
Le prime mosse: per la guerra e contro il lavoro
L’analisi dei primi ordini esecutivi di Donald Trump smentiscono l’idea che sia un presidente per la pace e un populista filo-working class
Lunedì 20 gennaio era, per quanto fosse difficile ricordarsene, il Martin Luther King Jr Day. Un numero enorme di scuole in tutto il paese erano chiuse o avevano assemblee in cui gli studenti ascoltavano la vita e le conquiste del martire in lotta per i diritti civili.
Era anche il primo giorno della seconda amministrazione di Donald Trump, e Trump ha firmato un numero senza precedenti (ventisei) di ordini esecutivi. Alcuni semplicemente ridicoli, come cambiare il nome del Golfo del Messico in «Golfo d’America». Altri molto più minacciosi, come l’ordine che impone il ricorso molto maggiore alla pena di morte.
Il peggiore di tutti è il tentativo di negare la cittadinanza alle persone nate negli Stati uniti i cui genitori non sono cittadini statunitensi. Sebbene non si tratti di un gruppo omogeneo, una larga maggioranza è presumibilmente composta da figli di persone provenienti dal Messico e dall’America centrale, da cui proviene la lunga ostilità alla cittadinanza «per diritto di nascita» da parte dei falchi dell’immigrazione che cercano di ridurre questa popolazione.
Il terreno legale su cui si basa Trump su questo tema difficilmente potrebbe essere più instabile. La prima frase del 14° Emendamento della Costituzione americana afferma senza mezzi termini che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati uniti e soggette alla loro giurisdizione sono cittadini degli Stati uniti e dello Stato in cui risiedono». Sembra abbastanza chiaro.
La Casa Bianca sta cercando di trovare un margine di manovra legale all’interno della frase «soggetto alla sua giurisdizione», ma la cosa non ha senso a prima vista (e contraddice più di un secolo di coerenti precedenti legali). Non è che gli immigrati che non sono cittadini o i loro figli nati negli Usa abbiano l’immunità diplomatica. Un immigrato messicano, con o senza carta verde, accusato di un crimine non correlato all’immigrazione negli Stati uniti sarà sicuramente trattato dalla polizia e dai tribunali come «soggetto alla sua giurisdizione». Se Trump ottenesse ciò che vuole e i circa 150.000 bambini nati negli Usa da genitori non cittadini ogni anno venissero privati della cittadinanza, nulla cambierebbe su questo fronte.
I tribunali quasi certamente stroncheranno questo tentativo di modificare totalmente il significato del XIV emendamento con un decreto presidenziale. Infatti, martedì, ventidue Stati hanno fatto causa al presidente (in due cause separate) per bloccare l’ordine esecutivo. Ma quel che dice di più degli orrendi piani della Casa Bianca di Trump per i prossimi quattro anni è che uno dei primi atti del neo-insediato presidente sia stato quello di celebrare il Martin Luther King Jr Day tentando di togliere la cittadinanza a milioni di membri di un gruppo di minoranza razziale ed etnica.
Una visione cupa
I difensori di Trump spesso lo dipingono come (a) un «anti-interventista» in politica estera e (b) un «populista» economico che si schiera con la working class (o almeno con la parte non immigrata della classe lavoratrice) contro le «élite». Il suo curriculum durante i primi anni in carica è difficile da conciliare con entrambe le parti del quadro, ma molti osservatori sembrano illudersi che questa volta sarà diverso. Gli ordini esecutivi del primo giorno dovrebbero mandare in frantumi questa fantasia in un milione di pezzi.
Uno degli executive orders autorizza l’uso interno dell’esercito per fermare «l’invasione» di immigrati che attraversano illegalmente il confine tra Stati uniti e Messico (sebbene tali attraversamenti siano recentemente scesi al minimo degli ultimi quattro anni). Ancora più minacciosamente, un altro «ordine» designa i cartelli della droga messicani come «organizzazioni terroristiche straniere». Ciò potrebbe preparare il terreno per quel tipo di intervento militare in Messico che Trump ha a lungo immaginato sia in privato che in pubblico. Molti dei sostenitori più ferventi di Trump nell’«ala Maga» del movimento conservatore puntano molto a differenziarsi dai «neocon» e affermano di aver imparato dalle guerre disastrose di George W. Bush in Medio Oriente. Eppure qui, tra un coro di applausi, c’è un presidente che rievoca il modello dell’era Bush: agitare la parola magica «terrorismo» per aprire la porta all’avventurismo militare.
Un altro ordine esecutivo ha annullato le sanzioni di Joe Biden ai coloni israeliani più violenti in Cisgiordania, che quindi non vengono definiti «terroristi» nonostante i loro attacchi violenti e politicamente motivati contro i civili. E sembrerebbe anche, dalle prime indiscrezioni, che Trump stia cercando gli appigli legali giusti per mantenere la promessa della campagna elettorale di deportare gli studenti stranieri che hanno partecipato alle proteste contro la guerra mentre Israele ha sistematicamente cacciato milioni di abitanti di Gaza dalle loro case e ucciso più bambini in quel piccolo territorio di quanti ne fossero morti in tutte le zone di guerra del mondo negli anni precedenti.
Ancora, Trump ha ripristinato l’assurda designazione di Cuba come «stato sponsor del terrorismo», che Biden aveva revocato alla fine del mandato. Nessuno si è preoccupato di spiegare di cosa sia responsabile Cuba, ma non è necessaria alcuna spiegazione. Come il suo discorso di insediamento sulla riconquista del Canale di Panama e la nomina del super-aggressivo Marco Rubio a Segretario di Stato, è un segno che Trump ha intenzione di perseguire ferocemente il predominio americano sulla storica «sfera di influenza» in America latina.
Se gli ordini esecutivi smentiscono beffardamente l’idea di un «Trump colomba», lo stesso vale per il «Trump il populista pro-working class». Gli Usa sono l’unico paese nel mondo sviluppato, e uno dei pochi, che non impone ai datori di lavoro l’obbligo di almeno un giorno di ferie retribuite. Il nostro regime di leggi sul lavoro è, secondo gli standard globali, stranamente sfavorevole ai lavoratori e alle lavoratrici che cercano di unirsi e organizzarsi per salari e condizioni di lavoro migliori, e di conseguenza abbiamo un tasso incredibilmente basso di sindacalizzazione nel settore privato. Ma l’unico ordine esecutivo della bella pila trumpiana palesemente correlato al lavoro è quello di… costringere i dipendenti federali che usufruiscono dello smart working di tornare a tempo pieno in ufficio.
Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo e uno dei più stretti collaboratori di Trump, ha esultato sulla propria piattaforma di social media dicendo che si tratta di «equità», poiché alla maggior parte dei lavoratori del settore privato (anche quelli le cui mansioni potrebbero essere facilmente svolte da remoto) non è consentito il telelavoro. Il pensiero che l’equità possa essere raggiunta dando di più ai lavoratori del settore privato anziché di meno ai lavoratori del settore pubblico è presumibilmente impensabile per Musk. «Equità», a quanto pare, significa un presidente miliardario che torchia le persone che devono effettivamente lavorare per vivere.
Se questi ventisei ordini esecutivi sono una buona indicazione di ciò che accadrà, e non c’è motivo di pensare il contrario, ci aspettano quattro anni difficili.
*Ben Burgis è un editorialista di Jacobin, professore associato di filosofia alla Rutgers University e conduttore dello show e podcast di YouTube Give Them An Argument. È autore di diversi libri, il più recente dei quali è Christopher Hitchens: What He Got Right, How He Went Wrong, and Why He Still Matters. Questo articolo è uscito su Jacobin Mag, la traduzione è a cura della redazione.
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