L’economia circolare: socialismo o greenwashing?
La transizione dalla manifattura ai servizi e il passaggio a modelli alternativi di produzione e consumo hanno bisogno di robuste dosi di critica al capitalismo per funzionare davvero
L’espressione Bullshit Jobs, titolo di un omonimo libro, è stata coniata da David Graeber per descrivere quei lavori così inutili che, qualora scomparissero, nessuno se ne accorgerebbe. Secondo Graeber, lavori simili avrebbero la sola funzione di mantenere alti i consumi ed evitare crisi economiche, ma il loro contenuto specifico sarebbe pressoché ininfluente.
Approcciandosi all’economia circolare (Ec), si ha l’impressione che questi lavori superflui inizino a spuntare come funghi. Interi settori economici (non solo, come pensava Graeber, nei servizi, ma anche e soprattutto nel manifatturiero) paiono dedicati alla produzione di beni già eccedenti. Per esempio, solamente tra il 2016 e il 2021 sono stati prodotti globalmente circa 140 miliardi di paia di scarpe, ossia 18 paia per essere umano.
Di Ec si è iniziato a parlare nella seconda metà del Novecento, ma ha iniziato a ottenere attenzione mediatica solo di recente. Nel 2006, la Cina l’ha introdotta nell’11° Piano Quinquennale. In Italia, Elly Schlein l’ha menzionata alla trasmissione Otto e Mezzo come un modello di sviluppo per l’Italia. La diffusione del concetto di economia circolare va però di pari passo con le strumentalizzazioni e manipolazioni che gli attori economici e istituzionali fanno di esso. È bene dunque approfondire tale concetto, sottolineandone la radicalità.
Cos’è l’economia circolare?
L’Ec nasce in contrapposizione a quella che viene denominata «economia lineare», ossia il capitalismo moderno e, soprattutto, il suo lato consumista. L’economia lineare tende a convertire fattori produttivi in beni, consumarli e, infine, gettarli (take-make-waste). È un modello usa e getta, in cui i beni vengono costantemente consumati e riacquistati e il «fine vita» dei prodotti viene raggiunto in tempi brevissimi. Pratiche come l’obsolescenza programmata tecnologica o il fast fashion nel vestiario mirano a far tornare ciclicamente il consumatore sul mercato e a rendere impossibile la piena soddisfazione dei bisogni e la saturazione dei mercati. Emblematico in questo senso è lo shopping, che altro non è se non consumo compulsivo e indiscriminato in cui il mezzo di soddisfazione di un bisogno (l’atto di acquistare), diventa fine e bisogno stesso da soddisfare. Inevitabilmente, questo modello ha ricadute ambientali enormi, totalmente ignorate dall’economia lineare.
L’Ec nasce in reazione a questo modello. Parafrasando una famosa definizione, essa è un sistema economico che cerca di eliminare il concetto di «fine vita» dei prodotti tramite pratiche di riduzione, uso alternativo o riutilizzo, riciclo o recupero dei materiali.
L’ordine nelle pratiche elencate non è casuale, bensì dal più al meno desiderabile («gerarchia degli sprechi»). In primis, infatti, l’economia circolare vuole ridurre il consumo tramite modelli alternativi di produzione e consumo. Al contrario di quanto predicato dall’economia lineare, infatti, acquisto di un bene individuale e soddisfazione di un bisogno non sono necessariamente collegati. Il consumo dei beni può essere ridotto tramite la condivisione, l’affitto e la conversione dei beni in servizi. Per citare l’esperto di marketing Philip Kotler, «Non hai bisogno di un trapano, ma di un buco nel muro» (non solo metaforicamente: in media, ogni trapano è usato 20 minuti nella sua intera vita). A livello micro, un esempio sono le strade sociali, come quella sorta a Bologna in Via Fondazza allo scopo di prestarsi e/o scambiarsi gratuitamente beni tra residenti. Altri casi macro sono già ampiamente parte della nostra quotidianità, come mezzi pubblici, biblioteche o lavanderie a gettone.
Anche il riutilizzo, come la riduzione dei consumi, è ritenuto superiore al riciclo e al recupero nelle gerarchie dell’Ec. Infatti, tramite il riutilizzo è possibile mantenere il bene nella sua forma originaria. Per usare termini marxiani (per ora abbastanza alieni alla letteratura dell’economia circolare, ogni bene è più della semplice somma delle sue componenti, poiché cristallizza dentro di sé il lavoro intellettuale e fisico di chi lo ha realizzato. Riparando un bene, dunque, si evita di disperdere questo valore aggiunto, cosa che non accade con il riciclo o il recupero dei suoi materiali. L’economia lineare e il consumismo hanno fatto disperdere molte competenze nella riparazione dei prodotti (quanti negozi di vestiti conoscete? quanti sarti?), ma per rispondere alla crisi climatica è urgente riappropriarsene e ricreare servizi di questo genere. Da questo punto di vista, l’Ec comporterebbe una massiccia transizione di posti di lavoro dal manifatturiero ai servizi. Una transizione che, secondo l’Ilo, genererebbe una creazione netta di 6 milioni di posti di lavoro a livello globale (l’Europa sarebbe una delle aree a beneficiare da questa transizione, mentre altre aree, come il Medio Oriente, potrebbero uscirne danneggiate).
Il passaggio da economia lineare a circolare può apparire mastodontico o utopico, ma in tempo di crisi climatica la passività non è un’opzione. Sempre l’Ilo stima che la crisi climatica brucerà globalmente 72 milioni di posti di lavoro entro il 2030. Se nel 1970 venivano estratte 22 milioni di tonnellate di materie prime annue, oggi siamo a 100 milioni, di cui il 90% diventano rifiuti. Entro il 2050, mantenendo un modello lineare, potremmo raggiungere le 180 milioni di tonnellate di estrazioni. L’impatto di queste estrazioni è devastante, ed è responsabile dell’80% della perdita di biodiversità e del 53% dell’emissione di gas climalteranti.
Per ridurre questo impatto è cruciale modificare anche la progettazione dei beni, cioè evitare che riparazione e riutilizzo siano immaginati solo a posteriori, bensì teorizzati fin dai primi passi dello sviluppo del prodotto. Infatti, come notato dall’Ue, «Fino all’80% dell’impatto ambientale dei prodotti è determinato nella fase di progettazione». Potrà sorprendere ma, a oggi, l’Italia è uno dei paesi europei più virtuosi nel settore dell’economia circolare, sia per meriti propri che demeriti altrui. Tuttavia, come indicato dal rapporto del Circular Economy Network sull’Italia, il nostro paese mantiene delle debolezze, tra cui proprio l’eco-innovatività.
Le auto-elettriche sono il futuro?
Come mostrato, il concetto di Ec è abbastanza radicale e il suo perno non consiste nel riciclo, bensì nella riduzione dei consumi. Nulla è più esemplificativo di questa radicalità di un’analisi del sistema di mobilità.
Il sistema di mobilità contemporaneo, sviluppatosi soprattutto dopo il secondo dopoguerra, è senza dubbio uno dei sistemi più disfunzionali mai progettati dall’uomo. L’automobile è stata certamente un’invenzione rivoluzionaria, che ha radicalmente cambiato la società, reso possibili spostamenti prima quasi impensabili e plasmato l’economia mondiale (per esempio, negli anni Settanta, il solo stabilimento Fiat di Mirafiori contava 60.000 dipendenti). Tuttavia, col passare del tempo e con la sua diffusione di massa, tale sistema di mobilità si è trasformato in un mostro autonomo e assolutamente inefficiente nello svolgere la sua funzione principale, ossia consentire spostamenti rapidi tra luoghi distanti.
Il sistema di mobilità attuale è emblematico del modello consumista take-make-waste e si fonda sulla proprietà privata e l’uso individuale del mezzo di trasporto. Dati alla mano (ma chiunque faccia il pendolare in una grande città potrebbe confermarlo), lascia sbigottiti quanto questo modello sia inefficiente. In primis, nella gestione dello spazio: le infrastrutture per automobili, come strade, parcheggi ecc., occupano attualmente il 50% delle aree urbane (i soli parcheggi sono il 15%). Il dato è ancora più impressionante se si considera che la quasi totalità delle auto è omologata per cinque persone ma, in Italia, porta in media 1,17 passeggeri (il dato è risultato da un’analisi sulla popolazione tra i 15 e gli 80 anni, ma anche i paesi che hanno statistiche senza restrizioni di età trovano dati inferiori alle due persone per auto) causando traffico e ritardi. Un livello mostruoso che, però, potrebbe risultare come giustificabile se supportasse una mobilità efficiente. Ma così non è. L’Italia, con 60 milioni di abitanti, tra cui anziani, minori e non patentati, conta circa 40 milioni di automobili, seconda in Europa (in termini assoluti, ma non relativi) solo alla Germania. Cosa fanno tutte queste automobili? Per lo più, stanno ferme. L’Eurostat, infatti, ha calcolato che per il 92% del tempo le automobili non sono utilizzate bensì parcheggiate. Ancora più sbalorditivi sono i dati rispetto alla frequenza dell’utilizzo. Anche nei momenti di massimo utilizzo, infatti, solamente il 10% delle auto disponibili sono usate contemporaneamente (ma la media è generalmente molto più bassa). Messo in altri termini, non esiste momento all’anno, che sia Ferragosto o un lunedì mattina, in cui 36 di quelle 40 milioni di vetture non siano ferme a occupare spazio.
Insomma, è facile intuire lo scetticismo di una parte dell’Ec rispetto alle auto-elettriche. Nonostante il bombardamento mediatico degli ultimi anni, le auto-elettriche non sono la panacea di tutti i mali, e sarebbe importante approcciarsi a esse con un maggior spirito critico. Le auto-elettriche non sono pensate per salvare l’umanità dalla crisi climatica, ma per salvare le aziende dalla crisi climatica. Sono un mezzo per preservare un modello di mobilità che è disfunzionale per i cittadini ma al contempo, proprio per questo, congeniale al sistema capitalistico. Il modello consumista di «un’auto per persona» non viene minimamente scalfito dalle auto elettriche. Mantenere il presente sistema di mobilità introducendo auto meno inquinanti o componenti riciclabili non ha nulla a che vedere con l’economia circolare. Una mobilità che segua i principi dell’Ec è una mobilità fondata quasi totalmente sui mezzi pubblici come autobus, treni e metropolitane. Le persone generalmente usano le auto per percorsi brevi. In Italia, in media, ogni persona percorre circa 11 chilometri al giorno in automobile. Il paese col dato europeo più alto è la Germania (19 chilometri giornalieri). Tali tratti potrebbero essere agevolmente svolti con mezzi pubblici, se le infrastrutture lo permettessero. Se i mezzi pubblici possono coprire la maggior parte delle aree e gli spostamenti più grandi, per quelli minori si potrebbe colmare il vuoto tramite piattaforme di condivisione e/o affitto di biciclette o automobili (non eliminando dunque del tutto quest’ultime, ma marginalizzandone il ruolo nella mobilità).
Mobilità circolare, dunque, significa mettere in discussione una visione individualista e consumista degli spostamenti per enfatizzare un processo collettivo di riappropriazione dello spazio e del tempo di vita. Tempo e spazio che possano essere utilizzati in maniera creativa e sociale, invece che immobilizzati nel traffico e nello smog perché il settore automobilistico non vada in crisi.
Il conflitto tra mobilità individuale consumista e mobilità circolare collettiva è anche e soprattutto politico, perché l’attuale modello di mobilità è una scelta politica. Una scelta politica che, come ogni fenomeno sociale in un’economia capitalista, è innervata di conflitti tra gruppi economici e le cui disfunzionalità sono riversate sui meno abbienti. Non è un caso, infatti, che i quartieri meglio forniti dai mezzi pubblici e con la maggior densità di aree verdi siano i quartieri ricchi. Celeberrimo è il caso di Manhattan, in cui solamente il 22% della popolazione possiede un’auto. Sviluppare una mobilità circolare e collettiva, dunque, implicherebbe necessariamente e sarebbe realizzabile solo tramite scelte politiche più inclusive verso coloro che oggi subiscono i maggiori danni della mobilità lineare, per esempio introducendo la gratuità dei mezzi pubblici di trasporto.
Il futuro dell’economia circolare
Quali sono gli ostacoli allo sviluppo di un’economia circolare? Un aneddoto riguardo la già menzionata mobilità può essere esemplificativo. Nel 2016 mi recai a Miami per partecipare come volontario alla campagna presidenziale statunitense. L’area metropolitana di Miami è più grande della Calabria e ha più abitanti del Lazio (circa 6 milioni). Tuttavia, la sua metropolitana raggiunge solamente 600.000 persone che vivono nei quartieri più benestanti e gli autobus sono pressoché inesistenti. Domandai perché non venissero sviluppati mezzi pubblici più efficienti, e mi venne spiegato dai colleghi che le aziende automobilistiche finanziavano la campagna elettorale sia dei democratici che dei repubblicani, per fare in modo che, chiunque avesse vinto le elezioni, non avrebbe sviluppato mezzi pubblici.
Così come nel caso di Miami, gli interessi di una sostanziosa parte dei gruppi economici sono contrapposti agli obiettivi dell’economia circolare, sia perché alcuni settori scomparirebbero, sia perché il mantenimento dello status quo è un investimento più sicuro di eventuali futuri profitti derivati dall’Ec. Come già sottolineato, l’Ec non è sinonimo di riciclo, e anzi esso viene posto a uno dei gradini più bassi nella gerarchia del consumo. Tuttavia, l’Ec rischia di diventare un semplice strumento di greenwashing, volto a ripulire l’immagine delle aziende. Molti articoli accademici hanno indicato come questo rischio si sia già parzialmente realizzato. Non è raro che gli attori istituzionali e i policy-makers, nelle loro descrizioni e analisi dell’Ec, rimuovano l’obiettivo di ridurre i consumi ed enfatizzino il riciclo per non spaventare gli attori economici.
Il sito del Parlamento europeo, così come il piano della Commissione europea per sviluppare un’economia circolare, si concentrano quasi esclusivamente sul riciclo allo scopo di risparmiare i costi di produzione. Il video divulgativo ufficiale dal Parlamento europeo per spiegare cosa sia l’Ec è perfino intitolato «Ripara, riusa, ricicla», cancellando completamente la dimensione più radicale del concetto e facendo così più disinformazione che divulgazione. È interessante notare poi come tutti questi documenti ufficiali mantengano una prospettiva pienamente capitalista, in cui non esistono lavoratori ma solo consumatori, e la qualità sociale o meno di un progetto si quantifica in base al suo impatto sul Pil.
Come facilmente prevedibile, questa tendenza è ancora più accentuata nei documenti degli attori economici. Confindustria, per esempio, ha una sua pagina dedicata all’economia circolare. Se la sezione teorica è assai scarna, quella esemplificativa è piuttosto ricca. I casi riportati sono i più variegati, incluse fonderie di alluminio che sarebbero diventate esempi di Ec semplicemente introducendo pannelli fotovoltaici negli stabilimenti. Veri e propri casi di greenwashing che non possono e non devono passare come Ec, se non si vuole completamente delegittimare questo concetto.
In definitiva, è nostra convinzione che un modello di economia circolare non possa veramente svilupparsi senza mettere in discussione le dinamiche capitalistiche. Gli industriali e gran parte delle istituzioni, quando parlano di Ec, intendono fondamentalmente tagli dei costi di produzione con qualche verniciata di verde. La dimensione sociale e di classe dell’Ec è rimasta lungamente sopita, ma sta iniziando a emergere sempre di più tra accademici e attivisti. È importante che chi si interessa di Ec lo faccia in maniera sempre più intersezionale, cooperando con gli sfruttati del sistema capitalistico, ovvero coloro che beneficerebbero di più dallo sviluppo dell’economia circolare. Ugualmente, l’Ec, come molte istanze ambientaliste, ha una portata sistemica che ambisce a mettere in discussione il sistema economico, costituendo un alleato per chi vorrebbe un sistema radicalmente più solidale.
È probabile che l’interesse pubblico e mediatico verso l’Ec cresca nei prossimi anni. In definitiva, le prospettive di sviluppo paiono fondamentalmente due: o l’economia circolare diventerà una parola vuota, utile solo agli addetti stampa delle grandi aziende, o svilupperà il suo lato più radicale, diventando un progetto sinceramente anticapitalista. Un progetto che possa arricchire gli strumenti intellettuali e le proposte di politiche pubbliche degli sfruttati, contribuendo così alla saldatura tra il movimento ambientalista e le istanze socialiste. Quale dei due scenari si realizzerà? Non avremo altra risposta, se non la nostra.
*Alessandro Maffei: studente di storia dell’economia ed economia dell’innovazione presso l’Università di Lund (Svezia). Precedentemente, studente di relazioni internazionali presso l’Università di Bologna. Collabora con varie testate, tra cui Pandora Rivista.
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