L’effetto domino della censura
La guerra in Ucraina è stato il pretesto per oscurare Russia Today America. Era controversa, finanziata dal Cremlino. Ma in questi anni ha dato spazio ad alcune voci dissidenti
«Nel momento in cui non abbiamo più una stampa libera, può succedere qualunque cosa. Ciò che rende possibile a una dittatura o a un sistema totalitario di governare è che la gente sia disinformata; come si fa ad avere un’opinione se non si è informati? Se ci viene sempre mentito, la conseguenza non è credere alle menzogne, ma non credere più a niente. Questo succede perché le menzogne, per loro stessa natura, devono essere modificate, e un governo che mente deve costantemente riscrivere la sua storia. I destinatari non ricevono solo una menzogna – una menzogna alla quale si può credere per tutta la vita – ma un gran numero di menzogne, a seconda di come tira il vento della politica. E coloro che non possono credere più a niente non sono in grado di decidere. Sono defraudati non solo della capacità di agire ma anche della capacità di pensare e giudicare. E con persone ridotte così allora si può fare tutto ciò che si vuole».
Hannah Arendt
Questa citazione, tratta dall’articolo scritto dal giornalista e scrittore vincitore del Premio Pulitzer Chris Hedges il 28 marzo scorso, qualche giorno dopo la sua epurazione da YouTube, solleva una questione su censura, disinformazione e propaganda che, pur essendo all’ordine del giorno dall’inizio della invasione dell’Ucraina e dei crimini perpetrati contro i suoi abitanti, difficilmente oltrepassa i confini russi. Il problema è invece sempre più preoccupante soprattutto negli Stati uniti, dove la censura di quest’ultimo periodo non solo crea nuovi precedenti che si riverbereranno sul futuro della libertà di espressione, ma è ancor più deprecabile del solito in quanto strumentalizza le tragedie del popolo ucraino.
La pretestuosa chiusura di Russia Today America
Da molto tempo ormai a fare le spese della limitazione dell’informazione sono quei giornalisti e youtuber che, sgraditi all’establishment, negli anni si sono costruiti spazi indipendenti per contrastare il pensiero dominante e che ora si vedono sempre più declassati dagli algoritmi di YouTube a favore di Cnn, Msnbc, Fox News, New York Times, Washington Post e via dicendo.
A ciò va aggiunto che la decisione dei paesi occidentali di oscurare Russia Today, Sputnik, e altre emittenti russe che spacciano la propaganda dello zar, ha immediatamente scatenato una catena di pericolose reazioni, la prima delle quali è stata la chiusura del canale con sede principale a Washington Russia Today America, che The Atlantic e The New York Times giustificano, tutto sommato, come una perdita di poco conto.
Uno degli effetti collaterali è stato il licenziamento dell’intero staff americano di più di un centinaio di persone, che ora si trovano a spasso con il marchio russo bollato addosso. Ma la questione sostanziale è che la guerra in Ucraina è stato il pretesto per liberarsi finalmente di un organo di informazione scomodo che, pur fondato e finanziato dal Cremlino, nei suoi dodici anni di vita non ha mai fatto da cassa di risonanza della propaganda russa, tant’è che nei rari casi in cui ha trattato di Russia lo ha sempre fatto contrastando il regime putiniano. La sua scomodità consisteva piuttosto nel fatto che la rete si occupava soprattutto di questioni americane e lo faceva guardandosi bene dal limitare le libertà dei suoi giornalisti e autori, dal momento che il semplice fatto di ospitare voci dissenzienti da quelle dell’establishment e dei suoi media era già di per sé il suo principale obiettivo.
Un altro grave aspetto è che tale censura ha innescato una morsa ancor più stretta sulla libera informazione, con l’arbitraria rimozione da YouTube di tutte le annate dei programmi di illustri voci dissidenti conosciute internazionalmente. Ai primi di marzo sono finite nel nulla tutte le puntate di Breaking the Set, il programma che Abby Martin ha trasmesso da Russia Today America dal 2012 al 2015. Verso la fine di marzo la stessa sorte è toccata a Chris Hedges e ai sei anni di puntate del suo On Contact, candidato agli Emmy Award nel 2017.
Chris Hedges: dal New York Times a RT America alla sparizione da YouTube
Per circa due decenni corrispondente estero in Medio Oriente, Europa, Africa, America Centrale per diverse testate, dal 1990 al 2005 Chris Hedges è stato una delle firme di punta dall’estero per il New York Times, dove ha ricoperto il ruolo di redattore capo sia dal Medio Oriente, sia dai Balcani durante la guerra.
Autore di numerosi libri tra cui War is a Force That Gives Us Meaning, American Fascists, e The Death of the Liberal Class, e insignito del Global Award for Human Rights di Amnesty International, Hedges «avrebbe potuto avere vita facile, passando la seconda parte della sua carriera», afferma il giornalista indipendente Matt Taibbi, dedicandosi ad «attività super pagate quali conferenze, ingaggi universitari e partecipazioni a oscuri think tank, se solo avesse tenuto la bocca chiusa».Ma siccome la bocca chiusa Chris Hedges non l’ha tenuta su troppi argomenti tra cui l’opposizione alla guerra in Iraq, l’imperialismo e il militarismo statunitensi, la potenza del Military Industrial Complex, la dipendenza dell’establishment bipartisan dalle corporation, la corruzione del Partito democratico, e soprattutto essendo nel 2005 diventato portavoce del neonato movimento palestinese per Boicottare, Disinvestire e Sanzionare Israele (Bds Movement), il New York Times lo ha licenziato proprio nello stesso anno.
Sempre più emarginato per la sua eterodossia, come successo a tutte le più illustri voci dissidenti a partire da Noam Chomsky, nel 2016 Hedges è approdato a Russia Today America accettando «un cinico matrimonio di convenienza, poiché la Russia era felice di dare voce a figure che esponevano i problemi strutturali della società americana, mentre dal canto loro quelle voci quasi completamente bandite erano liete dell’opportunità di trasmettere ciò che consideravano la verità, pur consapevoli delle motivazioni editoriali».
Il 23 marzo scorso, senza essere nemmeno stato contattato da YouTube, Hedges ha saputo della sua epurazione dalla telefonata di un amico mentre si trovava a Londra, invitato al matrimonio in carcere di Julian Assange e Stella Moris, partecipazione che una volta arrivato al cancello della prigione gli è stata negata per quella che Hedges ha descritto come «la continua campagna di crudeltà contro Julian da parte delle autorità».
Nell’articolo già citato pubblicato sul giornale indipendente Sheerpost per il quale scrive regolarmente, il giornalista esordisce con una lunghissima serie di «gone» che fanno riferimento alla sparizione delle personalità ospitate e degli argomenti trattati nei sei anni del suo programma settimanale, da Cornel West a Noam Chomsky, da Slavoj Žižek a Tariq Ali, da Glenn Greenwald a David Harvey, dagli autori di biografie su Robert Oppenheimer o Susan Sontag a «esplorazioni» letterarie come quella «con il professor Sam Slote del Trinity College di Dublino dell’‘Ulisse’ di James Joyce».
Ero su Rt per le stesse ragioni per cui il dissidente Vaclav Havel era sulla Voice of America durante il regime comunista in Cecoslovacchia. La questione è farsi o non farsi sentire. Havel non era estimatore delle politiche di Washington più di quanto io non lo sia di quelle di Mosca. […] Quali sono stati i miei peccati? Io non ho, come il mio ex datore di lavoro, il New York Times, venduto la bugia delle armi di distruzione di massa in Iraq, propagato teorie cospirazioniste sul fatto che Donald Trump fosse un complice russo, diffuso il podcast in 10 puntate The Caliphate, che era un imbroglio, raccontato alla gente che l’informazione sul computer di Hunter Biden era ‘disinformazione’.
Ma i peccati odierni più gravi di Chris Hedges sono le sue reiterate analisi sia sulla menzogna dell’innocenza americana, culminante nell’ipocrisia di Biden quando chiama Putin «criminale di guerra» pur avendo gli americani compiuto gli stessi efferati crimini dei russi in tanti altri conflitti, sia della necessità di collocare la guerra attuale, che ha definito «un criminale atto di aggressione», in un contesto storico più ampio. Hedges, che era corrispondente estero dall’Europa negli anni del collasso dell’Unione Sovietica, sottolinea infatti come il tradimento degli accordi presi con Mosca dalle quattro potenze occidentali Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania tra il 1990 e il 1991 sulla non espansione della Nato, avrebbe potuto prima o poi aizzare la Russia verso un conflitto, ipotesi paventata anche da personalità politiche «così diverse come Henry Kissinger e George F. Kennan, che definirono l’espansione della Nato nell’Europa Centrale come ‘il più fatale errore della politica americana di tutta l’era post-guerra fredda’».
Ora che il personaggio in grado di aizzare il conflitto lo ha fatto in un modo tale da non poter più essere ignorato, c’è solo da augurarsi che le conclusioni che Hedges ha ipotizzato il 14 marzo scorso in questo articolo sulla base di analisi lucide e veritiere, non si avverino.
Putin ha fatto il gioco dell’industria bellica. Ha dato ai guerrafondai quello che volevano, ha esaudito le loro più selvagge fantasie. Ora non ci saranno impedimenti nella marcia verso l’Armageddon. I budget militari voleranno alle stelle. Il petrolio sgorgherà dal suolo. La crisi climatica accelererà. La Cina e la Russia formeranno il nuovo asse nemico. I poveri verranno abbandonati. Le strade del mondo pulluleranno di profughi disperati. Ogni dissenso diverrà tradimento. I giovani saranno sacrificati in nome dei logori valori di gloria, onore e patria. I vulnerabili soffriranno e moriranno. Gli unici veri patrioti saranno i generali, gli opportunisti, i cortigiani dei media e i demagoghi che raglieranno per avere sempre più sangue. I mercanti di morte governano come dei dell’Olimpo. E noi, soggiogati dalla paura, intossicati dalla guerra, spazzati via nell’isteria collettiva, a gran voce chiediamo il nostro stesso sterminio.
*Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders
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