L’Argentina tira il freno (per ora)
Nella partita per la Casa rosada il peronista Massa ha ridimensionato la corsa dell'ultraliberista Milei, ma l'esito del ballottaggio del prossimo 19 novembre è ancora aperto
L’Argentina ha tirato il freno. Dopo un’ondata di opposizione che, nelle primarie del 13 agosto, ha travolto il peronismo al potere e ha permesso al libertariano di estrema destra, Javier Milei, di bussare alla porta della Casa Rosada, l’elettorato è sembrato reagire a quello che sembrava un salto nel vuoto. Tra il Paso – primarie aperte, simultanee e obbligatorie – e le elezioni del 22 ottobre, la possibilità che il candidato liberista vincesse ha fatto scattare tutti i campanelli d’allarme, e questa sensazione ha permesso al peronismo di riguadagnare terreno e di realizzare il miracolo in cui sperava senza troppa convinzione. Tranne che nel caso dello stesso Sergio Massa, un politico con un’eccezionale volontà di potere.
Massa ha ottenuto un inaspettato 36,6%; Milei, di La Libertad Avanza (Lla), si è fermato al 30%; e Patricia Bullrich, dell’alleanza di centrodestra Juntos por el Cambio (JxC), è crollata al 23,8%.
Il fatto che Massa, in qualità di ministro delle Finanze dell’attuale governo peronista, che ha un tasso di inflazione superiore al 120% annuo e un’impennata del dollaro, abbia ottenuto questo risultato potrebbe sembrare strano. Ma il candidato ha approfittato della sua posizione per adottare una serie di misure – chiamate in modo dispregiativo da alcuni media «plan platita», «piano a pagamento», – che comprendono l’eliminazione dell’imposta sul reddito dei salari e varie misure per alleviare la crisi sociale del paese. Inoltre, in una campagna caratterizzata dalle invettive sguaiate di Milei e da una Patricia Bullrich che, dopo le primarie, non è riuscita a trovare il bandolo, Massa è apparso come l’«adulto nella stanza». Mentre Milei cercava di far incarnare, in modo caotico, la sua utopia «anarco-capitalista» in un progetto di governo, il sostegno a Massa è finito per diventare una sorta di voto difensivo di una parte della società. Milei si è ingarbugliato anche con la sua proposta più efficace – la dollarizzazione – e si è alleato con il peggio della «casta» che diceva di voler combattere, come il sindacalismo filomafioso del leader del sindacato del settore turistico, alberghiero e gastronomico, Luis Barrionuevo.
Massa si è dimostrato presidenziale e ha fatto appello al suo proverbiale pragmatismo: è riuscito a contenere il voto di sinistra, parte del quale alle primarie era andato al leader sociale Juan Grabois, e a mantenere l’alleanza con Cristina Fernández de Kirchner, ma è anche diventato lo strumento per fermare Milei, soprattutto visto il pericolo che potesse vincere al primo turno. Anche gli elettori tradizionali della sinistra trotzkista hanno deciso di «turarsi il naso» e votare per il ministro dell’Economia.
Ministro e candidato, Massa ha dato prova della sua astuzia politica nel presentarsi come colui che «ha afferrato il ferro caldo quando nessuno voleva farlo» e come l’uomo che, nonostante tutto, «ha fermato l’esplosione». Allo stesso modo, è riuscito a stabilire, almeno nel suo discorso, che i vari mali che affliggono l’attuale economia argentina derivano dalle imposizioni del Fondo monetario internazionale, a causa dell’indebitamento del governo di Mauricio Macri, e dai tentativi di destabilizzazione dell’opposizione di destra. Allo stesso tempo, è riuscito a distaccarsi dal kirchnerismo, dimostrando che da presidente non sarà lo stesso di quando era ministro in un governo peronista caotico a causa delle lotte tra il presidente Alberto Fernández e la vicepresidente Fernández de Kirchner. Inoltre, Massa ha stabilito una solida alleanza con il governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof, che ha vinto la rielezione in un territorio chiave peronista.
Massa ha intrapreso una campagna in cui si è posizionato come l’unico politico in grado di amministrare lo Stato argentino. In breve, l’attuale ministro dell’Economia ha indossato l’abito che più gli si addice: quello di un uomo della classe politica capace di muoversi pragmaticamente in diversi ambiti, compreso quello dell’establishment, e di offrire un dialogo in diverse direzioni. In definitiva, come rappresentante della «casta» politica tanto vituperata da Milei.
Nei dibattiti presidenziali, trasmessi in contemporanea su diversi canali televisivi, Massa ha affrontato i suoi rivali con un discorso che ha sottolineato la necessità di entrare in una nuova fase politica, senza distruggere le conquiste dei quarant’anni di democrazia che si celebreranno il prossimo dicembre. Di fronte alle posizioni più ideologizzate del kirchnerismo, che hanno riguardato e continuano a riguardare lo «scontro con la destra» e la cospirazione permanente del «fascismo», Massa ha utilizzato un discorso che, nelle sue stesse parole, ha puntato a evitare «la rabbia e l’odio». Di fronte a Milei e Bullrich, ha offerto proposte concrete su diverse questioni e ha chiarito che la sua sarà, in diversi ambiti, una politica «mirata». Ha cercato di apparire come una sorta di centro estremo e ha chiesto un «governo di unità nazionale» con «tutti dentro», compresi il centrodestra e i liberisti. Allo stesso tempo, la sua campagna si è affidata al potere territoriale del peronismo che, dopo essere stato sorpreso da Milei nel Paso, ha attivato tutte le leve del proprio potere locale. Non va dimenticato che, per le primarie, il peronismo ha sostenuto Milei in vari modi per indebolire la coalizione JxC, che riteneva più difficile da sconfiggere in un secondo turno. Alla fine, questa strategia potrebbe funzionare.
Mentre l’opposizione di Milei e Bullrich ha proiettato una visione fortemente decadente del paese, Massa ha incentrato la sua campagna su un messaggio positivo e sull’idea che «non siamo un paese di merda». Per sminuire Milei, ha affermato che la proposta del candidato liberista (la dollarizzazione) è stata applicata solo in tre paesi: Zimbabwe, El Salvador ed Ecuador, quest’ultimo ora immerso in una profonda crisi. E per controbattere gli attacchi di Bullrich, che è stata molto dura quando gli ha detto che ha «raddoppiato il tasso di inflazione», il candidato peronista ha detto che la proposta di scissione monetaria della leader del centrodestra sembra essere stata «copiata dal Venezuela e da Cuba», due paesi con i quali la destra, logicamente, associa tradizionalmente il kirchnerismo.
Un altro aspetto fondamentale della campagna di Massa è stato il modo in cui si è presentato alla società. Il peronismo, anche quello progressista, ha presentato Massa come un «uomo normale» in contrapposizione alla «follia» di Milei. Questa idea di «normalità» si è combinata con la difesa dello Stato contro l’«anarco-capitalismo» della legge della giungla di Milei. Massa, nonostante il suo ruolo di ministro e contro ogni previsione, è riuscito a rendere convincente il suo discorso di «prevedibilità».
Dopo la vittoria alle primarie, Milei non è riuscito a sfruttare lo slancio per generare un’onda inarrestabile. Gli stessi liberisti pensavano di essere vicini a una vittoria al primo turno (con il 40% e un distacco di dieci punti sul secondo classificato). Ma, a poco a poco, il suo profilo stravagante stava facendo sentire i suoi effetti. Le sue frasi celebri, come «tra la mafia e lo Stato, preferisco la mafia. La mafia ha dei codici, la mafia rispetta, la mafia non mente, la mafia compete»; le sue posizioni contro l’istruzione pubblica, così come la sua idea che ci debba essere un mercato degli organi umani o la sua posizione a favore del libero porto d’armi, hanno iniziato a bucare la sua corazza. Lo stesso è accaduto con la sua negazione del terrorismo di Stato durante la dittatura, contro quel consenso democratico che vige nel paese.
Milei, tuttavia, non è stato influenzato solo dalle sue stesse dichiarazioni – molte delle quali rilasciate prima della campagna elettorale – ma anche da quelle di alcune persone della sua stretta cerchia. Ad esempio, la candidata al Congresso Lilia Lemoine ha dichiarato che il suo primo progetto sarebbe stata una legge che permetta agli uomini di rinunciare alla paternità, dal momento che le donne, con l’approvazione dell’aborto in Argentina, hanno il «privilegio di [poter] uccidere i propri figli» e rinunciare a essere madri. Uno dei consiglieri di Milei, Alberto Benegas Lynch, ha proposto di sospendere le relazioni diplomatiche con il Vaticano finché Francesco resterà papa.
Alcuni anni fa, lo stesso Milei considerava il Papa «il rappresentante del Maligno sulla Terra». «L’imbecille di Roma dovrebbe essere informato che l’invidia, che è la base della giustizia sociale, è un peccato capitale», disse ad alta voce in un programma televisivo. E poi ha detto: «Gli Stati sono un’invenzione del Maligno». Sebbene le dichiarazioni siano state fatte nel 2020, sono diventate virali dopo la vittoria al Paso. La risposta non si è fatta attendere ed è arrivata dalla stessa Chiesa cattolica, quando un gruppo di «curas villeros» (sacerdoti dei quartieri poveri) ha organizzato una massiccia messa di espiazione. Il grande interrogativo è quale sarebbe, in un eventuale governo Milei, il suo rapporto con il Papa argentino, che non ha mai visitato il proprio paese dopo la sua nomina nel 2013 e ha detto di volerlo fare nel 2024. Quello che è chiaro è l’opinione del papa, che solo pochi giorni prima delle elezioni presidenziali argentine ha detto senza citare il destinatario: «Ho molta paura dei pifferai… il Messia è solo uno che ci ha salvato tutti. Gli altri sono tutti pagliacci del messianismo».
L’idea di Milei dello Stato come male assoluto ha assunto talvolta un carattere oscuro, come quando ha detto in televisione, già da deputato: «Lo Stato è un pedofilo in un asilo, con i bambini incatenati e lavati con la vaselina». In effetti, la sua stabilità psicologica è stata una variabile di queste elezioni. La stessa élite economica non si fida di lui – anche perché se vincesse sarebbe in minoranza al Congresso e non avrebbe una squadra di governo seria – e i magazine liberale The Economist lo ha considerato un pericolo per la democrazia argentina.
In questo contesto, il sostegno di Jair Bolsonaro non gli ha certo portato rispettabilità. Il candidato libertariano non ha comunque lasciato nulla di intentato. Non solo ha criticato la casta, ma ha anche affrontato i media tradizionali e ha considerato diversi dei loro giornalisti «corrotti» (ensobrados). Inoltre, ha criticato senza pietà Bullrich, la candidata sostenuta da gran parte dell’establishment e che lui stesso aveva elogiato poco tempo prima. L’ha definita «assassina montonera» per la sua militanza nel peronismo rivoluzionario degli anni Settanta. Negatore del cambiamento climatico, ammiratore di Donald Trump e del partito ultra-spagnolo Vox, e con una motosega come simbolo della campagna elettorale, Milei ha incarnato quello che l’americano Jeffrey Tucker chiama «libertarismo brutale», con un progetto e una messa in scena che ha attirato molti elettori (il suo 30% era inimmaginabile fino a pochi mesi fa) ma ha anche spaventato troppe persone, che hanno votato per evitare la sua vittoria.
Nonostante il suo declino alle elezioni presidenziali, JxC avrà un gran numero di governatori provinciali. Molti di loro appartengono però all’Unión Cívica Radical (Ucr), una forza politica storica che fa parte del JxC ma il cui rapporto con il partito di Mauricio Macri – Propuesta Republicana (Pro) – non è stato privo di tensioni. Con la sconfitta elettorale di Bullrich, la questione della continuità di questa coalizione è aperta. Milei è riuscito a dare il benservito – almeno in questa competizione elettorale – e alcuni dei membri di JxC potrebbero prendere altre direzioni. I leader radicali entreranno nel governo di «unità nazionale» proposto dal candidato peronista? Le incognite saranno più chiare nei prossimi giorni.
Si apre ora un nuovo scenario: Massa cercherà di sfruttare il cambiamento delle aspettative per dare una spinta decisiva alla sua campagna elettorale e dovrà attrarre gli elettori del centro e del centrodestra, nonché quelli del peronista dissidente Juan Schiaretti, che ha ottenuto quasi il 7%. Milei, da parte sua, cercherà di attirare i voti di Bullrich per realizzare, secondo le sue parole, la «rivoluzione liberale». Dopo i risultati, il libertariano ha spostato i suoi attacchi al kirchnerismo e ha tacitamente invitato Bullrich e il suo settore a formare un’alleanza, nel tentativo di ricucire le ferite. Lo scenario è aperto, anche se il 22 ottobre il campo di gioco si è inclinato a favore di Massa.
*Mariano Schuster è giornalista. È redattore della piattaforma digitale Nueva Sociedad. È stato redattore capo di La Vanguardia e Nueva Revista Socialista. Collabora con Letras Libres e Le Monde diplomatique, tra gli altri. È uno degli autori di Tiene porvenir el socialismo? (a cura di Mario Bunge e Carlos Gabetta, Eudeba, 2013). Pablo Stefanoni è redattore capo di Nueva Sociedad. Con Martín Baña ha scritto Todo lo que necesitás saber sobre la Revolución rusa (Paidós, 2017) ed è autore di La rebeldía se volvió de derecha? (Siglo Veintiuno, 2021). Questo articolo è uscito su Nueva Sociedad, la traduzione è di Salvatore Cannavò.
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