
Le eccezioni psicotiche
L'emergenza Coronavirus non può essere liquidata col panico ingiustificato. E se diventasse occasione per rivendicare il potere di prenderci cura collettivamente delle nostre vite?
– F. decide di trascorrere il primo giorno di quarantena in riva al lago, con gli amici. È una bella giornata di sole, non deve andare a lavorare ma ha la giornata retribuita. Meglio stare un po’ fuori dalla città, che non si sa mai. Da anni non viveva un lunedì così sereno.
– G. è sconcertata dalla psicosi collettiva da virus. Ha letto diversi articoli che contestano la pericolosità effettiva del contagio e trova assurdo tutto questo panico, in particolare da parte delle istituzioni che dovrebbero prendere scelte razionali. È in estrema difficoltà perché ha una figlia piccola, non può assentarsi da lavoro e i nonni in questi giorni non possono uscire di casa. Ha bisogno di respirare, non deve perdere il controllo.
– D. fa fatica a dormire la notte, si fa ipnotizzare dai canali di breaking news e dalle serie tv e si sveglia sempre all’ora di pranzo. La quarantena lo sta sfinendo, se era difficile reggere al ritmo lavorativo senza il lavoro si sente soffocare, e il suo capo non gli ha ancora detto cosa troverà alla fine del mese in busta paga. Teme che la cosa duri ancora a lungo, si chiede quanti gradi di congiunzione lo separino dai contagiati. E sospetta di ogni suo colpo di tosse, si sente anche un po’ di febbre. Domani dovrà andare a fare la spesa, dovrà lavarsi bene le mani dopo, almeno 4-5 volte, non sa dove recuperare la mascherina.
– S. pedala in bicicletta al centro della strada. Non c’è nessuna macchina in giro ed è l’ora di punta, per una volta non deve stare in tensione costante per timore di finire sotto un Suv. L’aria è fresca, la sente anche dietro alla mascherina che gli hanno consigliato di mettere. Senza traffico per una volta se la prende con calma, anche perché gli ordini sono pochissimi oggi. Arriva a destinazione, suona al campanello con la mano libera dal cartone della pizza. Mentre sale le scale si chiede, un po’ divertito, se alla porta troverà un’altra mascherina.
– K. prende con la macchina una stradina sterrata. La conosce dalla sua infanzia, mentre l’esercito e la polizia sembra non sappiano della sua esistenza. Ha pianificato un semplice tragitto per aggirare i posti di blocco e raggiungere il supermercato più vicino. Nessuno ha fatto sapere più nulla per i viveri da far arrivare alla zona rossa, non riesce a sopportare l’idea di finire senza nulla da mangiare in casa.
Le prime settimane di emergenza per il Coronavirus in Italia verranno ricordate per moltissime cose. Voglio soffermarmi in particolare su un elemento che si è diffuso (viralmente) nel dibattito pubblico, sulla stampa, sui social network e nelle chiacchiere da bar (quando sono aperti): la psicosi.
Cosa indica il termine psicosi
Il termine psicosi è stato largamente abusato in questi giorni. L’evento principale che ne ha sdoganato l’uso è stato l’assalto ai supermercati in diverse zone d’Italia, una corsa all’acquisto oltre che di scorte alimentari anche di mascherine e prodotti igienizzanti. Scene che nella stampa e nei social network hanno creato un flusso di commenti oscillanti tra la preoccupazione e l’ironia a colpi di meme. Il tutto tenuto insieme da una terminologia psicopatologica, categorizzando questi fenomeni con il concetto di «psicosi collettiva».
Tale concetto viene utilizzato nel senso comune in modo dispregiativo, come parola-contenitore per tutti i comportamenti collettivi che eccedono le risposte ritenute «normali» o «sane». Questa «diagnosi» nel contesto di contagio si è unita alla valutazione di inciviltà e ignoranza: «questi idioti bifolchi, sono completamente pazzi a spaventarsi così!».
Il termine «psicosi» ha una lunga storia in ambito psichiatrico e psicologico, ed è stato al centro di una complessa analisi critica sul rapporto politico tra follia e società (su questo è da leggere Michel Foucault in Storia della follia nell’età classica). Il contenuto dato alla parola-contenitore «psicosi» nel senso comune è legato alla rappresentazione romanzata e stereotipata del soggetto schizofrenico della cinematografia di massa, un soggetto in balia totale dei propri deliri e allucinazioni che compie atti totalmente irrazionali – una figura imprevedibile e per questo socialmente pericolosa. Un cliché narrativo e mediatico basato sulle tesi della psichiatria moderna, che fondavano «scientificamente» questa «paura per il folle» costruendo un vero e proprio spettro che ha «terrorizzato» diverse fasi storiche in Occidente.
Una corrente di pensiero «eretico» della psichiatria (ad esempio Franco Basaglia, Ronald Laing e David Cooper) ha invece lottato, insieme a pazienti e personale medico, per decostruire questa rappresentazione e trasformare radicalmente l’approccio alla malattia mentale. Da un lato operando concretamente contro le violenze materiali, sociali e politiche subite da chi era recluso nei manicomi (un libro illuminante su questo è L’istituzione negata curato da Basaglia); dall’altro raccontando in modo non stereotipato l’esperienza complessiva che incontravano nelle istituzioni manicomiali attraverso l’auto-narrazione di chi era recluso in manicomio (utilizzando giornali e riviste prodotti dai pazienti come Il picchio del manicomio di Gorizia): vite fatte non solo di pesanti sofferenze e forti limitazioni relazionali ma anche di creatività, esigenze quotidiane, vitalità nella resistenza alla reclusione e alla disumanizzazione.
In Italia (e non solo), nonostante la rottura politica e legislativa maturata grazie a questo lavoro e alle lotte dei movimenti per la chiusura dei manicomi, il termine «psicosi» continua a essere usato come uno stigma, con una divisione politica e sociale disumanizzante tra chi è sano e chi è pazzo. Stigma che unito alla paura delle dinamiche di massa diviene «psicosi collettiva», con una linea genealogica abbastanza chiara proveniente dal famoso «timore» dei comportamenti imprevedibili delle folle insito negli studi di fine Ottocento di Gustave Le Bon.
Per capire che cosa venga ritenuta scientificamente oggi la psicosi c’è la piccola definizione collegata al Dsm-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali elaborato dall’American Psychiatric Association (Apa), che dal 1952 (prima edizione del Dsm, mentre la quinta odierna è stata pubblicata nel 2013) è il principale riferimento dei criteri e degli strumenti diagnostici e nosologici (di classificazione e categorizzazione) dei disturbi mentali.
Nel Dsm-5 esistono oggi diverse categorizzazioni di disturbi psicotici. È utile riportare la definizione di uno di questi – il disturbo psicotico breve – per avere un esempio concreto di come vengono descritti oggi questi disturbi:
«A) Presenza di uno (o più) dei sintomi seguenti. Almeno uno di questi deve essere presente 1), 2) o 3):
1. Deliri.
2. Allucinazioni.
3 Eloquio disorganizzato (per es., frequente deragliamento o incoerenza)
4. Comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico».
Esiste un ampio e acceso dibattito sulla validità effettiva dei criteri diagnostici dell’Apa e anche della funzione politica dello strumento del Dsm rispetto alla sofferenza psichica. La scelta dell’Apa infatti, dal Dsm-III del 1980 in poi, è stata quella di adottare un approccio «ateorico» nella costruzione del manuale diagnostico, cioè di classificare le psicopatologie senza una teoria interpretativa per analizzarne le cause. Una fotografia che si propone l’obiettivo del massimo dell’oggettività per il riconoscimento dei sintomi e il loro raggruppamento in sindromi e disturbi. Da qui l’effetto «lista della spesa» dei sintomi per decretare freddamente e in maniera «neutrale» se una persona ha o meno un disturbo. Questo approccio ha una genealogia precisa nella storia della psichiatria, e cioè le origini della psichiatria moderna con il lavoro di Emil Kraepelin, medico tedesco di fine Ottocento. Un approccio in cui per lo psichiatra «il malato rimane alla porta» perché «è la malattia che lo interessa e che assorbe la sua attenzione in maniera totale» [Lo sviluppo della psicopatologia, Alessandro Zennaro, Il Mulino, 2011]. Le critiche mosse a questo approccio sono numerose, in particolare per la prassi disumanizzante che attraverso una presunta oggettività scientifica elimina la dimensione reale della sofferenza, si preoccupa esclusivamente del sintomo (per capire il modo più veloce di debellarlo) e non della persona che lo vive.
La definizione di psicosi del Dsm e i suoi criteri diagnostici ci aiutano a comprendere meglio cosa si cela in chi usa il termine «psicosi collettiva»: l’idea che le persone stiano perdendo contatto con la realtà e la pulsione a segnare sulla «lista della spesa» dei comportamenti specifici come «deliri» o «allucinazioni».
Il coronavirus è una «psicosi collettiva»?
Ma perché un acquisto imponente di prodotti frutto di una situazione di timore per un virus che ad oggi non ha vaccino o terapie specifiche e ha fatto nel nostro paese decine di morti e centinaia di infetti, produce una tale valutazione? Dietro alla derisione e all’esigenza di classificazione si intravede una pulsione elitaria di razionalizzazione. Razionalizzazione che, in questo caso specifico, mostra due problemi principali.
Da un lato si analizza il modo in cui i meccanismi di mercato orientano anche le situazioni di emergenza e paura: di fronte al contagio le mascherine e gli igienizzanti per le mani sono divenuti merci introvabili, con prezzi stellari, ma viene sottolineata solo la «psicosi collettiva» dell’acquisto di massa ai supermercati. Esiste un’«economia del panico» non perché qualcuno si «inventa» delle epidemie o delle catastrofi, ma perché gli avvenimenti spesso poco prevedibili determinano delle dinamiche intrinseche ai meccanismi di mercato. Più che occasione di scherno sarebbero momenti in cui analizzare come il feticismo delle merci abbia un effetto sulle nostre vite psichiche oltre che sulle nostre tasche.
Dall’altro la risposta razionalizzante ha l’obiettivo tenere a distanza le emozioni, le sofferenze, le angosce di cui si fa fatica a comprendere i motivi. La razionalizzazione del resto è stata studiata dalle teorie psicoanalitiche nell’elaborazione dei meccanismi di difesa: introdotto a inizio Novecento da Ernest Jones, allievo di Freud, il termine definisce tutte quelle spiegazioni razionali e rassicuranti che le persone si danno di fronte a fenomeni e sentimenti vissuti con eccessiva angoscia e difficilmente accettabili. La razionalità dunque non è un approccio oggettivo alla realtà, ma spesso un meccanismo di difesa rispetto all’angoscia del reale.
La paura di un virus sconosciuto (fatto alquanto comprensibile, a prescindere dalla valutazione di pericolosità del virus in sé) diventa causa di disprezzo e derisione, roba di cui vergognarsi e da cui prendere le distanze. E la postura razionalizzante ha quasi un’ossessione di «cura» nel senso praticato dalla psichiatria dominante: l’assalto ai supermercati è un sintomo, il sintomo esprime un disagio che dobbiamo eliminare per tornare a essere sani, «normali». Un approccio che rivela la paura della sofferenza psichica, la propria prima di tutto. E fa emergere anche l’illusione che si possa «riprendere controllo» e potere sulla realtà liberandosi dalle emozioni e guidati solo dalla razionalità. Giorno dopo giorno assistiamo a dinamiche ambivalenti degli stessi rappresentanti istituzionali, che spingono per razionalizzare il fenomeno epidemico ma poi agiscono in modo emergenziale di fronte alla crescita del contagio e della paura. Il caso del governatore della lombardia Attilio Fontana è emblematico: il giorno dopo aver dichiarato che il coronavirus «è poco più di un’influenza» è costretto a mettersi in auto-isolamento per il contagio di una sua stretta collaboratrice comunicandolo in diretta facebook con tanto di mascherina al volto, come se fossimo piombati in una puntata di Black Mirror. Un’oscillazione che mostra la ricerca di un intervento di governo che appaia tempestivo, efficace e responsabile ma che rivela di non sapere cosa fare, di non avere il controllo della situazione.
Le radici sociali delle paure
La prima cosa da fare dovrebbe essere abbandonare il paradigma razionalizzante che deride e stigmatizza le esperienze di sofferenza psichica e le paure che viviamo intorno a noi, cogliendo le possibilità inedite aperte dal dover «fermare la quotidianità» per sperimentare l’ascolto di noi stessi e di chi è intorno a noi, dal nostro quartiere al posto di lavoro, dal bar fino proprio al supermercato.
Basaglia ha affrontato a più riprese anche il concetto di ipocondria riflettendo sul rapporto tra angoscia, corpo e depersonalizzazione (il distacco dall’esperienza di sé e della propria esistenza), in cui l’ipocondria si struttura sul «vivere il ‘proprio corpo’ soltanto come oggetto»:
il corpo ‘come oggetto’ invade la coscienza ed è ‘sentito con dolore’. Esso, quindi, non è più ‘mio’, ma diventa un ‘oggetto’ del mondo che si esprime solo attraverso gli incontrollati apparati neurosomatici: l’ansia che si libera da tale insopportabile situazione costituisce, dunque, l’essenza dell’ipocondria che esprime, come direbbe Freud, l’angoscia della morte [Scritti. 1953-1980 Il Saggiatore, 2017].
La riflessione è interessante perché permette, nella situazione di paura dell’epidemia, di ragionare sulla dimensione diffusa della perdita di rapporto con il proprio corpo. E il termine ipocondria, a differenza di quello stigmatizzante di «psicosi collettiva», serve non per etichettare un comportamento ma per imparare qualcosa di noi e della società in cui viviamo.
Un altro psichiatra «eretico», Frantz Fanon, propone il concetto di sociogenesi della sofferenza psichica, analizzando come i nostri sintomi trovino le proprie radici e modi di esprimersi nelle strutture sociali in cui nasciamo, cresciamo e a cui partecipiamo quotidianamente. Per Fanon – che in Pelle nera, maschere bianche utilizza questo concetto per analizzare l’esperienza vissuta dalle persone nere nella struttura sociale razzista e le conseguenze psichiche che ne derivano – la sofferenza mentale non può essere ridotta a una dimensione organica o individuale ma dev’essere compresa a partire dal contesto storico, politico e sociale in cui l’individuo è inserito ed esprime una specifica sintomatologia. Sintomatologia non neutra ma segnata dai rapporti di dominio vissuti dall’individuo.
Possiamo dunque dire che esistono due tipi di cura che la lingua inglese ci aiuta a distinguere: la cura razionalizzante (to cure), che cancella l’espressione della sofferenza e cerca di «normalizzarla», e il prendersi cura (to care) della nostra e altrui esperienza vissuta, la cura reciproca.
Oggi abbiamo l’occasione di cambiare prospettiva per costruire relazioni capaci di sostenersi a vicenda, di raccontarsi e sentirsi creduti, di riflettere e condividere le strategie comuni, le cose che desideriamo e quelle di cui abbiamo bisogno per stare bene. Si tratta di riuscire a dare spazio alla vita psichica come terreno pienamente politico, e viceversa di praticare la politica come dimensione resa viva dalle nostre esperienze vissute, emotive, psicologiche. Un prendersi cura che si riappropri del potere sulle nostre vite: il potere di averne cura collettivamente. E se fosse questa una delle scintille per la creazione del vero «stato di eccezione»?
*Dario Firenze è un educatore precario e psicologo in formazione, membro del laboratorio di psicologia clinica He.Co.Psy. all’Università di Milano-Bicocca, attivista dello spazio di mutuo soccorso Ri-Make e della rete FuoriMercato.
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