Le voci escluse dalla Convention di Chicago
Cronaca dei tentativi non riusciti del movimento degli uncommitted palestinesi di influenzare politicamente la Convention del Partito democratico che ha lanciato la campagna di Kamala Harris
Giovedì notte si sono conclusi i quattro giorni della Convention Democratica di Chicago che, dopo essersi liberata già nel primo giorno di Joe Biden con un’umiliante apparizione andata in scena in tarda serata invece che in prime time e con altrettanto umilianti cori osannanti e cartelli sventolanti di «Thank you Joe» e «We love you Joe» a sostanziale ringraziamento non del suo operato ma della sua rinuncia, ha consacrato la nomina del ticket Kamala Harris-Tim Walz all’insegna dei due nuovi termini entrati nella retorica democratica, vibes e joy.
Come per la Dnc del 2016 a Filadelfia – la prima dell’era Trump e per diversi aspetti anche dell’era Sanders – che vedeva l’ormai sfumata contrapposizione tra Hillary Clinton e Bernie Sanders, anche questa volta l’atmosfera era schizofrenica. Mentre nell’United Center andava in scena l’Hollywood party per Kamala simile a quello per Hillary del 2016, al di là delle recinzioni che blindavano lo stadio dei Chicago Bulls e dei Black Hocks e le strade circostanti, migliaia di partecipanti alla pacifica ma sonora protesta della coalizione March on the Dnc – cui come vedremo non ha aderito l’Uncommitted Movement nato in Michigan in febbraio e poi divenuto nazionale – alternavano marce e soste, proprio come otto anni fa avveniva a sostegno di Bernie.
La pandemia non rende possibile un confronto di celebrazioni e contestazioni con la convention prevalentemente virtuale del 2020, quando la nomina di Joe Biden diede il via alla narrativa della sua presidenza: quella secondo cui per battere Donald Trump la gente aveva fortemente voluto Biden, mentre in effetti chi lo aveva fortemente voluto, dopo averlo però snobbato per mesi e mesi, era stato Barack Obama che, in un momento topico delle primarie quando era chiaro che Sanders si stesse avviando verso la maggioranza relativa, intervenne per resuscitare Biden dagli inferi della graduatoria e dei sondaggi, inferi nei quali lo ha invece lasciato di proposito quest’anno fino al colpo di grazia finale per avere la sua rinuncia, ottenuta con l’aiuto di Nancy Pelosi.
Se dunque oggi come allora lo scollamento tra l’esterno e l’interno della Convention, tra la strada e l’istituzione, tra i problemi concreti della vita e la dorata enclave della fiction si è riproposta, questa volta la dolorosa realtà dei 40.000 palestinesi uccisi finora con la complicità del governo statunitense ha reso il contrasto di gran lunga più immorale e vergognoso.
Uno degli episodi più tristi di questa Convention è stato il trattamento riservato alla trentina di delegati dell’Uncommitted National Movement eletti in diversi Stati in rappresentanza di quasi 800.000 elettori Democratici. Guidati dai Layla Elabed e Abbas Alawieth, già leader del gruppo originale del Michigan, gli uncommitted sono stati discriminati in diversi modi, nonostante la decisione, presa in segno di rispetto per il Partito democratico, di non aderire alla coalizione della March on the Dnc, dove spopolavano cartelli in cui «genocide Kamala» appariva insieme a «genocide Joe» e «genocide Blinken». In realtà gli oltre diecimila partecipanti, tra cui molti ebrei americani appartenenti a gruppi come Jewish for Peace fin dall’inizio in sintonia con gli Uncommitted, rappresentavano un ampio spettro di posizioni, dall’assoluto rifiuto del voto per Harris alla possibilità del compromesso per evitare l’elezione di Trump.
Lo schiaffo più irriverente è stato il processo di attesa e negazione di ciò che gli Uncommitted consideravano il minimo indispensabile per un’accoglienza non tanto privilegiata, quanto semplicemente normale per dei delegati Democratici a tutti gli effetti: l’intervento di un palestinese americano dal podio principale dell’arena. La preoccupazione che ha accompagnato le trattative è stata affrontata fin dall’inizio cercando di far prevalere la fiducia e la speranza pur in presenza di quel timore profondo e profetico, difficile da mascherare nel linguaggio del corpo, come palesato ad esempio da Layla Elabad nella breve intervista raccolta lunedì pomeriggio. Alla domanda se la scelta di non partecipare alle proteste dipendesse in parte dalla conversazione avuta con Kamala Harris in occasione del suo rally in Michigan una ventina di giorni prima, Layla ha risposto:
No, non è per quel motivo. Alla March on the Dnc ci sono manifestanti che protestano per i diritti umani e che stanno esercitando il loro diritto di protestare pacificamente e siamo con loro al 100%. Ma noi stiamo cercando di spostare i Democratici agendo dall’interno. La nostra strategia per far muovere il grande tendone democratico consiste nel continuare a usare il nostro sistema elettorale, a usare i delegati uncommitted, così come i delegati di Harris che vogliono vedere un cessate il fuoco permanente e immediato, attraverso un cambiamento politico che ponga fine all’incondizionato flusso di armi a Netanyahu e Israele.
Quanto alla sua fiducia nella vice-presidente Layla non si è sbilanciata: «Abbiamo visto in lei una maggiore empatia nei nostri confronti ma non è abbastanza». Le dimostrazioni di quel «non è abbastanza» – già palesatesi poche ore dopo, quando all’interno dello stadio due delegati uncommitted hanno cercato di dispiegare un banner con la scritta Stop Arming Israel finendo, come mi ha raccontato uno di loro, «presi a bacchettate con le aste dei cartelli di ringraziamento per Biden» per poi venire espulsi – sono piombate come un macigno nella giornata di mercoledì, con la negazione del podio annunciata per telefono da un portavoce interno senza fornire alcuna spiegazione. Con lo strazio nel cuore e il comportamento comunque sempre irreprensibile gli Uncommitted hanno allora dato il via a un sit-in davanti all’ingresso principale dell’arena andato avanti per tutta la notte e per il giorno successivo, l’ultimo della Convention, durante il quale le richieste sono state riproposte.
Poco prima della deadline data dagli Uncommitted per le 18.00 di giovedì e della conseguente conferenza stampa, Abbas Alawieth, provato dalla stanchezza e dall’amarezza ma ancora con un apparente barlume di speranza, ha avuto la gentilezza, tra una telefonata e l’altra, di concedermi una breve intervista nella quale, oltre a sollecitare un approccio diverso da parte del Partito democratico, perché «l’approccio usato finora ha ucciso più di 16.000 bambini e neonati usando le bombe americane», e a dichiarare «la profonda illegalità non solo verso le leggi internazionali ma anche verso la legge americana», ha detto:
Così come noi uncommitted abbiamo apprezzato la presenza sul palco e il messaggio dei coniugi ebreo-americani il cui figlio è ostaggio di Hamas [i coniugi Goldberg-Polin che martedì hanno parlato alla Convention per una decina di minuti a nome di tutte le famiglie degli ostaggi invocando la loro liberazione ma anche un cessate il fuoco per Gaza, Ndr], allo stesso modo speriamo che la Dnc approfitti dell’opportunità di avere anche un palestinese americano che parli dal palco principale. Sarebbe una vera fortuna per tutti, perché nelle nostre comunità abbiamo grandi leader con incredibili visioni e competenze che stanno attraversando un’immensa sofferenza inflittagli qui negli Stati uniti dal loro stesso governo e tutti ci meritiamo di ascoltarli, perché hanno tanto da insegnarci. Se la Dnc perde questa opportunità, la perdita è soprattutto sua.
Ma l’irrevocabilità del «no» veniva poco dopo ribadita dalla telefonata finale di un portavoce della campagna Harris-Walz. Radunatisi sotto un albero con grande dignità sotto lo sguardo empatico dei corrispondenti, gli uncommitted hanno tenuto mezz’ora di consulto e si sono quindi presentati ai microfoni per una lunga conferenza stampa, prima di attraversare, tutti uniti in una simbolica formazione da plotone senza armi materiali, la strada che li separava dalle porte d’accesso all’edificio.
Di simbolismo ha parlato in conferenza stampa la deputata Democratica del Congresso della Georgia Ruwa Romman, scelta dagli Uncommitted come loro portavoce e protagonista di uno dei momenti più commoventi quando ha letto, inizialmente con la voce rotta da un pianto trattenuto ma contagioso, il breve eppur denso discorso di pace, solidarietà, dignità e di ricordo della sua terra di Palestina e di suo padre. Un discorso, ha detto Ruwa prima di leggerlo, «scritto da una prospettiva di buona fede», faticosamente varcando «la sottile linea tra lo strazio che provo nel vedere l’uccisione di massa della mia gente» e la consapevolezza della possibile concretizzazione in novembre delle minacce poste all’intera società americana.
Si trattava semplicemente di simbolismo. Volevamo ricevere qualcosa che fosse un simbolo, anche se non necessariamente politico, che ci mostrasse che in questo partito c’è spazio per noi. E invece ho visto dare voce, su quel palco, a un repubblicano anti-abortista del mio stesso Stato e non a un singolo palestinese americano.
In conclusione alcuni stralci dell’intervento del dottor James Zogby (1945), cofondatore dell’Arab American Institute, una delle più eminenti personalità democratiche del mondo arabo e autore di importanti libri. Tra i ruoli prestigiosi ricoperti nella sua lunga carriera la strettissima collaborazione con Jesse Jackson nelle campagne presidenziali del 1984 e 1988. Nel 2013 Barack Obama lo nominò membro della commissione federale sulla Libertà Religiosa Internazionale, mentre nel 2016 Bernie Sanders lo chiamò a presiedere insieme a Cornel West alla stesura di un piano di giustizia per la Palestina da includere nella sua piattaforma presidenziale.
L’idea di non avere uno speaker palestinese è stato l’errore più idiota visto in politica da tanto tempo. È stato un errore volontario e stupido. Per cinque voti persi concedendo a un palestinese di parlare, molti sono voti che i Democratici potrebbero perdere non avendolo consentito. […] Qualunque consulente abbia consigliato di non lasciar parlare un palestinese perché sarebbe stato divisivo, dovrebbe essere licenziato e sbattuto fuori dal mondo della politica. Ma tra i consulenti politici la stupidità porta su, al vertice, non giù. Se i consulenti venissero valutati come i giocatori di baseball sarebbero nelle leghe minori perché continuano a ripetere le solite cose stupide e vengono pure ricompensati. Prendete me, ho 78 anni, 79 il mese prossimo e sono stato l’ultima persona, l’unica persona che abbia potuto parlare dell’ingiustizia palestinese dal palco di una Convention, e sapete quando? Nel 1988. Non tocchiamo questo tema da 36 anni ed è per questo che sono così fiero di questi ragazzi [rivolgendosi a Layla e agli altri uncommitted, Ndr]. Allora fu Jesse Jackson a sollevare questo tema. Nel 2016 fu Bernie Sanders anche se non dalla Convention, e ora lo hanno fatto questi ragazzi e ragazze e lo hanno fatto dal basso verso l’alto: hanno costruito un movimento per la giustizia palestinese.
Molto interessante anche l’opinione, piuttosto controcorrente rispetto a quelle generalmente condivise dall’informzione indipendente di sinistra, su Kamala Harris, che Zogby vorrebbe vincesse non solo per non vedere mai più Donald Trump nemmeno avvicinarsi alla Casa Bianca, ma per la fiducia che ripone in lei:
È molto difficile per noi provare quella gioia [quella all’interno della convention, Ndr], perché ci hanno portato via una cosa importante: il rispetto per l’umanità. Non possono farlo. Ho parlato con Kamala Harris, lei sente profondamente il nostro problema, non sono solo parole per lei, lo sente davvero e credo nel mio cuore che le cose potrebbero andare diversamente. […] Ma lei deve essere consapevole che le persone che l’hanno guidata in questa Convention, che hanno preso le decisioni in questa Convention, hanno danneggiato lei, la nostra comunità e, credo, il nostro paese. Abbiamo un gran lavoro da fare […] e vi lascio con la speranza che non debbano passare altri 36 anni prima che qualcuno possa dire: «Ho parlato della Palestina alla convention democratica».
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders.
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