
Le utopie reali di Erik Olin Wright
Si è spento il sociologo marxista statunitense, attento studioso della stratificazione di classe e costantemente impegnato a cercare nelle utopie concrete del nostro tempo un'alternativa al capitalismo
È morto ieri all’età di 72 anni Erik Olin Wright, per oltre quarant’anni una delle voci più autorevoli del marxismo a livello internazionale. Per ricordarlo abbiamo tradotto il suo ultimo messaggio, pubblicato sul suo blog personale pochi giorni fa, e ripubblichiamo un’intervista di Marta Fana e Lorenzo Zamponi sull’alternativa al capitalismo realizzata un anno e mezzo fa in occasione del suo ultimo viaggio in Italia.
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Clarifying my final weeks
[…] Quindi, cari amici, quello che abbiamo saputo per un po’ sarebbe accaduto, sta accadendo. Mi resta un tempo molto limitato in questa meravigliosa forma di polvere stellare di cui ho parlato negli ultimi mesi. Non sento alcun timore. Voglio assicurarvi che non ho paura. Sembra meschino lamentarsi dell’eventuale dissipazione della mia polvere di stelle nella polvere di stelle del cosmo dopo aver vissuto 72 anni in questa straordinaria forma di esistenza che poche molecole nell’intero universo hanno la fortuna di sperimentare. In effetti, persino usare la parola esperienza rispetto alla mia polvere di stelle è sorprendente. Gli atomi non hanno esperienze. Sono solo roba. Tutto ciò che sono in realtà è roba. Ma roba organizzata in maniera così complessa, attraverso diverse soglie di complessità, che è in grado di riflettere sul suo essere roba e su quanto sia stato straordinario essere vivi e consapevoli di essere vivi e consapevoli di essere consapevoli di essere vivi. E da quella complessità viene l’amore, la bellezza e il significato che costituisce la vita che ho vissuto. E per di più, sono in questo angolo massicciamente privilegiato di questa roba umana che è riuscito contro ogni probabilità a non vivere una vita di paura e sofferenza provocate dalle crudeltà della nostra civiltà, che non ha mai provato la paura della fame, la paura dell’insicurezza fisica dove ho abitato, che ha avuto le risorse per crescere la mia meravigliosa famiglia, i miei figli, in un ambiente in cui penso che anche loro abbiano sentito la sicurezza fisica e le cose di base che servono per prosperare. Questo è quanto. Sono stato tra le più avvantaggiate, privilegiate, dite come volete, polveri di stelle in questo universo immensamente enorme per 72 anni. E così finirà. Ma lo sapevo, almeno dall’età di 6 anni. Accade qualche anno prima di quanto avessi sperato, ma non mi lamento. Non mi lamento. E per di più, per portare avanti questa fantasticheria un po’ più a lungo, credo intorno ai vent’anni, ho deciso di approfittare di questo straordinario privilegio che avevo, per non vivere una vita di autogratificazione ma per creare un significato per me stesso e gli altri cercando di rendere il mondo un posto migliore. Il modo particolare in cui l’ho fatto, naturalmente, è legato storicamente alle correnti intellettuali e alle turbolenze della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta. Non penso che per questo dovrebbe essere interpretato come un semplice effetto di quel momento storico. Penso che il mio ostinato tentativo di rivitalizzare la tradizione marxista e renderla più profondamente rilevante per la giustizia sociale e la trasformazione sociale di oggi sia fondato su una comprensione scientificamente valida di come il mondo effettivamente funziona. Ma senza essere inserito in un contesto sociale in cui quelle idee erano discusse e collegate in modo a volte sensato e a volte fuorviante ai movimenti sociali, non sarei mai stato in grado di perseguire questo particolare insieme di idee. Ma ho avuto quest’opportunità, e ciò ha fatto in modo che avessi una vita personale incredibilmente significativa e intellettualmente emozionante. Quindi non mi lamento. Morirò tra qualche settimana. Non felice di morire, ma profondamente felice della vita che ho vissuto e della vita che ho potuto condividere con voi. […]
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Secondo l’ultimo rapporto Istat, la classe operaia in Italia è morta. Lei pensa che sia così? La classe operaia è morta, nel XXI secolo?
Molto dipende da ciò che si intende per “la classe operaia”. Ci sono modi di definire la classe operaia secondo cui effettivamente è in declino in termini di percentuale della popolazione. Se si definisce la classe operaia come i lavoratori manuali dell’industria, allora la classe operaia è indubitabilmente in calo in termini di numeri, e forse lo è al punto che la sua morte può essere annunciata dal vostro istituto di statistica. Ma quella è una definizione particolare della classe operaia in un’economia capitalistica. A meno che non si sia pronti ad ammettere che il capitalismo non esiste più, in Italia, e immagino che molti qui preferiscano celebrare il capitalismo piuttosto che dire che ha smesso di esistere, allora, finché esiste il capitalismo, è incoerente dire che non esiste più la classe operaia. Cosa intendo? Tutto dipende da cosa intendiamo quando parliamo di classe. Penso che nella tradizione marxiana la classe sia un tipo particolare di relazione sociale. Non riguarda il tipo di occupazione, riguarda il tipo di relazione sociale in cui ti trovi nella struttura economica. Come definiamo e capiamo questa relazione sociale? Per questo ho recentemente sviluppato un nuovo modo di parlare di questa questione, che aiuta a distinguere diverse tradizioni di analisi di classe. Per semplificare, posso dire che in tutte le strutture economiche, gli aspetti chiave che definiscono le relazioni sociali sono i rapporti di potere. In una struttura economica, i rapporti di potere sono basati sul tipo di risorse che possiedi e controlli. Se viviamo in un’economia capitalistica, ciò significa che i rapporti sociali di base nell’economia sono fondati sulla ricchezza, sulla proprietà. Questa è l’economia basata sull’impresa privata: ha al centro la proprietà privata del capitale. Non mi sembra che quelli privi del potere del capitale siano scomparsi. Non mi sembra che tutti in Italia oggi siano capitalisti. Se non tutti sono capitalisti, allora ci sono persone che sono dominate dal capitale: quella è la classe operaia, al livello dell’analisi del capitalismo.
Se esiste ancora, in che forme esiste? Com’è cambiata, la classe operaia?
È molto più atomizzata. La classica idea della classe operaia non era basata solo sul fatto che è dominata dal capitale, ma anche sul fatto che fosse omogenea nelle proprie condizioni di vita. Tutti quelli che erano dominati dal capitale avevano più o meno le stesse condizioni di vita [dentro e fuori la fabbrica], c’era omogeneità, e c’era un elemento collettivo: quelli che erano dominati dal capitale erano aggregati in grandi unità di produzione. Le classiche immagini delle grande fabbriche. Il capitalismo non funziona più così. Le condizioni materiali di vita sono molto differenziate all’interno di quelli che sono dominati dal capitale, e questi tendono a essere subordinati in luoghi di lavoro molto frammentati, piuttosto che in grandi luoghi di lavoro unificanti. Quindi abbiamo una classe operaia che è più eterogenea e frammentata. È una classe operaia diversa, sicuramente.
In che modo questi cambiamenti impattano sull’azione collettiva e sulla prospettiva di un cambiamento politico?
Rendono la traduzione degli interessi dei lavoratori in un’identità dei lavoratori più difficile. Nel periodo classico dei concetti di classe e di capitalismo, la traduzione degli interessi in identità avveniva in maniera relativamente facile. È sempre stato un problema, ma era affrontabile in maniera piuttosto immediata. L’omogeneità e l’aggregazione costruivano questa connessione nella vita delle persone, che vedevano la connessione tra i propri interessi e la risposta alla domanda “Chi sei?”, cioè l’identità. Oggi è più difficile per la gente rispondere a questa domanda. Vedono ancora il capitalismo come un problema serio, molte persone hanno ben chiaro che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici. Le persone riconoscono tutti questi problemi e li attribuiscono correttamente a potere del capitale, ma non traducono ciò nella propria identità. E questo è un problema, perché danneggia l’azione collettiva.
C’è sicuramente questa frammentazione sia in termini di produzione, ad esempio tra lavoratori della logistica e precari cognitivi, nella stessa unità di produzione, ma c’è anche una frammentazione identitaria, anche in termini razziali. Ad esempio, i lavoratori della logistica in Italia sono in gran parte immigrati, per loro il lavoro ha ancora un forte valore identitario, perché si connette ai diritti civili e politici, mentre se si pensa a giovani italiani la questione è più complessa. Qual è la strategia per riunificare la classe?
Penso che il primo compito sia far capire alla gente in maniera più profonda la natura del problema: il problema si basa sui rapporti di potere del capitalismo. Anche se questi rapporti di potere producono conseguenze diverse per diversi gruppi sociali, queste conseguenze derivano dallo stesso problema: i rapporti di potere del capitalismo. È in questo senso che sostengo che un progetto di democratizzazione sia in grado di unificare le persone. Perché se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, allora rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione. E questa parte della soluzione è una cosa che unisce un settore molto vasto di persone, che non necessariamente condividono la stessa esperienza di impoverimento o di difficoltà, che hanno diverse esperienze di sofferenza, ma le cui esperienze sono tutte connesse a questo problema di una società in cui potere è sempre più concentrato. Ed è più elusivo. Il potere oggi è più difficile da limitare, a causa della globalizzazione e della finanziarizzazione del capitale. Il primo compito quindi è quello del riconoscimento, della demistificazione del problema, in modo che la gente riconosca ciò che ha in comune. E poi emergono due questioni. La prima è quella della riforma democratica: quali sono le politiche che possono estendere la democrazia nell’economia e nella società civile? Come creiamo una società democratica? E la seconda è quella economica: come creiamo le condizioni per una vita economica che sia più geograficamente radicata, nei territori, invece di essere globalmente mobile. L’Italia è un caso interessante, perché l’Italia ha una lunga tradizione di cooperative, che per natura sono geograficamente radicate, anche se le cooperative sono state completamente integrate nel sistema capitalistico, e forse non sono più vere cooperative. In ogni caso, anche se queste cooperative sono ormai estremamente orientate al mercato e si comportano in gran parte come aziende private, il tema di come il movimento cooperativo e la forma cooperativa in Italia possono essere rivitalizzate come un’esperienza di vita economica democratica e di come possono essere estese a forme più partecipate di cooperazione, e quindi cooperative di lavoratori invece che di consumo o di credito, è davvero centrale.
Ciò che sta dicendo è che sia sul piano politico sia sul piano economico la chiave è la battaglia per la democratizzazione, il cambiamento dei rapporti di potere. Crede che questo potrebbe creare le condizioni per la transizione a una società post-capitalistica?
L’espressione “transizione” implica che ci sia uno scenario con un orizzonte relativamente a breve termine. Preferisco parlare di “processo”, con un orizzonte temporale imprecisato, ma che punta nella giusta direzione, che abbia dinamiche che generino nel tempo più solidarietà e non meno, più democrazia e non meno, più uguaglianze e non meno. Il termine “transizione” tende a dare l’idea che ciò possa avvenire in un lasso di tempo breve, e credo che invece ci dobbiamo immaginare un processo di erosione, questo è il termine geologico che uso: un processo che eroda il capitalismo.
Gramsci l’avrebbe chiamata “guerra di posizione”.
Sì, anche se la guerra di posizione di Gramsci non si basava primariamente sulla costruzione di istituzioni economiche alternative, era un concetto primariamente politico.
Calando questa proposta nel contesto italiano, si pone il problema di come realizzare questo processo di democratizzazione all’interno dell’Unione Europea. Non c’è solo la globalizzazione, c’è anche un organizzazione sovranazionale con regole che non sono solo capitalistiche ma proprio neoliberiste. È possibile secondo lei dare vita a questo processo di alternativa all’interno di questo contesto di governance?
Non c’è una ragione intrinseca per cui uno stato europeo debba essere neoliberista. Lo è, perché questi sono i termini in cui il capitalismo ha forgiato questa istituzione politica transnazionale, ma penso che il progetto di democratizzare il quasi-stato europeo, rendendolo un’istituzione che abbia più capacità e non meno, ma in maniera subordinata alla democrazia, debba essere parte del progetto di democratizzazione più generale. Uscire dall’Europa renderebbe le cose ancora peggiori: non c’è ragione per cui, all’interno di stati sovrani di medie dimensioni che, dipenderebbero comunque dall’integrazione economica con altri stati, altre società e altre economie, ci sarebbe una maggiore capacità di controllare il capitalismo. Avremmo più possibilità di controllare il capitalismo se democratizzassimo l’Unione Europea che se semplicemente democratizzassimo gli stati membri e ci liberassimo dell’UE. Abbiamo bisogno di istituzioni politiche sovranazionali che rispondano democraticamente alle persone per risolvere davvero il problema di come limitare il potere del capitalismo.
Parlando di globalizzazione, che relazione c’è, oggi, tra le lotte nel mondo occidentale e quelle sul piano globale? Se la classe operaia è cambiata, ci sono condizioni differenti, ci sono anche dimensioni differenti della classe in contesti diversi, ci sono potenze emergenti nel mercato globale, non crede che in qualche modo l’iniziativa politica della classe operaia debba situarsi fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti?
È possibile, ma non vedo nessuna ragione particolare per cui una parte del sistema globale debba essere privilegiata sulle altre. Credo che ci si debba concentrare sulle interdipendenze e sui modi in cui le lotte in un posto possono facilitare le lotte da un’altra parte, piuttosto che immaginare che la trasformazione verso un nuovo ordine democratico debba venire dalle potenze economiche emergenti come la Cina. Non mi sento in grado di prevedere dove sia più probabile che avvengano i futuri avanzamenti della democrazia, se avverranno. I miei ragionamenti sulla strategia non sono predizioni, sono discussioni sui corsi d’azione che hanno le maggiori probabilità di fare la differenza. Quanto sono convinto che queste strategie avranno successo? Se dovessi scommettere la mia casa e l’eredità per i miei figli, scommetterei sul fatto che nei prossimi 25 anni avremo una svolta democratica in grado di subordinare il capitalismo e di permettere a forme alternative al capitalismo di svilupparsi dinamicamente, o prevedrei una continuazione del capitalismo con diseguaglianze più profonde, crisi e una diminuzione della democrazia? Probabilmente scommetterei sulla seconda opzione. È la più probabile, ma non è inevitabile. Il pessimismo è facile, non richiede alcun lavoro intellettuale. Ci vuole un sacco di serio lavoro intellettuale, invece, per trovare fonti di ottimismo.
Se le filiere sono dominate dalla globalizzazione, perché non ripartire da quegli strati della classe operaia, come i lavoratori della logistica, a livello globale. Di fatto se si ferma la logistica oggi il sistema viene letteralmente bloccato. L’unità di classe in questo caso va considerata nell’azione in termini internazionali?
Bisogna cominciare da qualche parte. L’idea che non si possa trasformare nessun luogo finché non li si sono trasformati tutti è una ricetta per non trasformare nulla. Questo chiaramente è più importante se si pensa alla trasformazione come rottura: giovedì avremo un’isola felice in Italia, e poi potremo provare ad avere un mondo felice domenica. Questa è la logica della rottura, non quella del processo. Se pensiamo al processo, il punto è dove cominciare a cambiare le dinamiche dello sviluppo, nella direzione di quella che chiamo erosione del capitalismo, perché questo è il meglio che possiamo fare. Qualche volte le politiche rilevanti possono essere locali, non nazionali. Ci sono cose che possono accadere nei comuni. Ad esempio, gli spazi pubblici, per facilitare l’iniziativa collettiva per nuove forme di attività economica. Questo è un tema locale in molti paesi. Ci sono posti in cui ci sono fabbriche abbandonante, per via della deindustrializzazione: quelli sono spazi sprecati, non utilizzati. Questi spazi potrebbero essere trasformati in spazi per makers, per progetti collettivi, compresi progetti di auto-organizzazione per l’economia solidale e sociale, per le cooperative. Queste cose quando vengono fatte creano delle dinamiche, perché coinvolgono le persone nell’immaginare e nel creare alternative e democrazia. Queste sono cose che le persone possono fare come parte della propria vita in un determinato territorio. E anche se sarà una piccola parte dell’azione che va verso l’alternativa, sarà comunque un passo avanti. Ci potranno essere momenti storici, per colpa di una crisi, o di cambiamenti ideologici o politici, in cui quelle iniziative possono essere portate a livello globale, in cui si può pensare a ridisegnare i trattati commerciali globali, a mettere una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie transnazionali, ci potranno essere opportunità per mettere limiti al capitale globale, facilitando ulteriori trasformazioni. Ma non penso che dovremmo mettere tutte le nostre energie, dal punto di vista strategico, nei temi globali, perché sono ovviamente i più importanti, in termini di danno, ma raramente sono i migliori obiettivi. Gli obiettivi locali possono essere più vulnerabili.
La strategia di erosione del capitalismo che lei propone ha al centro la democrazia, con l’idea che se si riesce a rendere il capitalismo subordinato alla democrazia, si creano le condizioni per sviluppare alternative al capitalismo. Tradizionalmente, la forma di espressione della democrazia nell’era moderna è stata lo stato. Sta proponendo che per democratizzare l’economia dobbiamo lavorare per un nuovo ruolo dello stato nell’economia, o sta immaginando forme di democrazie che non sono basate sulle istituzioni rappresentative?
Penso a entrambe le cose. Abbiamo bisogno di uno stato più forte, con maggiore capacità democratica per intervenire nell’economia, perché abbiamo bisogno di un modo per controllare le esternalità negative della produzione capitalistica e per proteggere meglio i beni comuni. Tutte cose per cui c’è bisogno dello stato. Ma abbiamo bisogno anche di democrazia fuori dallo stato: abbiamo bisogno di democratizzare i luoghi di lavoro, di creare nuovi processi democratici anche all’interno di imprese capitalistiche, trasformandole in ibridi che sono capitalistici per certi aspetti e democratici per altri. Abbiamo bisogno anche di democratizzare la società, non solo l’economia e lo stato. Dobbiamo democratizzare la vita associativa delle comunità. Le tendenze all’esclusione che esistono nella società civile devono essere combattute. Questa è una battaglia molto difficile, perché alcune forme di esclusione sembrano così naturali da essere organiche alla vita delle persone. Penso alla maniera in cui le tradizioni religiose, ad esempio, creano insider e outsider, i salvati e i dannati, tutte queste barriere che impediscono il riconoscimento nella società civile. È piuttosto difficile combatterle, e in certe aree del mondo sono di fatto il problema principale, quando le pratiche di esclusione che sono costruite sulle tradizioni religiose diventano la fonte del dominio più violento.
Restando allo stato, Poulantzas lo descriveva come l’espressione dell’élite dominante, una riproduzione dei rapporti di forza presenti in quelli di produzione. È possibile riproporre il tema del governo come faceva la tradizione socialdemocratica europea, quando sono di fatto le élite finanziare a comandare?
Se fosse vero che lo stato non è niente di più che l’espressione del potere della classe dominante, se questa non fosse solo un’approssimazione ma tutta la storia, se lo stato fosse un’espressione senza contraddizioni interne e totalizzante del potere della frazione dominante della classe dominante, allora non avrebbe alcun senso battersi per uno stato democratico, perché la democraticità dello stato sarebbe un’illusione. Qualche volta sembra Poulantzas dica quello, che tutto ciò che sembra democratico sia solo un’illusione per disorganizzare la classe operaia. In questo senso lo stato non sarebbe solo uno stato capitalistico, sarebbe uno stato puramente capitalistico. Bene, io non penso che questa sia una teoria dello stato soddisfacente. Penso che lo stato sia un assemblaggio ben più complicato e più contraddittorio. Penso che sia un ecosistema, uso questa metafora, che ha i suoi problemi ma che mi sembra funzioni meglio rispetto all’idea dello stato come un organismo, una totalità che esprime pienamente un interesse unificato. No, lo stato è un’incarnazione contraddittoria delle forze della società, e la componente democratica dello stato è un elemento profondamente contraddittorio all’interno dello stato stesso. Per questo penso che la lotta per rendere più profonda la democrazia nello stato sia sempre problematica, mai facile, ma quando ha successo intensifica questo carattere contraddittorio dello stato e crea aperture. Qualche volta avviene per temi regionali, articolando il conflitto tra locale e nazionale, qualche volta è una componente dello stato nazionale, due ministeri che non collaborano. Non possiamo schioccare le dita e trasformare lo stato in qualcosa di diverso. Se adottiamo la disperazione anarchica e decidiamo che quella nello stato è una battaglia senza speranza e va evitata, per limitarsi a costruire le alternative, credo che si produca solo marginalizzazione. Dall’altra parte c’è l’illusione della sinistra liberal di credere che lo stato sia uno strumento neutro: neanche quella funziona. Bisogna vivere le contraddizioni e muoversi al loro interno.
Ci sono stati diversi sondaggi sulla popolarità del socialismo tra i millennials negli Stati Uniti e inchieste simili segnalano la crescita della quota di giovani britannici che si considerano contrari al capitalismo. Pensa che ci sia un’ondata di anticapitalismo in crescita?
Penso di sì. Penso che molti giovani si riconoscano nello slogan del poster per la vostra serie di incontri, “Il capitalismo non funziona. Un altro mondo è possibile”. Hanno vissuto la crisi del 2008-2010, hanno visto le cose insensate che i politici e le élite dicevano, hanno visto le cose cambiare ben poco, in termini di priorità. Capiscono un fatto bizzarro: anche in mezzo a questa crisi, le società europee sono più ricche di 30 anni fa. Sono società ricche. E quindi come può essere che la precarietà, l’insicurezza, l’ansia aumentino, con tutta la ricchezza della società? È folle. Il capitalismo non sta funzionando. Il capitalismo produce innovazione, lo sappiamo, tutti abbiamo uno smartphone e ci fa piacere averlo. Il capitalismo produce tutti questi cambiamenti tecnologici, eppure non funziona, produce sia meraviglie tecnologiche sia la precarietà. È veramente il meglio che possiamo fare? Una risposta possibile è: “Non c’è alternativa”. Io penso che ci sia un’ondata di giovani che dicono: “Forse c’è un’alternativa”. Il problema è il processo per arrivarci. C’è ancora una grande speranza per una rottura: l’idea che se Corbyn avesse vinto, se Mélenchon fosse stato eletto, allora forse avrebbero potuto mettere in atto un’alternativa. Questa è una fantasia. La transizione tra strutture sociali complesse dev’essere il risultato di un processo di trasformazione piuttosto che di un’azione immediata. Uso la metafora dell’erosione perché suggerisce che si metta in moto qualcosa che abbia quell’effetto. E penso a tutti i modi in cui possiamo promuovere la costruzione di alternative, assicurarne le fondamenta in modo che non siano sempre vulnerabili e poi incoraggiare attraverso l’azione collettiva le persone a parteciparvi: questo per me è il modo di pensare a un’alternativa al capitalismo.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.