L’Europa verso la guerra
L'Ue si muove drammaticamente alla volta della militarizzazione, inseguendo la geopolitica e la Nato. Ecco come questa strategia penalizza le spese sociali e affonda nelle scelte degli ultimi anni
Da quando le truppe russe sono sbarcate sul suolo ucraino nel 2022, si è parlato senza sosta della rinascita della Nato. Meno attenzione è stata prestata all’Unione europea che si reinventa come aspirante Grande Potenza che vede sempre più il futuro del mondo attraverso le lenti della geopolitica e della guerra.
Le neutralità di lunga data si sono trasformate in artefatti storici, la spesa per la difesa è tornata a livelli mai visti dai tempi della Guerra fredda (270 miliardi di euro nel 2023 da parte dei soli Stati membri dell’Ue) e l’Ue ha fornito per la prima volta miliardi in finanziamenti e armi direttamente a un paese (l’Ucraina).
L’Ue ha presentato la sua prima strategia per l’industria della difesa per potenziare e coordinare il suo complesso militare-industriale. Diminuendo il loro impegno contro la «bomba a orologeria climatica», gli Stati membri hanno tagliato il fondo comune chiamato Fondo sovrano europeo – una risposta all’Inflation Reduction Act di Joe Biden – da 10 miliardi a 1,5 miliardi di euro, spostando esplicitamente il suo focus dai progetti legati al clima a quelli legati alla difesa.
La cooperazione europea in materia ha vacillato a lungo a causa di visioni contrastanti di difesa comune, dalla visione massimalista di un’unione di difesa completa con tanto di esercito europeo (una preferenza federalista della Francia) alla cooperazione minimalista sulle capacità militari (favorita dai paesi neutrali più piccoli e dai paesi dell’Europa orientale). Ma il fatto che non ci sia una voce unificata non nasconde il fatto che l’Ue abbia scelto di mettere tutte le sue uova nel paniere della guerra, nel disperato tentativo di impressionare Washington mentre la superpotenza si adatta a un ordine mondiale in cambiamento.
Cannoni invece che burro
Mentre si prepara a inaugurare una nuova era di austerità, l’Ue si è profusa in dichiarazioni sulla necessità di essere pronti alla guerra. «Tutti, me compreso, preferiscono sempre il burro ai cannoni, ma senza cannoni adeguati potremmo presto ritrovarci anche senza burro», ha affermato Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, citando l’antico motto dei guerrafondai: «Si vis pacem, para bellum» («Se vuoi la pace, prepara la guerra»).
Cercando la rielezione a presidente della Commissione europea tramite una piattaforma di difesa dell’Ue, Ursula von der Leyen – la prima a chiedere esplicitamente una «Commissione geopolitica» – ha detto al Parlamento europeo che è necessario un piano industriale per «mettere il turbo» alla capacità industriale di difesa del blocco e sviluppare «capacità operative vincenti in battaglia».
Un linguaggio così bellicista è in linea non solo con il passaggio dell’Ue verso una modalità di economia di guerra – già prima che questa strategia venisse resa pubblica, il Financial Times aveva già scritto che «l’industria della difesa europea è in forte espansione» – ma anche con la sua nuova autodefinizione come entità geopolitica e con la violenza sui migranti all’interno e sempre più all’esterno dei suoi confini.
Questi sviluppi si collocano nel contesto di un inasprimento dell’austerità. Le nuove regole fiscali punitive richieste in particolare dalla Germania potrebbero costringere gli Stati membri dell’Ue a tagliare collettivamente i budget già ridotti di ulteriori 100 miliardi di euro l’anno prossimo.
L’Ue si sta forse preparando a una guerra continentale, facendo il solito tentativo di Washington di accerchiare la Russia e separarsi dalla Cina, o tentando di imitare il keynesismo militare della Bidenomics? In che misura questa militarizzazione strisciante è guidata da imperativi geopolitici o capitalisti, se davvero possiamo fare questa distinzione? I funzionari dell’Ue predicano la necessità di un’autonomia strategica, che significa indipendenza dalla strategia imperialista statunitense, ma un’aspirazione del genere è illusoria?
Da Maastricht a Lisbona
Proprio come oggi l’Ucraina pervade la sensibilità dei funzionari dell’Ue, la caotica disintegrazione della Jugoslavia ha contribuito al fatto che le menti dei suoi predecessori si concentrassero sulle questioni di sicurezza dopo anni di disunità. Una parte fondamentale del Trattato di Maastricht del 1992 fu la nuova Politica Estera e di Sicurezza Comune (Pesc); cinque anni dopo, il Trattato di Amsterdam ha consentito la creazione di una nuova posizione di politica estera, l’Alto Rappresentante per la Pesc, con il compito di guidare questa nuova politica.
Tuttavia, l’assoluta impotenza dell’Ue di fronte alle guerre balcaniche – durante le quali il blocco ha fallito, secondo le parole di Perry Anderson, il suo «primo test come effettivo custode della pace in Europa dopo la Guerra fredda» – ha costretto a un ripensamento, portando nel 1999 alla Politica di sicurezza e difesa comune (Psdc). Il che ha fornito al blocco una parvenza di scopo comune e, nel tempo, gli ha permesso di dispiegare missioni civili e militari in Europa, Africa e Asia.
Una svolta storica nel campo della difesa è avvenuta con il Trattato di Lisbona, che ha cercato di creare un quadro flessibile per una politica di sicurezza e difesa comune. Durante le discussioni preliminari al trattato sul futuro della sicurezza europea, un gruppo di lobbisti degli armamenti e politici dell’establishment militare ha spinto con successo per la creazione di una «Darpa europea» per sostenere lo sviluppo delle capacità militari e rafforzare l’industria militare dell’Ue. Istituita nel 2004, l’Agenzia europea per la difesa (Eda) ha rappresentato una precoce invasione dell’industria degli armamenti, entrata in un periodo di declino dopo la Guerra fredda, nel processo decisionale europeo in materia di difesa.
Ci sono state altre due eredità chiave del Trattato di Lisbona. Quello che era stato concepito come un trampolino di lancio verso un servizio estero dell’Ue, il Servizio per l’azione esterna dell’Unione europea, è stato lanciato nel 2011. C’era anche la Cooperazione strutturata permanente (Pesco), un quadro di cooperazione volto a promuovere il coordinamento sulle questioni militari e aumentare le spese militari dei governi europei.
La militarizzazione piuttosto graduale ha subito un’accelerazione drammatica quando Bruxelles ha iniziato a considerare le implicazioni dell’uscita dall’Ue del Regno Unito, potenza nucleare e membro permanente del Consiglio di sicurezza, dopo il referendum sulla Brexit del 2016, con i lobbisti che occupavano Bruxelles per spingere verso politiche vantaggiose. L’anno successivo al voto sulla Brexit, gli Stati membri hanno attivato l’impegno del Trattato di Lisbona nei confronti della Pesco.
Fondo europeo per la difesa
Dal 2019, la Commissione europea ha creato un nuovo dipartimento chiamato Direzione generale per l’industria della difesa e lo spazio, interessato principalmente alla «competitività e all’innovazione dell’industria della difesa europea». Un’altra iniziativa orientata alla difesa ha preso il volo nel 2021. Mentre l’industria degli armamenti lasciava ovunque il segno del suo passaggio, è stato varato il Fondo europeo per la difesa, che dispone di un budget di 8 miliardi di euro per la ricerca e lo sviluppo di materiale militare, come ha spiegato l’allora presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, «una base industriale della difesa forte, competitiva e innovativa è ciò che ci darà l’autonomia strategica».
A parte la porta girevole tra l’industria degli armamenti e le istituzioni europee, è chiaro che i finanziamenti dell’Ue ai produttori di armi sostituiscono una vera politica di difesa dell’Ue. In ogni caso, sono in corso gli sforzi a lungo auspicati per risvegliare un’industria degli armamenti dormiente. Munizioni, esplosivi, propellenti, lanciatori di artiglieria, missili anticarro, radar di difesa aerea, cingoli per carri armati: la produzione di tutto questo e altro ancora sta ora accelerando.
Si è verificata anche l’esternalizzazione degli obiettivi militari, con effetti potenzialmente catastrofici sulle regioni instabili d’oltremare. All’agenzia di controllo delle frontiere Frontex, in continua espansione – notoriamente incline a utilizzare misure militari per bloccare le persone che migrano o cercano asilo – è stato recentemente assegnato un budget di 5,6 miliardi di euro, il più rilevante di qualsiasi altra agenzia dell’Ue. Oltre a formare ed equipaggiare la polizia di frontiera in alcuni Stati africani per fermare la migrazione verso l’Europa, nel 2022 la Commissione ha anche iniziato a perseguire una politica che consente a Frontex di pattugliare le frontiere terrestri e marittime in Senegal e Mauritania.
Fondamentale per questa militarizzazione delle frontiere esterne (sia in Ucraina che nel Sahel) è lo European Peace Facility (Epf), che si basa sui meccanismi esistenti per migliorare la capacità dell’Ue di fornire addestramento ed equipaggiamento (comprese le armi) alle forze militari extra-Ue. Proprio come la Pesco – e quasi ogni aspetto della politica estera e di difesa dell’Ue – l’Epf non è coperto dal bilancio dell’Ue ed elude il controllo parlamentare.
La sponsorizzazione attraverso l’Epf di operazioni militari – spesso mascherate in chiave antiterroristica o anti-migratoria – sono, come ha ammesso un funzionario dell’Ue al Guardian, di natura interamente geopolitica. Ciò consentirà all’Ue di diventare ciò che ora desidera ardentemente essere: un efficace aiutante degli Stati uniti nei conflitti regionali al fianco di Russia o Cina.
L’Ue nell’ordine mondiale
Nessuno degli sviluppi sopra menzionati è nato spontaneamente da un vuoto ideologico. Negli ultimi anni, i leader dell’Ue hanno abbracciato e sancito l’approccio della sicurezza, trattando tutto, dagli aiuti esterni allo sviluppo e alla migrazione, come questioni di sicurezza. In tal modo, hanno profondamente ripensato il ruolo dell’Ue nell’ordine globale.
Nel 2003, Javier Solana, allora alto rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza comune (oltre a essere un ex segretario generale della Nato) ha guidato una prima strategia di sicurezza europea. Addomesticata dagli standard aggressivi stabiliti dai più recenti proclami di difesa dell’Ue, «Un’Europa sicura in un mondo migliore» era allarmata dal terrorismo, dalla diffusione della criminalità organizzata oltre i confini e dalla proliferazione nucleare. Reliquia della fine della storia, «Secure Europe» ha sostenuto la necessità che l’Ue sviluppasse partenariati strategici con Russia e Cina.
Tuttavia, si è trattato del secondo documento politico di questo tipo, pubblicato nel 2016 e solitamente denominato «Strategia globale», che dovrebbe essere inteso come il progetto per la militarizzazione odierna. «Verso est», affermava il capitolo introduttivo,
l’ordine di sicurezza europeo è stato violato, mentre il terrorismo e la violenza affliggono il Nord Africa e il Medio Oriente, e la stessa Europa. La crescita economica deve ancora superare quella demografica in alcune parti dell’Africa, le tensioni sulla sicurezza in Asia stanno aumentando, mentre il cambiamento climatico provoca ulteriori disagi.
Sebbene il documento impegni l’Ue verso un ordine globale basato sul diritto internazionale, si discosta chiaramente dalle valutazioni precedenti per affermare che «l’idea che l’Europa sia esclusivamente una ‘potenza civile’ non rende giustizia a una realtà in evoluzione». «Per l’Europa – affermava con un forte senso di inquietudine – il soft power e l’hard power vanno di pari passo».
Il cambiamento delle priorità
I seguiti della Strategia Globale – la «Strategia dell’Unione Europea per la Sicurezza 2020-2025» del 2020 e la «Tabella di marcia dell’Ue sul clima e la difesa» (che evoca lo spettro delle guerre climatiche) – hanno dato impulso a un approccio più militarizzato alla difesa. Uno spostamento aggressivo delle priorità può essere scorto in maniera più chiara nella narrazione ricorrente secondo cui la sicurezza deve essere garantita prima che le conseguenze si realizzino. Un simile cambiamento di mentalità ha inevitabilmente portato l’Ue a iniziare a reindirizzare i fondi per la costruzione della pace o lo sviluppo verso fini militari, sia in patria che nei paesi terzi.
Il documento politico più recente, la Bussola Strategica, è stato presentato non come «una soluzione miracolosa che magicamente consentirà all’Europa di sviluppare una politica di difesa comune da un giorno all’altro», bensì come spinta a essere più coordinati. Impegna l’Ue a sviluppare una capacità di dispiegamento rapido di cinquemila soldati per diversi tipi di crisi e, per la prima volta a livello Ue, a organizzare regolari esercitazioni dal vivo. La Bussola è la guida strategica più dettagliata e più densa nel suo genere dal punto di vista geopolitico, identifica gli avversari, descrive le minacce ed espone le ragioni a favore dei coinvolgimenti.
Afferma con orgoglio che «il futuro dell’Africa è di importanza strategica per l’Ue» e che «la stabilità nel Golfo di Guinea, nel Corno d’Africa e nel Canale del Mozambico rimane un importante imperativo di sicurezza per l’Ue, anche perché sono luoghi chiave delle rotte commerciali». Con un linguaggio sorprendentemente geopolitico, descrive anche un «nuovo centro di competizione globale» che si sta aprendo nell’Indo-Pacifico, dove le tensioni «mettono in pericolo l’ordine basato su regole nella regione e mettono pressione sulle catene di approvvigionamento globali».
Sebbene pubblicizzino chiaramente la rinnovata lealtà di Bruxelles nei confronti di Washington, questi tipi di interventi non possono essere considerati semplicemente come una messinscena imperiale. Zaki Laïdi, consigliere di Borrell, ha recentemente riassunto la svolta geopolitica con termini crudi. A suo avviso, il concetto di «Europa geopolitica» è «una visione che rompe con la visione classicamente interdipendente e liberale del mondo su cui l’Ue ha basato le sue politiche», indicando l’esempio di una rapida riduzione della dipendenza tedesca dalle importazioni di energia russa.
Ma cosa intendono i politici europei quando affermano che l’Ue non è più una potenza civile, e come ciò fa presagire il futuro del blocco?
Una potenza geopolitica
Gli europei hanno inteso l’Ue come una potenza civile, una potenza normativa e, ora, una presunta potenza geopolitica. Sebbene il termine stesso sia un conio suo e di Borrell, l’idea di base di una «Europa geopolitica» non è iniziata con von der Leyen. Il suo predecessore come presidente della Commissione, Juncker, era un sostenitore con una mentalità geopolitica di una «forza militare comune» per «complementare la Nato», che supervisionava la Strategia Globale.
Per dirla in parole povere, l’Ue considerava il «potere civile» quello che cerca di «civilizzare» le relazioni internazionali promuovendo il multilateralismo e il diritto internazionale. L’idea di un «potere normativo», cugina di questa missione civilizzatrice, suggerisce che la proiezione da parte dell’Ue dei propri decantati valori costituirebbe un esempio per il mondo ottenebrato, trasformando le relazioni internazionali a propria immagine.
Nel suo recente libro, Eurowhiteness: Culture, Empire and Race in the European Project, Hans Kundnani ci fornisce alcuni indizi sul motivo per cui l’Ue si è geopoliticizzata da cima a fondo. Sostiene che queste scuole di pensiero – civile, normativa – «hanno prodotto una tendenza a idealizzare la politica estera dell’Ue e una mancanza di autoriflessività». Ciò che lui definisce una svolta di civiltà nel progetto europeo, un’Europa definita in termini etnico/culturali, sembra essere andata in parallelo alla svolta geopolitica, entrambe le quali (non a caso) si prestano agli obiettivi geostrategici degli Stati uniti.
Americanizzazione della politica estera
È discutibile se l’Ue potrà mai arrivare a una politica di difesa comune senza approdare agli Stati uniti d’Europa. Ma un modo di guardare alla militarizzazione dell’Ue è che i falchi atlantisti, sempre più potenti nell’Ue, lo fanno non per una sola ma per diverse ragioni: rafforzare la Nato, seguire la formula keynesiana militare di Washington e prepararsi alle provocazioni russe su tutta la linea.
Per il sociologo economico Wolfgang Streeck, l’Ue è semplicemente «un ausiliario economico della Nato», il cui ruolo è quello di «aiutare l’Occidente a circondare la Russia sul suo fianco occidentale mantenendo i governi filoamericani al potere negli ex Stati satelliti sovietici». Tuttavia, come ci ha mostrato questa spinta verso il militarismo, il ruolo dello scagnozzo economico richiede strumenti di guerra. Invece di ritagliarsi qualsiasi briciolo di autonomia da Washington, questo approccio avvicina l’Ue agli Stati uniti.
Se l’Agenzia europea per la difesa fosse immaginata come un’Agenzia continentale per i progetti di ricerca avanzata della difesa (Darpa), e se la nuova strategia di difesa proponesse di copiare lo schema statunitense Foreign Military Sales (che consente a Washington di firmare contratti direttamente con capitali stranieri per semplificare le vendite di armi), allora forse ciò a cui stiamo assistendo non è tanto un’europeizzazione quanto un’americanizzazione della politica estera dell’Ue.
Come ha sottolineato Lily Lynch, la nuova strategia industriale potrebbe portare alla creazione di un nuovo ruolo di commissario alla difesa, assunto da una figura polacca o baltica, il che si tradurrebbe in un irrigidimento dell’atlantismo dell’Ue «mentre il centro di gravità dell’Europa si sposta verso Est». Una volta che mira all’integrazione e non minaccia di indebolire la Nato, la militarizzazione dell’Ue diventa un matrimonio di convenienza per le élite statunitensi ed europee.
Il futuro prossimo
Anche se molti sottolineano i limiti di questa «potenza poco meno che grande», è sufficiente che cerchi di agire come una grande potenza. I confini sempre più militarizzati e il netto cambiamento da un annacquato Green New Deal europeo a una spesa per la difesa sempre crescente ci danno motivo di credere che l’Ue sia estremamente seria nel sottofinanziare i servizi pubblici nel perseguimento di obiettivi militari.
Il tempo dirà se l’Unione europea riuscirà a ottenere una maggiore integrazione militare tramite una fiorente industria degli armamenti, magari attraverso i Battlegroup dell’Ue ancora da schierare, che sono unità militari multinazionali destinate alle zone di crisi e di conflitto emergenti in tutto il mondo. Ma la preoccupazione più urgente, come ha sottolineato la Rete europea contro il commercio delle armi, è che i rapaci produttori di armi utilizzino (come hanno già fatto) questo nuovo paradigma di militarizzazione a proprio vantaggio.
Anche se i paesi dell’Ue sono già collettivamente il secondo maggiore esportatore di armi al mondo dopo gli Stati uniti, i produttori di armi stanno cercando una militarizzazione più profonda dell’Ue chiedendo «accesso ampliato ai programmi civili» e «accesso illimitato alla finanza sostenibile» attraverso la Banca europea per gli investimenti. Agli occhi di questi mercanti di morte e dei politici europei che sperano di sostenerli, l’opportunità per la gloria della Grande potenza potrebbe andare perduta se gli Stati membri non riuscissero a deviare risorse «dal suo amato stato sociale».
Ma c’è uno spiraglio di luce in mezzo a tutte le oscure premonizioni della guerra. In tutto il continente, l’attivismo contro la guerra è ripartito dopo il genocidio di Gaza. La domanda resta questa: dove e come si può esercitare la stessa pressione su questa istituzione estremamente antidemocratica e irresponsabile per modificare la traiettoria attuale prima che sia troppo tardi?
*Colin Gannon è un giornalista e ricercatore irlandese, ha scritto per Baffler, Tribune, The Guardian e Verso Books, tra gli altri. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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