
Letta, il segretario che il Pd si merita
Il nuovo segretario rispecchia i valori originari del Pd: un insieme interclassista, sostenitore di alcune battaglie civili ma senza alcun ancoraggio sociale, con in mente una coalizione di centrosinistra in cui però non si capisce chi farà la sinistra
Enrico Letta è il segretario giusto per il Pd. Quel partito se lo merita per le premesse da cui è nato, per i valori che ha coltivato, l’immaginario che ha suscitato. Esattamente un partito «democratico» nel senso anglofono del termine, un insieme interclassista, che poggia saldamente sulle idee e le forze delle classi dominanti non rinunciando a includere in questo cammino le forze escluse, una certa classe media che lavora, produce, contribuisce ancora a corroborare l’azione dei corpi intermedi. Un partito che non è mai stato nemmeno socialdemocratico, proprio per il disancoraggio alla realtà di classe, al mondo del lavoro a cui oggi si propone solamente la partecipazione agli utili aziendali e alla «distribuzione gratuita delle azioni».
È di questo partito che parla Letta e il riferimento ai valori fondativi diventa chiaro quando paragona la fase che seguirà la pandemia da Covid a quella successiva alla caduta del Muro di Berlino. Una fase che scatenerà energie come quelle, dice il neo segretario, che si scatenarono dopo l’89. Un’immagine post-comunista a tutto tondo, del resto più che attesa da chi viene dalla scuola democristiana e ha avuto per padre spirituale Beniamino Andreatta, testa pensante del popolarismo cattolico, figura di collegamento con il capitalismo italiano proteso all’Europa. Del resto fu proprio Andreatta, da ministro del Tesoro, a favorire il «divorzio» nel 1981 tra il suo ministero e la Banca d’Italia in termini di gestione del debito pubblico, eliminando il riacquisto di Stato dei titoli invenduti e avviando la grande fase della crescita della spesa di interessi e, quindi, dello stesso debito.
Letta è così il segretario che il Pd avrebbe dovuto avere fin dalle origini, un Walter Veltroni meno retorico e più concreto, visto che può vantare un po’ di carriera professionale e accademica maturata fuori dai confini, in quel crogiolo europeista che è l’istituto Delors e anche l’università parigina Science Po. Veltroni le competenze professionali, il lavoro insomma, lo ha conosciuto dopo la vita politica, Letta in mezzo e oggi il suo rientro beneficia dell’immagine che si è costruita negli ultimi sette anni.
Si tratta di un Partito democratico saldamente agganciato alle mosse dei cugini americani, il Partito di Joe Biden, ma anche del partito delle nuove energie africane come la nuova direttrice del Wto Ngozi Okonjo-IwealaIl, il partito che non può che riconoscersi nel volto di Luca Attanasio, l’ambasciatore ucciso in Congo e in quello di Patrick Zack e Giulio Regeni per i quali l’Egitto, nonostante i governi succedutisi con la partecipazione del Pd, non ha pagato alcun prezzo sul piano internazionale e su cui Letta ha dichiarato di volersi impegnare.
Quel partito che si piace raccontato con immagini retoriche come «l’anima e il cacciavite», un modo creativo per indicare nell’ex presidente della Commissione europea Jacques Delors e in Romano Prodi i padri putativi di tutti (e quante volte è già capitato al vecchio professore, unico a far vincere al Centrosinistra le elezioni). Un partito che è europeista ancor prima che democratico anche se ora quell’europeismo si colora, dopo la pandemia, di una vaga aspirazione ecologista e sociale che dovrebbe informare la Conferenza sul futuro dell’Europa. Aspirazione che negli ultimi dieci anni, proprio nel momento in cui ce ne sarebbe stato bisogno, quando dopo la crisi del 2008 l’Europa ha scelto la linea dello scontro diretto con i popoli – come dimostra il caso Grecia – non si è mai manifestata.
Il partito con una serie di battaglie democratiche o per i diritti, anche condivisibili: lo ius soli per i figli di migranti che nascono in Italia, il voto ai sedicenni, la sottolineatura dello scandalo rappresentato dal trasformismo in Parlamento, una certa considerazione per la vita partitica che faccia buon uso del digitale. Il partito delle «università democratiche», delle «Agorà», con il rappresentante speciale per le piccole imprese o il responsabile del partito di prossimità.
Ma un partito fragile sul piano sociale e di classe. La questione sociale ovviamente è nominata, ma nel quadro di quell’approccio compassionevole che non è più appannaggio del conservatorismo o per lo meno non solo del conservatorismo di destra, ma anche di quello progressista. La questione del lavoro è tutta dentro un orizzonte amministrativo, come dimostra la proposta di «condivisione delle azioni tra manager e lavoratori» e in cui il ruolo dei sindacati, delle imprese e delle cooperative è messo sullo stesso piano. Nemmeno un riferimento al Reddito di cittadinanza, agli ammortizzatori sociali, al salario minimo (che invece ha occupato il dibattito Usa). Ma questa è storia nota, non va nemmeno più sottolineata, difficile pensare al Pd fuori da questa angolazione.
Letta pensa a un Pd basato sul Next Generation Eu, pietra angolare della fase che viene. Perché al suo interno si trovano oggi le maggiori risorse (per quanto non sufficienti, come analizzato nell’ultimo numero di Jacobin Italia), perché è lo strumento che indurrà l’Ue a darsi un profilo maggiormente sociale ed ecologista, e perché consente di giocare la partita non solo in Italia ma anche in Europa (e infatti Letta ha dichiarato che l’unico incarico che manterrà sarà quello di presidente dell’Istituto Delors). E poi a un Pd basato sulle coalizioni come è stato già con Prodi nel 1996 e nel 2006. Solo che stavolta il panorama politico è cambiato, a sinistra del Pd non c’è più Rifondazione comunista e il rapporto con il M5S di Giuseppe Conte è decisivo. Letta fa capire che si andrà in quella direzione, ma con l’ambizione di «guidare la coalizione». Una coalizione di centrosinistra dove però non si capisce bene chi farà la sinistra. Interessante il fatto che quando dice che occorre costruire una coalizione contro le destre queste vengono riferite solo «a Salvini e Meloni». Non si cita Silvio Berlusconi o Forza Italia, con cui del resto Letta organizzò il suo primo e unico governo nel 2013.
Il leader che il Pd si è dato il 14 marzo, quindi, appare una figura in continuità con l’idea di Pd che i fondatori, a partire da Veltroni, avevano indicato e recuperando questa ispirazione ideale si lancia contro il «partito di potere». Una figura che ha interesse reale a parlare ai giovani – il voto a 16 anni, battaglie come quella su Regeni, l’ecologia, le università democratiche – e che sa che potrà contare su uno stato di grazia che potrebbe durare poco. Per questo il suo discorso può essere letto soprattutto come un tentativo di parlare fuori dal partito, fuori dalla cerchia del gruppo dirigente – da cui l’insistenza sui circoli – per provare a costruire un effetto-novità in grado di coinvolgere nuove energie. Un Pd ideale e idealizzato, come molti di quelli che lo hanno votato se lo sono immaginato, certamente distante dall’arroganza e dal pragmatismo renziani, dalla furia iconoclasta di chi dopo aver rottamato non ha lasciato nulla sul campo. Letta è, per la storia personale e i fatti che a Renzi lo legano negativamente, il miglior rappresentante di un partito che vuole voltare pagina e lasciarsi alle spalle la storia recente.
Ma un partito ideale che in realtà non esiste. Un partito in cui la parola «correnti» è diventata abituale e in cui il nuovo segretario, nonostante una geografia interna che nemmeno lo stesso Letta dice di aver capito, viene votato all’unanimità, con 2 voti contrari, 4 astenuti e senza neanche un dibattito di circostanza. Un partito guidato da capigruppo parlamentari ascesi al potere all’epoca di Renzi e che al governo vede vecchie volpi come Dario Franceschini, Lorenzo Guerini e Andrea Orlando, cioè i tre principali capi-corrente, che continuerà a dividersi per il potere e le rappresentanze istituzionali. Un partito ideale, dunque, oggi contrapposto al partito reale, in una operazione che, per riuscire, dovrà azzerare il campo di Agramante che si trova davanti e compiere una rigenerazione, «un partito nuovo», come appunto Letta sottolinea, possibile solo con una nuova generazione.
Non è detto che funzionerà, ma anche se riuscisse si tratterebbe di una rimasticatura del concetto di sinistra, termine che Letta non utilizza mai, sputandone via i contorni storici e di classe, per tenerne solo lo scheletro di «corrente calda» della gestione del capitalismo. Una corrente ben rappresentata dal nuovo segretario di quel partito, l’immagine esatta della onda post-ideologica nata nel vivo degli anni Novanta e che oggi si giova dell’ultima chance. Una storia che già da allora ha riaperto il problema di cosa debba essere una sinistra in questo Paese. Oggi come allora Letta conferma che una storia di sinistra è necessaria ed è posta rigorosamente fuori dal Pd.
* Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di La rifondazione mancata (Alegre), Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Da Rousseau alla piattaforma Rousseau (PaperFirst).
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