
L’Europa al bivio
La pandemia ha accelerato le tendenze in atto nel progetto dell'Unione europea. E anche di fronte al Recovery Fund l'alternativa è tra reale unità politica e sfaldamento
Il Covid 19 ha avuto un effetto di accelerazione delle contraddizioni in atto in Europa, portando alla luce divergenze e squilibri che attraversano l’assetto istituzionale dell’Unione europea sin dalla sua nascita. Con Dario Guarascio, autore assieme a Giuseppe Celi, Andrea Ginzburg e Annamaria Simonazzi di Un’Unione Divisa. Una prospettiva centro-periferia della crisi europea (Il Mulino 2020) proviamo a ricostruire le tendenze di lungo periodo e le possibili soluzioni all’enigma del progetto europeo proprio a partire dalla crisi sanitaria.
Siamo davanti a uno snodo fondamentale nella storia dell’Unione europea. Gli attuali strumenti messi in campo per fronteggiare la crisi sanitaria e economica, a partire dalla proposta Merkel-Macron con l’istituzione del Next Generation Fund – che prelude all’avvio di forme di mutualizzazione del debito – sino ai piani di acquisto della Banca centrale europea (Bce) per sostenere il debito pubblico degli stati, portano a ritenere che l’Europa sia davanti a un bivio. Alcuni commentatori sostengono che le strade siano due: o si coglie l’opportunità offerta dalla crisi per completare l’Unione e creare un’unità politica (con una politica fiscale comune e un ruolo della Bce come prestatrice di ultima istanza) o l’Europa è destinata a sfaldarsi. Ci sono secondo te aspetti non rilevati dal dibattito pubblico che potrebbero offrire un’utile chiave di lettura per prevedere gli scenari futuri e cogliere la traiettoria dell’assetto istituzionale europeo?
La situazione è effettivamente senza precedenti e l’incertezza che abbiamo di fronte a noi è radicale. Questo rende difficile analisi e previsioni sufficientemente solide su quelli che potrebbero essere i futuri sviluppi in Europa. In generale, possiamo dire che che le contraddizioni dell’Unione oltre a rendere l’Unione europea il vaso di coccio dell’economia globale, hanno mostrato le loro ripercussioni negative anche su quello che è ancora, nonostante tutto, l’unico e reale vanto dell’Europa: il suo stato sociale. La natura deflazionistica di un modello di crescita tutto incentrato sulle esportazioni, il regime di austerità fiscale imposto dalla Commissione nel corso dell’ultimo decennio e la onnipresente minaccia dello spread (che persiste nonostante l’adozione di misure straordinarie quali quelle recentemente lanciate dalla presidente Cristine Lagarde per evitare che la pandemia si porti via con sé anche l’euro) si traducono in una graduale ma inesorabile erosione della capacità della periferia di erogare beni e servizi pubblici essenziali di qualità. Come ha ricordato Emma Clancy, sono identificabili almeno 63 casi in cui l’Ue, esercitando le proprie prerogative di sorveglianza fiscale, ha chiesto ufficialmente agli Stati membri di tagliare la spesa sanitaria pubblica. Abbiamo recentemente mostrato come, nel periodo 2008-2018, la spesa pubblica della periferia meridionale in sanità e istruzione si sia persistentemente contratta in aperto contrasto con la dinamica di crescita registrata, rispetto allo stesso tipo di spese e nello stesso periodo, in Germania. Questo non solo segna un’altra faglia, in questo caso di tipo sociale, che divide centro e periferia, ma mostra in modo netto i differenziati destini che caratterizzano i cittadini del centro e della periferia anche se a crescere sono anche le divergenze (e le connesse tensioni sociali) interne all’apparentemente prospero centro.
Il Covid-19 ha dunque trovato di fronte a sé un’Europa divisa, asimmetricamente fragile e sprovvista degli strumenti di politica economica necessari a tutelare adeguatamente la società e l’economia. Invero, il virus si trova ad aggredire un’economia, quella europea, che ha da poco visto incepparsi anche il suo unico vero motore di crescita: le esportazioni, con la Germania a pagare il ripiegamento del commercio internazionale e la periferia ancora alla ricerca dei livelli di produzione precedenti alla crisi del 2008. In questo quadro, la natura «divisiva» dell’attuale Unione ha preso le forme di una totale assenza di coordinamento in campo sanitario. Servirebbe una revisione sostanziale dei Trattati che disciplinano il funzionamento della Bce consentendo a quest’ultima, nell’immediato, di monetizzare le spese degli Stati membri scongiurando una crescita del loro indebitamento; nel medio-lungo periodo, di superare dogmi neoliberali che attualmente informano il funzionamento della Banca Centrale, quali il principio dell’indipendenza di governi o quello della relazione diretta tra moneta e inflazione. Ciò dovrebbe fare il paio, sul piano fiscale, con una mutualizzazione di parte dei debiti pubblici dell’Unione monetaria e un incremento sostanziale della capacità fiscale del bilancio europeo. Da un punto di vista strutturale, la politica industriale dovrebbe intervenire per ripensare la produzione ridiscutendo il cosa, il come e soprattutto il dove produrre, con particolare riferimento alla necessità di ri-bilanciare la capacità tecnologica e produttiva di centro e periferia.
Nulla di simile, tuttavia, sembra profilarsi all’orizzonte. Il 5 maggio la Corte Costituzionale tedesca ha mandato un chiaro messaggio alla Bce: un assetto dell’istituzione responsabile della politica monetaria diverso da quanto previsto nei Trattati che l’hanno istituita non sarebbe mai ammesso in quanto contrastante con i precetti della Costituzione tedesca. Il 23 maggio Austria, Olanda, Svezia e Danimarca hanno palesato la loro contrarietà al piano fiscale franco-tedesco che sarebbe poi divenuto il Next generation (Ng) plan confermando, nuovamente, la tendenza dell’Unione all’auto-paralisi. Il Covid-19, tuttavia, mettendo in discussione «il mondo di ieri», sembra sottrarre ogni alibi agli Stati membri ponendoli di fronte a un bivio: sciogliere l’Unione o riformarla radicalmente. La prima opzione, invero, potrebbe presentarsi quale inevitabile conseguenza delle tensioni finanziarie, economiche e sociali che il «diabolico perseverare» lungo la strada sin qui seguita porterebbe verosimilmente con sé. Invero, l’attivismo di Merkel e Macron e lo stesso annuncio del piano Ng rappresentano una timidissima inversione di tendenza rispetto a quanto abbiamo visto sin qui. A spingere politicamente il piano Ng sono senz’altro i timori francesi e tedeschi sui costi che una deflagrazione disordinata dell’Unione monetaria europea implicherebbe per le banche e le grandi imprese del centro. In termini prospettici è anche possibile che la Germania cominci a valutare la necessità di valorizzare maggiormente la domanda interna (sia tedesca sia europea) in vista delle tensioni future che già si preannunciano dal punto di vista del commercio e delle relazioni internazionali. Dire se questi incentivi saranno sufficienti a imporre una rivoluzione copernicana quale quella che servirebbe per restituire senso e prospettiva all’Ue non è affatto facile. Di certo, quello che conosciamo ad oggi del piano Ng non lo fa somigliare a una panacea capace di far fronte in modo adeguato, sia come dimensioni che come tempi, ai numerosi mali europei. Di nuovo e di significativo potrebbe esserci il ricorso a uno strumento di finanziamento comune ma l’incertezza, l’esiguità e la natura straordinaria dello stesso strumento rischiano di renderlo un’iniziativa insufficiente. Per quanto riguarda l’Italia, la cosa che la classe lavoratrice dovrebbe in questo momento auspicare è che le politiche espansive continuino e acquistino maggior vigore. È necessario approfittare della finestra di opportunità aperta dalla Bce emettendo Btp, i buoni di Stato, ed evitando qualsiasi ricorso a strumenti come il Mes che in modo più o meno esplicito rimandano direttamente alla perversa logica creditore-debitore che ha guidato le relazioni interne all’Unione monetaria europea negli ultimi dieci anni. Le risorse andrebbero investite, oltre che per accrescere il potere d’acquisto di lavoratori e disoccupati, per avviare un processo di potenziamento e riconversione industriale che miri ad ampliare l’offerta (e la proprietà pubblica) sia in ambito industriale (pensando a comparti quali la farmaceutica o i trasporti, immaginando in quest’ultimo caso progetti volti al potenziamento dei trasporti pubblici e alla loro sostenibilità ambientale) sia nel campo di beni e servizi che diventeranno sempre più essenziali come nel caso della salute e della cura delle persone anziane e non autosufficienti.
Nel vostro libro trattate la crisi europea con uno sguardo di lungo periodo. In particolare, individuate nei primi anni Settanta del secolo scorso l’origine della crisi attuale, sottolineando come i paesi europei siano stati coinvolti in un doppio processo di deregolamentazione: globale e europeo. Soffermandoci sull’Europa, quali ritieni siano i nessi tra l’organizzazione economica e produttiva e l’egemonia di uno specifico discorso teorico che assume centralità dalla seconda metà degli anni Settanta?
Il tentativo che facciamo nel libro è quello di «scoprire le radici» del processo di integrazione economica e monetaria. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, il capitalismo, prima negli Stati uniti e gradualmente nel resto del mondo, comincia a mutare. Crescono la sua dimensione finanziaria e globale con l’intensificarsi dei flussi internazionali di capitale, si espandono in termini dimensionali i comparti finanziari all’interno delle diverse economie, si riduce il peso della domanda interna e degli investimenti a favore delle esportazioni quale principale traino della crescita. Di fatto, cominciano a incrinarsi (sebbene ci vorrà tempo affinché gli elementi di fondo che regolano il processo di accumulazione cambino in modo sostanziale) le condizioni di necessità (in termini di riproduzione e accumulazione del capitale) che avevano condotto, a partire dalla fine della guerra, alla crescita dei salari e al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, al consolidamento di istituzioni tese a garantire una parziale redistribuzione del sovrappiù nonché alla sottoscrizione di accordi internazionali (ad esempio Bretton Woods) funzionali a garantire che gli scambi tra paesi avvenissero in un quadro di sufficiente stabilità. Le contraddizioni indotte dall’acuirsi del conflitto distributivo, dalla saturazione dei mercati e dalla sempre minore capacità degli accordi e delle istituzioni internazionali di garantire tale stabilità (oltre a problemi specifici quali le tensioni nei mercati delle materie prime, in primis il petrolio) pongono dunque definitivamente in questione l’ordine su cui la «Golden Age» si è fino a quel momento basata dando di fatto avvio (ma di questo ce ne saremmo accorti in Europa solo venti anni dopo) a un processo di erosione delle condizioni strutturali su cui poggia l’ipotesi socialdemocratica di un capitalismo temperato in chiave keynesiana.
Questo è il contesto globale nell’ambito del quale muta e accelera anche il processo di integrazione europea. Se, in una prima fase, quella che per intenderci va dal Trattato di Roma del 1957 alla presentazione del Rapporto Werner nel 1970, l’integrazione europea costituisce una fonte di crescita sul piano economico e di effettiva cooperazione interstatuale sul piano politico, con gli anni Settanta la situazione cambia. Il Rapporto Werner era ancora inserito in una cultura che vede gli strumenti di politica economica concorrere congiuntamente alla stabilizzazione dell’economia. Il comune riconoscimento dell’importanza di armonizzare le politiche e ottenere la convergenza delle condizioni economiche per raggiungere l’integrazione monetaria aveva tuttavia significati e implicazioni differenti. Per la Germania, «governance economica» significava convergenza intorno a una cultura comune di stabilità, mentre per la Francia significava iniziative comuni per orientare lo sviluppo economico. Dopo un decennio (quello dei Settanta) caratterizzato da elevata inflazione, instabilità dei sistemi finanziari internazionali e dilaganti conflitti sociali che segnalano l’incepparsi del compromesso Keynesiano, il capitale è alla ricerca di un nuovo equilibrio. Un primo punto di svolta si ha nei primissimi anni Ottanta, con la definitiva sconfitta dei propositi francesi rispetto a quello che potrebbe essere definito l’ultimo tentativo di rivitalizzare una qualche forma di «keynesismo radicale» (si tratta del Programma proposto dalla coalizione socialista-comunista del 1981 e che si fondava su tre direttrici: incremento dei salari reali, politica fiscale espansiva e nazionalizzazione della gran parte delle imprese tecnologicamente strategiche). Il fallimento del Programma aprirà la strada all’egemonia dell’ala «riformista» del Partito socialista francese. Un’ala che comincerà, gradualmente, a far propri tutti i capisaldi dell’impostazione teorica monetarista. Il protagonista di tale transizione è Jacques Delors a cui verrà affidato il compito di rappresentare la posizione francese nelle redivive negoziazioni per la costruzione dell’Unione economica e monetaria. Il Rapporto che porta il suo nome, su cui poggerà l’impalcatura ideologica e istituzionale della futura Unione monetaria europea, sancisce la separazione tra una Banca centrale europea indipendente e l’autorità fiscale e politica, destinata a rimanere sotto il controllo dello Stato nazionale. Sul piano ideologico, l’Unione che prenderà forma di lì a poco si appresta a celebrare il primato del mercato quale guida ultima dello sviluppo economico. Una guida che per ben funzionare deve essere liberata dai vincoli posti dall’operatore pubblico e che anzi può e deve sostituirsi a quest’ultimo anche nella gestione di beni e servizi pubblici quali i monopoli (più o meno) naturali (acqua, energia, telecomunicazioni, mobilità) o la sanità. Una spinta ideologica alimentata ulteriormente da un altro evento storico cruciale: la caduta dell’Unione sovietica. Il mercato sembra non avere più rivali e l’Europa (e la Francia in particolare) si trova a fare i conti con uno smottamento geopolitico di proporzioni enormi a cominciare dal repentino processo di ri-unificazione in Germania.
In un contesto globale che ha appena visto crollare i punti di riferimento del keynesismo e che vede la finanza trionfare sottraendo spazi e capacità d’azione agli Stati (la depoliticizzazione dell’economia di cui parliamo nella prima parte del volume), con la Francia che diviene disponibile ad accettare ciò che non avrebbe mai accettato ai tempi del Rapporto Werner (ossia la costruzione di un’Unione zoppa: monetaria ma non fiscale né politica) le condizioni per quella che si imparerà di lì a poco a chiamare Unione monetaria europea sono poste. Le economie meridionali, Italia in primis, già alle prese a livello domestico con la trasformazione in senso monetarista della propria politica economica (l’Italia ha sancito il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro nel 1981), non esitano a fare propri i propositi del Rapporto Delors. L’entusiasmo delle classi dirigenti italiane è sospinto in modo non irrilevante dalla narrazione tossica del vincolo esterno, che si vorrebbe ulteriormente stringere oggi attorno al collo dell’Italia mediante l’adesione al Mes. Dimenticando l’importanza delle differenze strutturali tra le economie e abbracciando, al contrario, teorie neo-funzionaliste in virtù delle quali l’abbattimento delle barriere al libero funzionamento del mercato avrebbe magicamente garantito la convergenza tra entità a diverso livello di sviluppo, l’economia italiana (ma lo stesso destino contraddistinguerà tutte le economie meridionali aderenti all’Unione monetaria europea) interpreta l’adesione all’Ue e ancor di più all’Unione monetaria come l’imperdibile opportunità per trasformarsi da corrotto e inefficiente ranocchio mediterraneo in moderato (relativamente alla dinamica attesa di prezzi e salari) ed efficiente principe teutonico. La storia ci ha mostrato che la depressione dei salari è stato l’unico obiettivo efficacemente raggiunto.
Nel testo individuate elementi di fondo per comprendere la crisi europea, in particolare quella del 2008. Sottolineate come la grande crisi abbia portato alla luce elementi strutturali della fragilità dell’assetto europeo, che riconducete all’interdipendenza tra depoliticizzazione dello spazio economico, finanziarizzazione dello stesso – che ha ridotto gli spazi di intervento dello Stato nell’economia – e un modello di crescita basato sulle esportazioni. Quali sono i legami tra questi elementi?
La grande inflazione degli anni Settanta, associata alle tensioni politiche e sociali che l’hanno accompagnata, ha aperto la strada a una discontinuità fondamentale nel modus operandi dei paesi capitalisti occidentali. Si tratta, come discusso da autori quali Burnham e Krippner, del passaggio da una gestione «politicizzata» della politica economica basata sulla discrezionalità a una gestione «depoliticizzata» basata sull’automatismo delle regole. Non rimozione della politica, dunque, ma ridefinizione del confine tra politica ed economia con i politici chiamati a governare quest’ultima «indirettamente» a fronte di vincoli tecnici che «non lasciano alternative» (da cui l’acronimo Tina, there is no alternative). Nel caso europeo questa concezione viene estremizzata operando una crasi tra il modello anglosassone e quello tedesco (basato sulle esportazioni e la stabilità dei prezzi) e si intreccia a una riorganizzazione gerarchica che vede emergere un centro, che accrescerà rapidamente la sua forza economica e il suo peso politico, e due periferie (quella meridionale e quella orientale), che si indeboliranno e diventeranno via via più dipendenti dallo stesso centro. All’interno dell’Unione monetaria, i motori della depoliticizzazione sono diversi. La sottrazione della sovranità monetaria e la costituzione di un’entità centrale (la Bce) impossibilitata per statuto a operare da prestatore di ultima istanza (ossia a correre in soccorso dei governi nel caso di pressioni speculative sui titoli del debito pubblico) espone i paesi più fragili a una condizione «sudamericana» (alludendo da questo punto di vista alla situazione di ricatto a cui erano esposte le economie latinoamericane che hanno agganciato al dollaro le loro valute nel corso degli anni Ottanta e Novanta). Di fatto, alla prima avvisaglia di recessione, nel momento in cui i governi dell’Europa meridionale si sono ritrovati a dover espandere il proprio deficit per finanziare normali politiche anticicliche, è emerso in modo chiaro come il connubio euro-Bce avrebbe consegnato la periferia nelle mani della speculazione, da qui i famigerati spread. Ai governi della periferia rimangono le sole azioni in grado di non indispettire la speculazione finanziaria e di convincere la Bce a derogare temporaneamente ai propri precetti: politiche deflattive fatte di tagli alla spesa pubblica, flessibilizzazione del mercato del lavoro, compressione dei salari e privatizzazioni. La depoliticizzazione è determinata anche dalla natura del mercato unico che, disegnato a immagine e somiglianza delle necessità delle grandi imprese multinazionali, espone i governi a ricatti quali quello della delocalizzazione della produzione. La possibilità che le grandi imprese hanno di operare ovunque all’interno dell’Unione stabilendo però la sede legale e dunque pagando le tasse dove è più conveniente è, in questo senso, emblematica. E l’effetto che questo ha sugli Stati più fragili, in particolare le grandi nazioni della periferia come l’Italia in perenne affanno fiscale ma allo stesso tempo chiamate a finanziare un sistema di welfare ancora ampio e strutturato (nonostante i tagli recenti), è quello di acuire la pressione riducendo ulteriormente le risorse a disposizione e i margini di manovra. Questo processo indebolisce ovviamente anche la capacità contrattuale dei sindacati, essi stessi esposti al ricatto della delocalizzazione e, più in generale, fragili rispetto a controparti che il mercato unico aiuta a essere sfuggenti e difficilmente coercibili rispetto a alle necessità di questo o quello stabilimento di questa o quella economia periferica. La pressione politica esercitata sulla periferia da un centro sempre più forte e in grado di imporre le proprie decisioni in ambito comunitario possiamo considerarla un’ulteriore forma di depoliticizzazione.
La retorica in voga negli anni Novanta sosteneva che l’Europa nascesse per favorire maggiore convergenza economica, sociale e politica tra i paesi europei. Voi avete mostrato che in realtà il processo di integrazione europea ha allargato le divergenze tra gli Stati nazionali. Alla base di queste divergenze c’è il rapporto tra liberalizzazione del movimento dei capitali e gli squilibri nella struttura produttiva delle economie nazionali, in particolare tra i paesi core Germania e i paesi del Nord e i paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) e della periferia orientale (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca). Come si è dispiegato concretamente questo doppio movimento?
Come abbiamo avuto recentemente modo di scrivere e come ho tentato sin qui di mostrare, la fragilità dell’Europa discende dal modello di crescita e dall’assetto istituzionale che Unione europea e Unione monetaria si sono date a partire dalla loro costituzione. Nel libro mostriamo, anche da un punto di vista empirico, come il centro (imperniato attorno alla Germania) abbia accresciuto la propria capacità produttiva, tecnologica e di crescita. Le due periferie – quella meridionale, composta dalle economie mediterranee (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna), e quella centro-orientale, con un ruolo preminente delle economie del «patto di Visegrad» (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) – mostrano fragilità diverse, che si risolvono però in una eguale condizione di dipendenza, economica e finanziaria, dal centro. Navigando a vista con la sola bussola del mercato – quello stesso mercato che avrebbe dovuto garantire, secondo le teorie neo-funzionaliste su cui si è basata la costituzione dell’Unione monetaria, maggiore efficienza nella periferia e convergenza generalizzata verso gli standard produttivi del centro – la periferia meridionale sperimenta una restrizione della propria capacità produttiva manifatturiera. La finanza, che funge da metronomo dello «sviluppo» negli anni del famigerato «dividendo dell’euro» (i bassi tassi di interesse che commentatori e politici nostrani ancora interpretano come una manna dal cielo non adeguatamente sfruttata a causa delle vere o presunte inadeguatezze del nostro sistema pubblico) impone alla periferia un modello di sviluppo trainato da settori a bassa intensità tecnologica, popolato da imprese di piccole dimensioni che arrancano in un contesto di concorrenza di prodotto all’interno dell’Ue e di costo sui mercati internazionali globalizzati. Cresce la dipendenza dalle importazioni per quanto concerne l’approvvigionamento di un numero crescente di beni e componenti mentre si riduce la capacità di beneficiare degli impulsi provenienti dalla domanda mondiale.
L’indebolimento strutturale della periferia meridionale si traduce in una dinamica economica stagnante. L’ampliamento della platea di lavoratori scarsamente tutelati e a basso reddito contribuisce alla stagnazione della domanda interna. Le regole fiscali impongono un contenimento della spesa pubblica e determinano un contesto deflazionistico che scoraggia l’investimento. La bassa crescita riduce le entrate e accresce il fabbisogno finanziario e l’indebitamento dei governi, innescando un circolo vizioso che peggiora ulteriormente la posizione relativa della periferia. Cresce, nel frattempo, la concorrenza di prezzo nel mercato comune, da parte delle imprese site nell’altra periferia, quella orientale, che assumono un ruolo prevalente quali fornitori di beni intermedi per l’industria tedesca.
All’altra periferia, quella orientale, dedichiamo molto spazio all’interno del volume soprattutto laddove analizziamo empiricamente il processo di integrazione e i suoi effetti sulle strutture produttive con un’attenzione specifica al settore automobilistico. Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del 2000, la periferia orientale è divenuta una componente chiave della matrice manifatturiera della Germania ospitando filiali (e indotto) delle principali multinazionali tedesche, principalmente operanti nel comparto automobilistico, e divenendo una fonte vitale per l’approvvigionamento di beni intermedi (di media e medio-alta qualità). Costo del lavoro estremamente basso, forza lavoro con buon livello di qualificazione, sussidi e agevolazioni fiscali generose, oltre a vicinanza geografica e legami storici, sono fra i fattori determinanti dell’enorme flusso di investimenti diretti esteri, soprattutto tedeschi. Ciò si è tradotto, da un lato, in una rapida crescita della capacità produttiva manifatturiera dell’Est. Dall’altro, ha contribuito allo «spiazzamento» delle imprese fornitrici del Sud indebolendone ulteriormente la base produttiva. La sviluppo guidato dalle decisioni produttive delle grandi multinazionali tedesche (in particolare dell’industria automobilistica, seguita, in misura più contenuta, dalle altre case automobilistiche europee, americane e asiatiche) ha infatti reso fragile e fortemente dipendente dal centro anche la periferia orientale. La traiettoria industriale dell’Est è quella della mono-specializzazione, con il settore automobilistico a fare la parte del leone. Ciò ha ridotto le possibilità per l’Est di intraprendere un percorso di sviluppo bilanciato e caratterizzato da un eguale sviluppo di altri settori produttivi oltre a quelli strettamente connessi all’industria automobilistica. Le politiche di contenimento della crescita dei salari, nonostante la crescente carenza di forza lavoro qualificata, spinge i giovani dell’Est dotati di titoli di studio elevati a emigrare, indebolendo la base di competenze del paese. I forti squilibri territoriali, le crescenti diseguaglianze e la già menzionata moderazione salariale stimolano il risentimento nelle popolazioni della periferia orientale. Un risentimento che si traduce in un consenso crescente a favore dei partiti di destra critici nei confronti dell’Unione e (a parole) intenzionati a contrastare il declino demografico e gli squilibri interni ai loro paesi.
*Dario Guarascio è ricercatore di Politica economica presso il Dipartimento di economia e diritto della Sapienza Università di Roma. Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Ha scritto Tempo Rubato (Imprimatur) e, con Marta Fana, Basta Salari da Fame (Laterza).
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