L’«happywashing» del Jova Beach
Il problema non è Jovanotti in sé (tantomeno il suo pubblico) ma l’idea di impegno minimo e individuale che veicola, basata su accoppiate vincenti per difendere il liberismo: grande=bello, positivo=apolitico, critico=fastidioso
Premessa minore: questo articolo non fornisce l’ennesima sfilza di argomenti secondo cui il Jova Beach Party – cioè il tour musicale organizzato da Jovanotti in alcune spiagge italiane e giunto alla seconda edizione dopo la prima del 2019 – comporterebbe una serie di problemi in termini ecologici e in particolare per alcuni ecosistemi fragili come quelli dunali. Dettagliate spiegazioni sono presenti ad esempio qui, qui e qui. Inoltre, nelle ultime settimane è riemersa l’altra grande questione riferita al mega-tour, ossia quella relativa alle condizioni di lavoro dello staff. Lo stesso Jovanotti ha aperto il suo ormai celebre video su Instagram del 5 agosto (quello che si conclude con l’apostrofe di «econazisti» a chi usa il termine «greenwash») con una lunga introduzione volta a smentire le accuse di lavoro-nero. Anche da questo punto di vista, dunque, nulla di nuovo rispetto al 2019, per cui si può consultare il bell’articolo di Marta Fana proprio su Jacobin Italia.
Premessa maggiore: l’intento di questa breve riflessione è piuttosto quello di parlare non dico a Jovanotti (il quale si è dimostrato completamente sordo a qualsiasi critica, ma anche a qualsiasi tentativo di dialogo), ma a una parte del suo pubblico e/o a chi è super partes nella diatriba fra Jovanotti e quelli che lui chiama econazisti. O per lo meno è quello di invitare la bolla genericamente progressista e «di sinistra» a guardare senza acredine indiscriminata i fan di Jovanotti.
Fatte queste premesse, urge un ulteriore preambolo di sociologia della comunicazione for dummies: si tratta di un’estrema semplificazione, anche parzialmente lacunosa, di cui mi scuso in anticipo con gli e le esperte del settore. È tuttavia un preambolo necessario, per giustificare quanto detto sopra e introdurre il seguito. Come sempre, ma sempre più, vi sono argomenti trasversali e (quasi) universali, vale a dire temi di cui dibatte chiunque, al bar, in televisione, a casa propria: nella casistica rientrano le guerre, le pandemie, l’11 settembre, ecc. Ci sono poi temi altrettanto trasversali ma di portata nazionale: le elezioni (anche se sempre meno, e sicuramente sempre meno lo sono le campagne elettorali), le tasse, Sanremo, poco altro. In qualche modo il Jova Beach Party è diventato un argomento trasversale a livello nazionale. Ci sono poi, e sono la maggior parte per la maggioranza delle persone, gli argomenti trasversali a livello locale: indagini, polemiche, varie ed eventuali che strutturano la quotidiana dieta mediatica della gente. Questi temi diffusi presso gran parte della popolazione sono spesso assimilati, digeriti e discussi all’interno di specifiche bolle. È sempre stato così, ma sicuramente i social hanno ingigantito il fenomeno. A fianco di questi argomenti, ci sono poi quelli specificamente legati a una bolla: il gossip, il calcio, la cucina. Dopo ancora ci sono quelli delle micro-bolle: il cinema d’autore, l’heavy metal, il cosplay; fra questi entrano anche le innumerevoli questioni di lana più o meno caprina che affrontiamo nelle nostre bolle «di sinistra» ogni giorno, e che – ogni tanto è bene ricordarlo, per quanto sia ovvio – non fregano quasi niente al 95% della gente, per lo meno non al livello di analisi, linguaggio e profondità con cui li discutiamo noi.
Queste gigantesche banalità sono la premessa per dire essenzialmente due cose sul Jova Beach Party. La prima riguarda la «bolla di sinistra» ed è già stata anticipata: in molti dei numerosissimi articoli usciti in queste settimane sul Jova Beach Party ci stiamo letteralmente parlando addosso. La seconda, evidentemente collegata, è che la questione Jova Beach Party è molto più grave di quanto sembri, e dovrebbe interessare un po’ tutte e tutti.
L’happywashing
Per sostanziare queste due affermazioni si può partire da uno degli ultimi atti di questa vicenda: la risposta di Jovanotti alla lettera scritta da Mario Tozzi e pubblicata su La Stampa il 9 agosto. Non è un caso che Jovanotti abbia risposto a un appello giuntogli da un personaggio televisivo, più o meno conosciuto, e che ha scritto su un grande giornale. Mentre tutte le altre e gli altri sono bollati come «econazisti», Tozzi ha meritato una risposta. L’operazione fatta da Tozzi è importante perché, con garbo e volontà di dialogo, ha riassunto alcune delle problematicità del grande tour di Jovanotti: criticità che a noi paiono auto-evidenti, ma che tali probabilmente non sono agli occhi di molta gente. Questo è un punto su cui davvero bisogna iniziare a fare i conti: non solo per le questioni ambientali e climatiche, ma per tutta una serie di altri temi, specie in vista degli scenari politici che si profilano dopo il 25 settembre.
La riflessione sulla nostra marginalità culturale rispetto al discorso egemonico non deve rimanere una tantum; deve diventare il primo pensiero ogni volta che si cerchi di veicolare un discorso o una pratica anti-mainstream. Bisogna rimanere consapevoli di quanto gli apparati comunicativi a disposizione dei grandi marchi, dei grandi partiti, del grande associazionismo, delle grandi star consentano sempre più a questi soggetti di arrivare in modo diretto, unilaterale e pervasivo alla gente. A questo certamente va aggiunto il conformismo tipico della modernità, per cui è difficile fare i bastian contrari, si seguono le mode, si adotta la strada della «presabene», ecc. Ma, come sempre, dare la colpa ai singoli individui non è la soluzione: il problema sta nel lato dell’offerta, e con quella bisogna competere.
Chiudersi in analisi troppo complesse non serve (o comunque non serve a livello politico e divulgativo), così come non ha troppo senso usare toni muscolari quando ci si rivolge al pubblico di Jovanotti, che probabilmente è davvero convinto per la gran parte di fare «qualcosa di buono per la natura» o che magari ritiene superflua la polemica: non è probabilmente un pubblico convinto che siamo «econazisti», e non bisogna dare sponda a questa uscita del loro beniamino.
Per questo le critiche vanno fatte in modo semplice e non filosofico: ben vengano dunque anche gli articoli come quello di Tozzi. Molto istruttivo, d’altra parte, è il contenuto della risposta di Jovanotti alla lettera di Tozzi: io non so niente, ma «lo dice il Wwf»; bisogna fare come dico io; noi siamo bravi e gli altri nazisti; e anche tu Tozzi sei un po’ cattivo (riferimento vendicativo a un evento cui ha partecipato Tozzi e che secondo Jovanotti sarebbe paragonabile allo scempio che il suo tour sta compiendo sulle spiagge italiane) e sei pure un po’ paraculo come me (Tozzi avrebbe «benedetto» il Jova Beach Party nel 2019).
In questa faccenda del Jova Beach Party, in fin dei conti, non c’è davvero niente di nuovo, specie se la si guarda in prospettiva ecologista, ed è proprio per questo che è più pericolosa di quanto sembri, specie nel contesto attuale e futuro di crisi ecologica e climatica. Al di là dello show mediatico, si tratta infatti della solita diatriba fra ambientalismi. Da una parte, c’è il grande associazionismo ambientalista, peraltro oramai ridotto quasi solo al Wwf, dopo che altre grandi Ong, come ad esempio GreenPeace, hanno abbracciato posizioni più radicali e politiche, anche grazie all’impulso ricevuto dall’ondata di protesta climatica giovanile del 2019. Dall’altra, c’è il mondo dell’ecologia politica e della giustizia ambientale e climatica: si tratta dell’idea per cui le tematiche ambientali sono fortemente politiche, legate a diversi assi di potere (e di sfruttamento, sia sugli umani che sul resto del vivente), avendo diverse ricadute su diversi strati di popolazione.
Jovanotti contribuisce a rafforzare questa dicotomia, appoggiando le posizioni dell’associazionismo mainstream che sostiene il «capitalismo verde» (celebri le campagne congiunte di Wwf e Coca-Cola), e al contempo dipingendo come fastidiosi e pure un po’ disgustosi coloro che propongono un diverso modello di relazione con l’ambiente, ma anche un’idea diversa di crescita e sviluppo: un insieme di soggetti che va dalle mobilitazioni contro le grandi opere fino alla decrescita, passando per i movimenti per la giustizia ambientale e climatica. Su questo, come giustamente diceva il collettivo Alpinismo Molotov in un pezzo diventato virale nel 2019, il problema non è Jovanotti in sé (e, aggiungo io, tantomeno il suo pubblico); il problema è la funzione esercitata da Jovanotti, il suo essere funzionale al potere tramite la visione di mondo che egli veicola: un’idea totalmente in linea con il vangelo neoliberista, fatta non più di un disimpegno qualunquista e proto-berlusconiano, ma di un impegno minimo e strettamente individuale (raccogliamo la plastica), che punta tutto su alcune accoppiate vincenti come grande=bello, positivo=apolitico, critico=fastidioso.
In questo senso, per la gioia di Jovanotti, mi sentirei di suggerire un nuovo hashtag, a mio avviso in questo caso più efficace di «greenwashing» (il quale, giusto per precisione, non è un hashtag ma una categoria analitica abbondantemente usata nella letteratura scientifica da diversi decenni). L’operazione di Jovanotti più che greenwahsing appare una specie di «happywashing»: l’obiettivo è far passare il vangelo dell’ecomodernismo e del consumismo green sotto forma di grande divertimento, eludendo così le critiche sui contenuti ricevute da attivisti ed esperti dietro l’argomento «siete dei presi male, non vi piace la (mia) festa». In un mondo che avrebbe bisogno di decrescita, Jovanotti ci propone l’idea del grande-evento-ovunque-e-comunque, in cui – mettiamo anche che l’umano faccia dei danni – poi al massimo rimedierà: in questo caso «raccogliendo la plastica», più in grande tramite qualche nuova tecnologia.
Non c’è una divisione buoni/cattivi
Tuttavia, nelle sue uscite più recenti, Jovanotti tocca anche un paio di tasti dolenti. Il primo di questi tasti è un po’ teorico, e non è il luogo giusto per sviscerarlo. Penso sia l’unica cosa interessante e potenzialmente condivisibile detta da Jovanotti in tempi recenti, non so con quanta consapevolezza o se – più probabile – come strategia comunicativa per ridimensionare gli impatti del suo tour: il cantante infatti ha invitato a riflettere sul fatto che il concetto di «natura» non sia dato in sé, ma che sia storicamente e culturalmente costruito (non lo ha detto proprio così ma il concetto era quello, ed è uno dei temi centrali nei dibattiti di ecologia politica) e che pertanto anche lo stadio di San Siro – normalmente individuato come più adatto per un grande show – non è ontologicamente contrapposto alla spiaggia di Fermo o di Roccella Jonica.
Il secondo tasto dolente riguarda la pericolosa affermazione di una dinamica dicotomizzante buoni/cattivi, che sembra riprodursi da ambo le parti rispetto alla questione del Jova Beach Party. Da una parte, opporsi a esso sarebbe sinonimo di maggior integrità morale, informazione su tematiche socio-ambientali e consapevolezza ecologica; dall’altra, l’adesione entusiastica all’evento equivarrebbe a spensieratezza, voglia di festeggiare e rifiuto dell’abbruttimento tipico del «popolo del no» (altro termine usato da Jovanotti, in assonanza con Renzi, Calenda e Berlusconi). Questa dinamica è deleteria, sia perché anche noi abbiamo certamente i nostri scheletri nell’armadio – Tozzi docet – e non siamo necessariamente individui migliori rispetto ai fan di Jovanotti, sia perché rischia davvero di individuarci (nella spirale comunicativa) come i «presimale». Un conto è la schiena dritta, la lotta e l’ecologismo politico; un conto è riprodurre il discorso dominante che vorrebbe ecologisti e nuovi movimenti climatici come sostenitori di un catastrofismo fine a sé stesso.
Ballare e «divertirsi da morire»
Da un lato, dunque, è evidente che la retorica di Jovanotti sulla «presabene» sia da rigettare in toto, perché riproduce e rinforza il «divertirsi da morire» tipico del vangelo neoliberista e sdoganato in modo cafone da Berlusconi nel nostro paese. Non è un caso pertanto che, così come chiunque non fosse allineato alla linea del Cavaliere era un «pericoloso comunista», chi non condivide la «presabene» di Jovanotti diventi un «econazista».
Allo stesso tempo, però, bisogna precisare al «pubblico generalista» (quello della macro-bolla) e anche ai fan di Jovanotti che il movimento ecologista e climatico – cioè quello che Jovanotti chiama econazismo – non è sinonimo unilaterale di catastrofismo, ma significa anche entusiasmo e prospettive. Si tratta di prospettive informate, critiche e attente alla devastazione antropica degli ecosistemi (oltre che al cambiamento climatico), ma non si tratta di una generica «guerra contro la festa», come vorrebbe farla passare Jovanotti e con lui l’apparato mediatico, gli sponsor e persino le amministrazioni locali che sostengono l’evento per chiare ragioni d’immagine e di ritorno economico.
Dobbiamo anzi ribadire, parafrasando l’anarchica russa Emma Goldman, che «se non si può ballare, allora non è la nostra rivoluzione». Nel mega-tour di Jovanotti tuttavia non c’è nulla di rivoluzionario, ma solo conservazione (si fa per dire) dell’esistente. Serve invece più che mai pensare e lottare per un mondo diverso e migliore, in cui l’antropocentrismo – se non proprio radicalmente eliminato – si possa per lo meno ridimensionare e non invece rivendicare esplicitamente come fa un evento quale il Jova Beach Party. Lo si può e lo si deve fare anche continuando a ballare.
*Niccolò Bertuzzi è ricercatore alla Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento e membro del Centre on social movement studies.
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