Le scelte fallimentari del Partito democratico
Un filo rosso porta dall'esclusione di Sanders alla sconfitta di oggi, dagli errori di Hillary Clinton alla strategia perdente di Kamala Harris
Qui a Filadelfia nel luglio del 2016, all’interno dello stadio che ospitava la Convention Democratica, l’élite del partito e diversi pezzi da novanta dello showbiz onoravano Hillary Clinton. I superdelegati ribaltavano o modificavano il voto popolare di alcuni Stati in cui Hillary aveva perso o era più o meno in parità con il suo avversario alle primarie Bernie Sanders; i delegati di quest’ultimo si vedevano negare la parola e quando lasciavano gli spalti per protesta venivano sostituiti con dei figuranti in modo che nelle riprese televisive non si vedessero settori stranamente vuoti.
Per la strada invece migliaia di persone provenienti da tutti gli Stati uniti manifestavano pacificamente, ignorati dai media mainstream ma con un incredibile schieramento poliziesco, inneggiando alla Political Revolution di Sanders e denunciando «la morte della democrazia» per mano Democratica. Come recitavano tanti cartelli, già allora quella peculiarità antidemocratica – che il partito avrebbe assunto in maniera sempre maggiore negli anni a venire, con investimenti milionari da capogiro di corporation e della lobby sionista Aipac, per contrastare l’espansione dell’ala progressista del partito nata dal quel movimento – non era più solo un’illazione di facinorosi di estrema sinistra. Era una verità testimoniata due giorni prima dell’inizio della Convention dalle email rilasciate da Wikileaks, che palesavano inconfutabilmente la collusione tra il Comitato Democratico Nazionale e la campagna di Hillary Clinton per organizzare ogni tipo di imbroglio ai danni di Sanders. I media cosiddetti liberal ne dovettero dare informazione ma, tralasciando i contenuti, spostarono la questione su quelle ingerenze russe che per due anni avrebbero tenuto banco come Russiagate.
Oggi Hillary e Kamala non sono accomunate solo dalla bruciante sconfitta inflitta loro da Donald Trump, ma anche da un percorso di scelte fallimentari. E se per Hillary può esserci la scusante della «prima volta» contro un uomo talmente eccessivo e carismatico, per Kamala c’è l’aggravante della ripetizione di molti errori di un partito che dai suoi sbagli non impara mai. Anzi gli errori li amplifica, raggiungendo livelli cui nemmeno Hillary era arrivata. Come ad esempio la scelta di Liz Cheney in qualità di compagna di eventi, cosa impossibile nel 2016 quando Liz era trumpiana, o come l’elogio che Kamala ha rivolto a Dick Cheney per i servizi resi alla nazione da vicepresidente durante l’amministrazione di george W. Bush, la cui storia è stata ben raccontata nel film Vice – l’uomo nell’ombra (2018) di Adam Mc Kay. Hillary si era limitata a dare retta a Chuck Schumer, senatore Democratico moderato, secondo il quale per ogni blue collar che si perdeva in Pennsylvania, si sarebbero acquisite tre o quattro persone nelle fasce più colte dei sobborghi e la stessa cosa si sarebbe ripetuta anche negli altri Stati della rust bell o blue wall, il Wisconsin e il Michigan. Come Kamala oggi, anche Hillary perse quegli Stati che Bernie Sanders avrebbe invece potuto conquistare.
l Result Watch Party organizzato dal Working Family Party allo Sheraton Downtown Hotel di Philadelphia incontriamo Prem Thakker, giornalista di diverse testate tra cui The Intercept, The American Prospect e della recente piattaforma Zeteonews
È solo mezzanotte e venti, ma a dispetto del fatto che tutti i sondaggisti prevedevano una competizione talmente sul filo del rasoio che i conteggi e riconteggi sarebbero andati avanti per giorni, i giochi sembrano praticamente fatti e in modo diverso rispetto alla quasi parità preannunciata. Che cosa è successo?
Ci sono molte motivazioni ideologiche fondate e un groviglio di elementi diversi che hanno concorso alla sconfitta di Harris. Ma c’è anche un aspetto più ampio da considerare, vale a dire la tendenza globale che penalizza i partiti che hanno governato nel periodo dell’inflazione post pandemica, indipendentemente dall’ideologia o dall’appartenenza. È un aspetto strutturale che credo abbia avuto il suo peso, dato che quest’anno l’economia è al primo posto nella graduatoria delle considerazioni e delle preoccupazioni degli elettori. Poiché in America Biden è stato associato all’inflazione, Kamala Harris avrebbe dovuto fare in modo di distanziarsi da lui anche solo dal punto di vista retorico, ma non l’ha fatto. Anzi in alcune interviste ha persino detto che non avrebbe cambiato nulla della sua esperienza da vicepresidente. E poi ci sono naturalmente tutte le altre cose: il supporto incondizionato per Israele nella guerra di Gaza; l’avere elevato Liz Cheney a un ruolo così alto durante la campagna a discapito di altri; il modo in cui si è comportata con i delegati uncommitted ai quali altro non ha fatto che gettare un osso; l’aver mandato Bill Clinton in Michigan a parlare come se stesse dando lezioni alle persone che erano in lutto per i loro familiari uccisi in Palestina.
Anche Obama ha dato qualche strigliata agli uomini della comunità afroamericana, che sarebbero poco inclini ad accettare una donna come presidente. È anche vero però che quando all’evento di Kamala ho chiesto a un uomo afroamericano di una sessantina d’anni se si sentisse offeso dalle parole di Obama, mi ha risposto di no, che Obama ha fatto bene perché le persone vanno fatte ragionare ed è ora che una donna diventi presidente.
Mi sembra un uomo saggio, ma anche un esempio tipico di come i personaggi come Obama o Clinton che pretendono di educare gli elettori possono funzionare solo con persone già definitivamente schierate dalla parte del ticket presidenziale. Ma per allargare il voto devi convincere le persone più scettiche e la tattica usata da Obama e Clinton non è il modo migliore per riuscirci, soprattutto se si tratta di elettori ormai disincantati, delusi e lontani dal partito. C’è una lunga lista di cose sbagliate che si dovevano evitare ma che sono state fatte ed è questo complicato insieme di cose che ha portato a un’altra vittoria di Trump. Diciamo comunque che la spiegazione più semplice è il fatto che molta gente associa Kamala a Biden che, a torto o ragione, è estremamente impopolare.
Parlando con molte persone dei Democratici ne ho ascoltate diverse che in buona fede ripetevano le idee standardizzate della propaganda, che mostra Kamala come la panacea di tutti i mali sociali, dal ripristino dei diritti riproduttivi delle donne alla riunificazione del popolo americano mai così diviso come oggi. Quando Oprah Winfrey dal palco ha incitato la folla ripetendo tre volte enfaticamente «Yes she can», la gente era esaltata come ai tempi di Obama, dimostrando di non aver capito o di essersi completamente dimenticata che l’elezione di Trump nel 2016 era stata proprio una reazione alla politica di Obama che si sarebbe prolungata con Hillary..
Come ai tempi di Hillary, gli strateghi e i consulenti politici hanno ancora una volta insistito sul fatto che spingere verso destra prima delle elezioni sia un modo infallibile per vincere, quando invece questa strategia si è più volte dimostrata debole o addirittura fallimentare. Non dico che non ci siano state volte in cui abbia funzionato, ma nel migliore dei casi si è trattato di pura casualità, mentre nel peggiore, verificatosi proprio con la doppia sconfitta in un decennio da parte di Donald Trump, la teoria si è dimostrata completamente sbagliata e controproducente.
In entrambi i casi, seppure in modi differenti, c’è stato il rifiuto di puntare su ideali di sinistra. Il 2016 lo ha mostrato più chiaramente con l’appoggio del partito a Hillary Clinton e il rifiuto di Bernie Sanders. Nel 2024 è stato meno esplicito perché è passato tanto tempo, ma c’è stato, come dimostra per esempio la scomparsa di istanze sociali come il Medicare for All.
Però capitano anche momenti ricorrenti in cui gli elettori Democratici possono trovarsi d’accordo con le idee Repubblicane, come succede oggi in merito all’inflazione e all’immigrazione. E siccome non vedono una chiara opposizione nel loro partito ma solo un riflesso delle idee Repubblicane, si chiedono «perché votare per la versione dietetica quando si può avere l’originale?». E i voti passano al Partito repubblicano. Certamente è un momento molto cupo per i Democratici, e ci saranno molte riflessioni da fare perché molta gente se la prenderà parecchio per il fatto che questa corsa presidenziale non sarebbe dovuta finire così, considerato tutto quello che Trump rappresenta, e considerati i molti modi in cui si sarebbe potuto vincere. Ci saranno tante riflessioni da fare che coinvolgeranno la base democratica e tutti gli impiegati e i volontari che vorranno rimodellare la loro relazione con un partito che non li ascolta.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders.
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