
L’innesco della «guerra al terrore»
Dopo l'attacco alle Torri gemelle di vent'anni fa Bush aprì un conflitto asimmetrico e senza confini. Ha finito per rendere più forte il nemico che voleva combattere
Se c’è una cosa che gli statunitensi sanno fare benissimo è appiccicare etichette. Uno dei loro capolavori, in questo senso, fu chiamare «guerra al terrore» una caccia all’uomo di portata globale e l’invasione di più paesi. Si trattò della prima dichiarazione di guerra contro un’emozione, il terrore appunto. E quando fai la guerra a un’emozione il tuo nemico, ma anche il tuo amico, sono entità molto vaghe. Tecnicamente il tuo nemico non esiste o meglio: è tutto e niente, ne esistono al limite alcuni «campioni». Ad esempio membri di organizzazioni che hanno dichiarato guerra a te, sparsi in mezzo pianeta, o anche quelli che poi imparammo a chiamare «non state actors», che la fanno da padrone qui e là. Ma il «bersaglio grosso» è imbattibile perché il terrore ha mille volti, crea di per sé asimmetrie e – come la storia insegna bene – può manifestarsi in forme sempre diverse. Se l’intero Occidente va in allarme perché un uomo urla per strada «Allah akbar» allora dichiarare guerra al terrore è dichiarare la propria impotenza sistemica, un fatto che in queste ultime settimane – con il ritiro statunitense dall’Afghanistan – è più evidente che mai.
Nella migliore delle ipotesi – ovvero nell’eventualità che la cosa avesse una qualche ragion d’essere – il 12 settembre 2001 Bush fece una dichiarazione di guerra asimmetrica totale. Dichiarò guerra a un’entità in via di definizione che finì per assumere diverse forme, in base alla temperatura del termometro: una signora che indossa un hijab nella metropolitana o un gruppo di guerrieri afghani ideologicamente inquadrati, adeguatamente armati e finanziati; una banda di criminali algerini dediti al traffico di sigarette, eroina e armi o un delinquente comune della provincia francese che ieri si è fatto «soldato dell’Isis su internet dal carcere. Un’entità che si autodichiara «nemica» ma anche un nemico che hai in testa e non sai bene come identificare. Molto facile, molto comodo.
Il terrore è un’emozione e una guerra al terrore lo alimenta, diventa terrore a sua volta. Specialmente se, forse per favorire l’industria bellica, hai fatto male i calcoli (come a suo tempo fecero, sotto l’egida del think tank neocon Project for the New American Century i 25 firmatari del «Rebuilding America’s Defenses») e la supremazia militare che millanti non ce l’hai davvero. Poiché la guerra è globale il nemico è ovunque, devi avere gli strumenti per combatterlo ovunque, con ogni mezzo a tua disposizione. Dunque, in primo luogo promulghi dispositivi legislativi liberticidi come il patriot act, aprendo la porta a quel retropensiero, poi riproposto in ogni contesto e in ogni situazione definita «crisi» – vedi la cosiddetta «crisi dei profughi» del 2015 – in base al quale si debba rinunciare a un po’ di libertà per ottenere sicurezza. Un retropensiero cui il nostro Signore delle spie – così il New York Times definì Marco Minniti – diede una lettura tutto sommato naive quando nel 2018 intitolò Sicurezza è libertà il suo libro su terrorismo e immigrazione. In seconda istanza, poi, giocando sulle falle del diritto internazionale e sulla pressione che riesci a esercitare su governi o paesi che non sono in grado di reagire, usi tutta l’intelligence e la tecnologia militare di cui disponi per andare a prendere (prima fase, Guantanamo, una prigione che non riuscirai più a chiudere) o direttamente assassinare (seconda fase, la guerra dei droni che produrrà enormi «danni collaterali», ovvero una carneficina di innocenti) chi vuoi e quando vuoi.
Il risultato è che per trovare i terroristi terrorizzi intere generazioni di afghani, di iraqeni, bombardandoli nelle case e torturandoli nelle prigioni (Bagram, Guantanamo, Abu Ghraib e Camp Bucca le più famose). La dinamica, ben presto, diviene quella della profezia che si autoavvera: cerchi il nemico in modo così cieco, violento, infame, che alla fine lo fabbrichi – il numero di organizzazioni e affiliati ad al-Qaida e succedanei esploderà dopo il 2001 – non solo esibendo prove false all’Onu ma, soprattutto, spargendo sistematicamente morte e disperazione, mettendoti discorsivamente sullo stesso identico piano di Osama bin Laden, ossia di un ingegnere saudita blandamente indottrinato.
Si tratta, all’osso, del famoso scontro di civiltà, teorizzato anni prima dal politologo Samuel Huntington e applicato pregiudizialmente per fini politici e probabilmente, tornando ai neocon, a scopo di lucro. Con chi facciamo la guerra ora che l’Urss non c’è più? Lo scontro di civiltà porta con sé, in Occidente, il suo lato islamofobo che non significa «libertà di criticare l’islam» bensì dare fuoco alle moschee, aggredire persone che sembrano musulmane, uccidere decine di giovani socialisti norvegesi riunitisi sull’isola di Utoya con un fucile da assalto per scongiurare la nascita di «Eurabia», il fantasma ideato dalla polemista Bat Ye’or e poi divulgato a uso e consumo di destrorsi e moderati di ogni paese dalla giornalista Oriana Fallaci.
Se noi, come dicono Bin Laden e i suoi epigoni di seconda e terza generazione, siamo «i crociati», allora loro, cioè «i musulmani» o – usando un termine ambiguo ormai in uso – «gli islamici», vanno perlomeno cacciati via dalle nostre terre. La guerra al terrore, oltre a essere una carneficina, si rivela una vera e propria fabbrica dell’islamofobia (si veda per questo la seconda edizione di The islamophobia industry di Nathan Lean, Pluto press), che oltre a produrre odio e violenza fa da apripista all’era della post-verità. Le opinioni pubbliche familiarizzano con l’idea che una guerra al terrore si possa davvero fare e, grazie a dosi giornaliere di propaganda e fake news seguite dal mantra «sei con noi o contro di noi», perdono a tal punto la misura della realtà che, dieci anni dopo, rivolte e rivoluzioni – nel Mediterraneo e oltre – assomiglieranno a complotti. La disconnessione è così chiara che qualcuno potrà descrivere feroci dittatori come i nostri migliori amici, come baluardi della pace e della sicurezza.
Eccolo qui, ben confezionato, l’inghippo teorico-propagandistico, con i suoi succedanei operativi e retorici: esportazione della democrazia, state building, peacekeeping, counterterrorism, counterinsurgency e tante altre etichette da appiccicare su operazioni più o meno sporche, come fossero pezze microscopiche da mettere su voragini enormi. Materie su cui un esercito di «pundit» si riverserà a corpo morto, costruendo un’altra industria ancora, quella dei «pensatoi» che hanno il compito di produrre montagne di intelligence (spesso piena di stupidità e nella quale trovare tutto e il contrario di tutto) a uso e consumo dei committenti e/o di lettori educati alla geopolitica – disciplina che conosce un vero e proprio boom.
La guerra al terrore ha ri-codificato l’idea di «guerra» installando, in assenza di una comunità internazionale che possa definirsi tale, il paradigma della violazione sistematica delle regole della guerra convenzionale e del diritto internazionale, rendendo le violazioni una costante, un evento ordinario, e agendo spesso in contesti in cui formalmente una guerra non c’è, non è mai stata dichiarata.
Alcuni esempi fra tanti. Senza nessun controllo, e con rari scandali che hanno portato a punire qualche capro espiatorio, le prigioni per terroristi, sparse in tutto il mondo, rimangono luoghi di umiliazione e tortura. È risibile il controllo sui droni quando questi vanno a «uccidere i terroristi» in giro per il mondo. Di fronte all’uccisione di decine o centinaia di civili in un paese non formalmente belligerante ci dovrebbe bastare l’informazione in base alla quale quelli erano «scudi umani volontari», cioè amici dei terroristi, non importa se bambini. Non sappiamo, a oggi, quali siano i «danni collaterali» provocati alla Mosul «liberata» dall’Isis, è come se in quella città abitassero soltanto terroristi. «Non state actors» o «proxies» vengono pagati ed equipaggiati per combattere, perché l’opinione pubblica non accetta più «morti americani». Intanto diversi micro-eserciti di mercenari controllano «istallazioni strategiche» per conto di qualche governo o di qualche privato e talvolta sparano su civili «ostili».
Poiché questo è l’andazzo del capofila, sul nuovo paradigma si accomodano i diversi belligeranti, statali o meno, sempre più attivi con il progressivo ritiro statunitense da alcuni teatri di guerra. Succede dunque che Abd al-Fattah al-Sisi dichiari la Fratellanza musulmana un’organizzazione terroristica e sbatta in galera decine di migliaia di persone. E che dichiari terroristi tutti coloro che non sono d’accordo con lui, compreso Patrick Zaki. Succede che, seguendo il copione americano, Bashar al-Asad dichiari «terroristi» i manifestanti che chiedono riforme e, mentre libera decine di jihadisti dalle proprie galere, cinga d’assedio intere città, radendole poi al suolo. Succede che anche la Turchia decida di avere i propri mercenari, jihadisti o meno poco importa, e che li recluti fra le migliaia di combattenti siriani anti-regime, cioè fra persone che ormai conoscono solo un mestiere. Combatteranno in Siria e poi verranno inviati in Libia. Succede che in nome della guerra contro l’Isis scendano in campo decine di stati, spesso antagonisti in quello e altri scenari, ognuno con una sua agenda sulla quale la parola Isis compare a matita sull’ultima pagina. La Russia, ad esempio, bombarderà per mesi aree dove l’Isis non c’è, al solo scopo di aiutare al-Asad nella sua guerra e prendendo di mira scuole e ospedali dove «certamente si nascondono terroristi», mentre la Turchia, impegnata formalmente contro lo Stato islamico, farà «apri e chiudi» alle frontiere con i combattenti di Daesh impegnati contro le milizie Ypg/Ypj curdo-siriane.
La guerra al terrore diventa permanente, non dichiarata, a bassa intensità. È uno stato di crisi indefinito e infinito nel quale aree sempre più vaste sono dominio di chi è in grado di erogare più violenza di altri; si veda quel grigio, che si espande a macchia d’olio, in mezzo a cui passa la famosa linea Sykes-Picot fra Siria e Iraq; si vedano quei paesi africani che la Fortezza Europa ha indicato come propria «frontiera esterna». La guerra al terrore – perché sicurezza è libertà, ricordiamolo – è il passepartout che permette all’industria bellica di riciclarsi nel settore della «sicurezza privata», cioè in ambito civile, diventando l’apparato repressivo che si scaglia contro milioni di persone inermi la cui colpa sarebbe di voler fuggire da una guerra o una carestia, o cercare una vita migliore fuori dal proprio paese.
Dopo vent’anni la guerra al terrore è ovunque e sono sempre di meno le persone che non la sperimentano sulla propria pelle. Da questa parte del muro la si vede ma non la si sente, se non in rarissime occasioni.
*Lorenzo Declich è un esperto di mondo islamico contemporaneo. Traduttore dall’Arabo di saggi e romanzi, è autore tra l’altro di Islam in 20 parole (Laterza, 2016), Giulio Regeni, le verità ignorate (Alegre, 2016) e Siria, la rivoluzione rimossa (Alegre, 2017).
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