieza de sangre nella penisola iberica, che culminarono con l’espulsione degli ebrei nel 1492 dalla Spagna, o all’istituzione dei ghetti in Europa – con il primo aperto a Venezia nel 1516 e l’ultimo chiuso a Roma nel 1870, per poi essere ripristinati con le leggi razziste durante la Seconda guerra mondiale.
L’antisemitismo politico
L’età moderna, così come la crescente laicizzazione della società e della cultura, fece credere che il sentimento antiebraico fosse prossimo a scomparire. Fu proprio allora che – mentre gli ebrei ottenevano diritti civili e politici nei prodromi delle rivoluzioni europee – vennero gettate le basi dell’antisemitismo politico.
Alla domanda «Chi è un ebreo?» non è più facile trovare una risposta univoca. Se nell’epoca pre-moderna l’ebreo viveva ai margini, ghettizzato, privo di diritti, identità e proprietà, nell’epoca moderna l’ebreo «si camuffa» – per usare un’espressione cara alla dottrina antisemita dei Protocolli dei Savi di Sion – e rimane tale anche se convertito. Il nemico di un antisemita moderno è un borghese come lui, un collega, un membro della sua comunità politica. L’ebreo non è più una minoranza da incolpare nelle più disparate occasioni né il capro espiatorio di questo o quel male, ma piuttosto una minaccia universale che incombe sull’intero sistema-mondo.
È del 1879 la coniazione del termine antisemita da parte del giornalista tedesco Wilhelm Marr: connotato da un carattere laico e scientifico, identifica l’ebraismo attraverso categorie etnico-nazionali ed esplicitamente razziali, senza mai rescindere completamente i suoi rapporti con l’antico stereotipo antigiudaico. Non a caso, in Europa, il mondo cattolico sostenne senza troppe riserve le fazioni antisemite durante l’affare Dreyfus (1894-1906), un evento che, per citare la storica Hannah Arendt, portò «le forze sotterranee del XIX secolo alla ribalta della storia scritta». Il nuovo antisemitismo politico, cui partecipò anche la Chiesa, non rimase quindi relegato alle intenzioni teologiche intrise di razzismo come nei secoli precedenti, ma si tradusse in esplicite misure restrittive, in massacri deliberati (si guardi ai pogrom antiebraici nell’Europa dell’Est) e, infine, in uno sterminio sistematico e di massa.
L’Europa nel post-Shoah
L’uccisione di sei milioni di ebrei non segnò la fine del pregiudizio antiebraico. Nell’immediato dopoguerra, l’Europa fu incline a vedere la Shoah (in ebraico «catastrofe») come uno dei tanti aspetti che caratterizzarono la Seconda guerra mondiale. Ci vollero almeno due decenni prima che la costruzione dell’idea che abbiamo di Shoah iniziasse a formarsi. Soltanto nel 1959 venne cancellata dalla liturgia cristiana l’espressione «perfido giudeo» e nel 1965 l’accusa di deicidio. Ad oggi, la strada è tutt’altro che in discesa.
Nel 1948, alla voce «Antisemitismo», l’Enciclopedia Cattolica affermava: «Nell’Italia moderna l’antisemitismo non è mai esistito». Nell’Italia del post-Shoah, molti degli attori implicati nelle persecuzioni razziste furono reintegrati in ruoli di potere. I sopravvissuti che tornarono nelle proprie case, dovettero affrontare il rifiuto e la negazione da parte delle istituzioni e di una parte della società civile, anche di quella antifascista. Edith Bruck, ebrea ungherese superstite ad Auschwitz, nel 1959 scrive: «Sono tornata, ma non mi hanno mai veramente creduta. È stato come se fossi morta due volte».
Nella Polonia del dopoguerra, dove la popolazione ebraica era stata quasi totalmente eliminata nei campi di sterminio, l’antisemitismo trovò nuova linfa vitale nella costruzione ideologica del «giudeocomunismo»: l’ebreo diventa il capro espiatorio per tutti i mali del paese. Tra i pogrom antiebraici avvenuti in Polonia nel periodo post-Shoah, merita particolare attenzione quello di Kielce nel 1946, in cui manifestanti polacchi uccisero almeno 42 ebrei e ne ferirono centinaia. Nella Russia sovietica, dove invece la presenza ebraica era significativa, tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, gli ebrei furono perseguitati in chiave «antiborghese», «anticapitalista» e «cosmopolita» e assassinati in massacri deliberati.
Iniziarono anche a prendere piede teorie negazioniste, in un intreccio tra vecchi stereotipi antigiudaici e antisemitismi, e nella nuova idea che la Shoah fosse una «costruzione sionista». Nelle parole di Paul Rassinier, scrittore e politico francese, prima comunista, poi socialista e membro della Resistenza durante la Seconda guerra mondiale: «La cosiddetta Shoah è una costruzione ideologica promossa dal sionismo per legittimare il progetto di uno Stato ebraico in Palestina». A questo punto – come scriverò – la questione si complica ulteriormente con la nascita di Israele.
Israele e la Nakba
Dopo la Shoah, per una parte del mondo ebraico, la nascita di Israele significò avere un luogo salvifico dopo secoli di persecuzioni. Tuttavia, all’inizio del Novecento e prima della Shoah, solo una minoranza della diaspora ebraica aderiva alla dottrina sionista. Numerose figure del mondo ebraico compresero fin da subito il pericolo di un nazionalismo feroce di stampo coloniale. Si pensi a Mark Edelman, comandante della resistenza antinazista del ghetto di Varsavia nel 1943 e membro del Bund: un’organizzazione ebraica che difendeva un’idea non statale e non coloniale di autodeterminazione per ebrei e arabi nella Palestina storica.
In Occidente, le reazioni al sionismo furono molteplici: dal suo appoggio incondizionato, alla sua avversione in chiave antimperialista. Tra i suoi sostenitori, così come tra i suoi oppositori, continuavano a sopravvivere i miti della tradizione antiebraica. Tra i motivi che spinsero l’allora ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour a promuovere il sostegno del governo alla causa sionista nella Dichiarazione Balfour del 1917 fu l’intento di liberarsi della presenza ebraica nel Regno Unito.
Nel mondo cristiano la realizzazione del sionismo costituì uno scandalo teologico. Nel 1948 l’Osservatorio Romano scriveva: «Il sionismo moderno non è il vero erede della Bibbia. La terra santa appartiene al cristianesimo, che è il vero Israele».
Nei paesi a maggioranza musulmana il sionismo segnò – forse in modo irrimediabile – un drammatico spartiacque. Questi, rispetto al mondo occidentale, avevano avuto storicamente un atteggiamento più tollerante nei confronti delle minoranze ebraiche. Per secoli questa relazione, fondata sulla sottomissione e sul pagamento di una tassa («dhimma»), aveva garantito agli ebrei una certa protezione e autonomia religiosa. A partire dalla fine del XIX secolo, il colonialismo europeo aveva radicalmente alterato l’antica relazione tra le minoranze (ebraiche e cristiane) e la maggioranza musulmana, attraverso una politica di divide et impera. All’inizio del Novecento – ma non sarebbe difficile individuare un’analoga produzione negli anni successivi, fino ai giorni nostri – numerosissime furono le traduzioni in arabo della letteratura europea antiebraica, come quella antidreyfusiana o dei Protocolli dei Savi di Sion.
L’unione nel mondo arabo dell’antisemitismo europeo con gli antichi pregiudizi antiebraici presenti nella regione si realizzava proprio mentre nasceva la questione sionista, si disgregava l’Impero ottomano e prendeva piede il nazionalismo arabo. Questa combinazione divenne esplosiva dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e la Nakba (in arabo «catastrofe»), ovvero la pulizia etnica dalla Palestina storica di oltre 750.000 palestinesi. Nello stesso anno, e in quelli a seguire fino al 1967, gli ebrei che vivevano in paesi come la Libia, l’Iraq, lo Yemen e l’Afghanistan, furono vittime di punizioni collettive, pogrom ed esecuzioni per mano della popolazione araba musulmana, per poi essere espulsi dai loro paesi natali e trovare rifugio principalmente in Europa e nel nascente Stato di Israele. In alcuni casi, come emerge dalle letture di Avi Shlaim e Ella Shohat, il nazionalismo arabo collaborò con il movimento sionista per espellere gli ebrei dai propri paesi d’origine, perseguendo i propri rispettivi interessi.
E oggi?
Sebbene nell’Europa, e più in generale nel mondo, di oggi la questione ebraica non sia motivo di preoccupazione come lo fu nell’Europa tra fine Ottocento e metà del Novecento, gli episodi di violenza fisica e simbolica verso gli ebrei sono ancora presenti. Si guardi ai movimenti neonazisti in Germania, a quelli neofascisti in Italia, agli attivisti negazionisti in Polonia, a quelli ultranazionalisti in Russia, e agli attacchi rivendicati dall’islam politico in Francia. Se le statistiche suggeriscono l’incremento del sentimento antisemita in Europa, è anche vero che queste mescolano l’antisemitismo legato a Israele, come casi di critica alle politiche di Israele, con attacchi come l’assassinio di Sarah Lamini, gettata dal suo appartamento nel 2017 a Parigi, e di Mireille Knoll, sopravvissuta alla Shoah, sgozzata e bruciata viva nel 2018; i colpi sparati contro la casa di un ex rabbino a Essen nel 2022; le due bottiglie molotov lasciate in una sinagoga a Berlino lo scorso ottobre, e così via.
È evidente che i tratti del pregiudizio antiebraico – come scrive il sociologo Davide Grasso in un articolo apparso su FanPage nel marzo del 2024 – «quali la paranoia e la teoria del complotto» si possono fondere «sulla distorsione dell’altrimenti giusta denuncia storica della cacciata di milioni di palestinesi dalle loro case e dalle loro terre, seguita da decenni di occupazione e colonialismo di insediamento e, oggi, dalla distruzione di un’intera striscia di territorio e dallo sterminio della sua popolazione».
Come sostiene lo storico Simone Levi Sullam: «Associazioni del tipo: Stato ebraico – America – Capitalismo – Imperialismo, pur basandosi su elementi di verità (il sostegno indiscusso americano a Israele), richiamano anche alla tradizione dell’antisemitismo politico» e gli ebrei continuano ad essere visti come «malvagi burattinai che decidono le sorti del mondo grazie al potere finanziario di cui dispongono».
Di certo, la sovrapposizione tra l’identità storicamente oppressa degli ebrei e l’identità oppressiva di Israele non aiuta a districarsi. Ma è pur vero che l’antisemitismo precede e sopravvive alla questione palestinese. Le svastiche apparse all’ingresso delle case dei cittadini ebrei francesi all’indomani dello scorso 7 ottobre in Francia, l’incapacità di guardare al trauma intergenerazionale ebraico, così come la tendenza a minimizzare casi di antisemitismo reale in certi ambienti della sinistra europea radicale, le bandiere della Palestina esposte dalle finestre di sezioni politiche storicamente fasciste e antisemite, come quella di CasaPound a Roma, e i numerosi attacchi violenti contro luoghi ebraici o ebrei in Italia, Francia, Germania, Stati uniti, ma anche in Marocco, rappresentano certamente un campanello d’allarme. D’altro canto, le strumentalizzazioni dell’antisemitismo, rafforzate dall’operatività della definizione Ihra (Internazional Holocaust Remembrance Alliance), la repressione violenta e sistematica della solidarietà per la Palestina, il supporto incondizionato dei governi occidentali alle politiche israeliane, la razzializzazione delle popolazioni palestinesi nelle diaspore, la deumanizzazione e criminalizzazione delle persone arabe, musulmane e migranti, non lasciano grande spazio d’azione.
La definizione Ihra di antisemitismo
L’Ihra è un’organizzazione intergovernativa istituita alla fine del secolo scorso con lo scopo di promuovere la memoria della Shoah. Nel 2016 la sua assemblea plenaria ha approvato la definizione secondo la quale: «L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei». Gli autori vi hanno poi allegato undici esempi per renderla più concreta.
Dalla relazione si evince che sono comportamenti classificabili come antisemiti: 1) invocare il massacro degli ebrei, 2) propagare il mito del complotto ebraico mondiale, 3) incriminare l’intero popolo ebraico 4) negare la Shoah. Fino a qui, nulla di nuovo. Gli altri sette esempi di antisemitismo riguardano invece affermazioni e atteggiamenti nei confronti dello Stato di Israele. Nonostante gli autori l’abbiano qualificata come non giuridicamente vincolante, a pochi anni dalla sua pubblicazione, la definizione Ihra è stata adottata da 29 Stati membri dell’Unione europea e dal Dipartimento di Stato degli Stati uniti.
L’obiettivo esplicitato del documento è quello di offrire uno strumento di orientamento a tutti i soggetti, sia privati che istituzionali, impegnati nella lotta all’antisemitismo. Eppure, da quando è in vigore, l’Ihra è stata principalmente un mezzo di silenziamento e censura dei critici delle politiche dello Stato di Israele. Se gli attacchi contro Israele, a destra come a sinistra, veicolano talvolta intenzioni antisemite, è fuori dubbio che le sue critiche – anche quando radicali – non possono essere condannate sic et simpliciter. Il cuore della questione risiede quindi nell’uso strumentale che la politica fa di questa definizione. Nel 2020 un gruppo di accademici, tra cui intellettuali della diaspora ebraica e israeliani, ha proposto una definizione alternativa di antisemitismo, la Jerusalem Declaration, con forti aperture nello spazio di confronto riguardo la questione palestinese. Non sorprende che sia passata in sordina.
Dopo il 7 ottobre. La repressione della solidarietà alla Palestina
All’indomani dell’attacco di Hamas il 7 ottobre, con la guerra genocidaria in corso a Gaza, un clima di paura e autocensura è arrivato a dominare numerose istituzioni culturali e università europee e americane come risultato della crescente autorità esercitata da questa definizione.
Nel giugno 2024, in Germania è entrata in vigore la proposta di legge intitolata: «Adempiere alla responsabilità storica e proteggere la vita ebraica in Germania», contenente più di cinquanta misure volte a combattere l’antisemitismo, tra cui l’espulsione degli immigrati che commettono crimini antisemiti e l’intensificazione delle attività dirette contro il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds).
In precedenti dichiarazioni, il vice-cancelliere tedesco Robert Habeck, membro del Partito Verde, ha dichiarato che gli immigrati in Germania dovrebbero «prendere chiaramente le distanze dall’antisemitismo per non compromettere il loro diritto alla tolleranza». Habeck si dimentica che tra i fautori dell’antisemitismo politico e del conseguente sterminio sistematico degli ebrei siano stati proprio i tedeschi, gli italiani, i francesi, i polacchi, gli olandesi. Insomma, gli europei. A rigor di logica, viene da chiedersi come mai lo stesso monito non sia rivolto ad alcuni dei membri del parlamento tedesco apertamente neonazisti e antisemiti.
Sempre in Germania, sono stati istituiti decine di commissari per contrastare l’antisemitismo: quasi nessuno di questi è ebreo, eppure la percentuale di ebrei tra i loro bersagli è altissima. L’artista Adam Broomberg, ebreo sudafricano residente a Berlino, dopo essere stato arrestato con l’accusa di antisemitismo durante una manifestazione per il cessate il fuoco a Gaza, ha scritto: «Ho appena seppellito mia madre, che ha vissuto la Shoah, e vengo accusato di essere un antisemita proprio nel paese che, meno di un secolo fa, ne è stato il promotore».
Lo scorso ottobre, in Italia, la manifestazione indetta dall’Unione delle Comunità Ebraiche (Ucei) in contrasto all’odio antiebraico ha visto sfilare storici personaggi antisemiti delle destre estreme di governo. La Presidente Giorgia Meloni, che ha più volte espresso la sua vicinanza «alla comunità ebraica in Italia e in Israele», ha in Giorgio Almirante uno dei punti di riferimento di maggiore rilievo: un complice diretto delle leggi razziste, che riteneva bisognasse eliminare «i meticci ebrei».
Nel novembre di quest’anno, ad Amsterdam, uno scontro tra ultras, dove i tifosi israeliani del Maccabi Tel Aviv – dopo aver inneggiato alla morte di tutti gli arabi e brindato alla distruzione di Gaza – sono stati linciati da un gruppo di olandesi, alcuni dei quali di origine maghrebina, è stato definito «pogrom antiebraico» da tutte le principali testate giornalistiche europee. Che tra i picchiatori ci fossero anche degli antisemiti è plausibile. Negarlo, è parte del problema. Ma ridurlo tout court a un «attacco di matrice antisemita», o peggio ancora, a un «pogrom antiebraico» è antistorico, oltre che ipocrita. Così facendo, si alimenta la pericolosa conflazione tra sionismo ed ebraismo – tanto cara alle destre europee postfasciste e della quale Israele beneficia – all’interno di uno scontro di civiltà che vede la contrapposizione tra arabi ed ebrei.
Un ultimo sforzo
Il sostegno a Netanyahu dell’Occidente è quindi prima di tutto strumentale. È figlio dell’islamofobia, che, utilizzando la causa degli ultimi dell’Europa, gli ebrei, può sotterrare la propria sterminata esperienza antisemita, e istituzionalizzare il razzismo di governo. Alla luce di ciò, possiamo dedurre che la definizione Ihra sia uno strumento politico utilizzato tanto da alcuni gruppi occidentali quanto dal governo israeliano, al fine di imporre un’equivalenza tra antisemitismo e critiche politiche al sionismo, piuttosto che un mezzo per combattere in modo serio l’antisemitismo. Anzi, più che l’Ihra, è l’antisemitismo stesso a essere strumentalizzato.
La relazione tra antisemitismo, antisionismo e critica allo Stato di Israele non può essere risolta in una visione manichea ed essenzialista. Per uscire da questa impasse, serve un lavoro meticoloso, che guardi all’antiebraismo come una componente della cultura dell’Occidente e non come un fenomeno marginale o in declino, e che sia in grado di svelare quelle teorie sviluppatesi e trasformatesi nel corso dei secoli, che hanno ancora oggi gli ebrei intesi in senso collettivo come causa e spiegazione. In questa direzione, è necessaria una critica radicale dell’antisemitismo, seguita da una disamina prettamente politica delle pratiche di colonizzazione israeliane. Se è vero che il colonialismo non ha ucciso meno dell’antisemitismo, nel mondo di oggi nessuna analisi dell’antisemitismo sarà efficace se non accompagnata da una presa di distanza seria e lucida dalle sue strumentalizzazioni politiche volte a difendere le prassi sioniste, e di conseguenza, la distruzione del popolo palestinese.
*Micol Meghnagi è una ricercatrice universitaria. Si occupa di memoria della Shoah, colonialismo italiano e movimenti sociali in Palestina. Collabora con diverse testate giornalistiche in Italia e all’estero.
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