
L’insostenibile leggerezza (reazionaria) della Marvel
L’Universo Cinematografico Marvel sembra concepito apposta per porre un limite all’immaginario politico. E invece abbiamo bisogno di raccontare un altro mondo anche attraverso la cultura di massa
Social media, siti specializzati e giornali sono correntemente oberati dal dibattito scatenato all’indomami delle dichiarazioni di Martin Scorsese, con le quali il regista americano, in modo tranchant e spietato, declassa il Mcu (Marvel Cinematic Universe) al livello di non-cinema, di theme-park per affezionati. Orde di fan reagiscono alle opinioni ‘snob’ di Scorsese, ora rinforzate dal perfino più ispido contributo di Coppola e Loach, separando in modo manicheo sostenitori e detrattori, anziane e passé élites culturali da presunte giovani folle entusiaste. Al di là delle polemiche correnti, arrivate ormai in modo bizzarro alla diatriba su cosa sia o meno ‘Cinema’, un aspetto fondamentale, e ben più problematico, viene totalmente eclissato ed escluso dal dibattito, ovvero di quale forza, potenzialità, e discorso etico e politico si facciano portatori i film dell’universo Marvel.
Ampia disamina potrebbe, ad esempio, meritare l’analisi del sistema produttivo e distributivo del Mcu, evidenziando come esso porti a estreme conseguenze il monopolio capitalistico tipico della Hollywood contemporanea, fatta di media conglomerates, blockbusters e coorporation, capaci di saturare costantemente l’offerta e standardizzare la produzione in modo tale da far impallidire la pianificazione centralizzata di Staliniana memoria, e ridurre lo Studio System degli anni Trenta-Cinquanta del Novecento a una piccola industria provinciale. Pur tenendo presente questo terrificante aspetto, più esplicitamente economico (Gilles Deleuze diceva «il cinema e le arti non possono morire naturalmente, ma ci sono tanti assassini in giro»), ciò che appare necessario è, invece, una discussione dei testi cinematografici nella loro specificità e un’osservazione critica delle dinamiche di potere che essi intrinsecamente esprimono.
Tale sforzo appare tanto più urgente dal momento che spesso i film Marvel vengono visti e discussi come campioni di un modello morale e sociale inclusivo e progressista (sicuramente più dell’esplicitamente reazionaria e meno efficace produzione cinematografica legata alla Dc Comics), favorendo una forma (vagamente) solidale, antirazzista, e femminista di eroismo. Ebbene, è proprio su questo nodo che si esprime forse la più feroce mossa ideologica che possiamo notare in molti film della Marvel, riducibile alla necessità di stabilire costantemente un limite all’immaginario politico e un argine a un universo mitologico alternativo e radicale. Più che auspicare o delineare i tratti di nuovi futuri e mondi possibili, le varie produzioni cinematografiche di questo universo filmico, dal primo Iron Man (Jon Favreau, 2008), fino ad Avengers: Endgame (Anthony e Joe Russo, 2019), in modo diverso e molteplice, definiscono chiusure all’agire collettivo soprattutto in relazione a drammatici contesti sociali. Partendo dal suddetto Iron Man, ad esempio, non è mai l’industria militare o la funzione imperiale di grandi potenze economiche a essere messa in discussione, solo il modo in cui essa viene adoperata. E cosa c’è di meglio, dunque, che affidare a un privato, nelle vesti di geniale Elon Musk con tanto di esoscheletro, la sicurezza generale? La povertà e lo sfruttamento non esistono nell’universo Marvel (il povero Peter Parker e la single zia May possono tranquillamente permettersi un comodo appartamento al centro di New York); al contempo i problemi non sono mai sistemici, ma frutto di corruzione e abuso di potere, che porta alcuni talvolta a essere capitalisti cattivi (Obadaiah Stane) o funzionari troppo ligi al loro mandato al punto da diventare dispotici (Thaddeus Ross). Allo stesso tempo le/i villain, quando appartengono alla working class (come nel caso di Avvoltoio, Mysterio e le/i sue/oi colleghe/ghi), sono quasi sempre criminali guidate/i dal risentimento, invidiose/i del successo di eroine/eroi positive/i, e quindi spregevoli nel loro immorale odio di classe e spesso straripante maschilismo. È emblematicamente il caso di Killmonger (un nome un perchè) in Black Panther (Ryan Coogler, 2018), presentato inizialmente come guerrigliero anticoloniale da tramutare in un balzo in crudele terrorista e geloso cugino pronto a un’insensata carneficina. Ed è sempre nello stesso film, infatti, che vediamo la tradizione politica radicale del Black Panther Party (da qui il setting frequente delle vicende a Oakland) venire espropriata in una bieca ottica liberal, finendo col giustificare e santificare la figura del buon monarca T’Challa, ora divenuto proverbiale Bruce Wayne di Wakanda che bonariamente elargisce favori ai poveri dei ghetti. Lo stesso discorso può essere esteso al modo in cui molti di questi film estraggono la forza collettiva femminista facendo delle proprie eroine dei modelli di emancipazione individualizzata e «meritocratica», riducendo, se si vuole, il potente grido intersezionale Non Una di Meno nel terribile slogan classista «se lo vuoi puoi» (tanto caro ad alcuni personaggi). In tal modo, agendo per ossimori, film come Captain Marvel (Anna Boden e Ryan Fleck, 2019) riescono a configurare come protagonista una Top Gun che è al tempo stesso una paladina di rifugiati interstellari, disinnescando così la carica sovversiva femminista presente, invece, in altre narrazioni popolari contemporanee (come sottolineato da Selene Pascarella). Ed è infatti l’ossessione per l’eccezionalità individuale, mai collettiva o relazionale, a costituire un altro punto fondamentale dell’ideologia reazionaria Marvel. Menti eccellenti con sette Ph.D che affrontano problemi fondamentali senza bisogno di studio o della cooperazione di una diversa e ampia tipologia di lavoratrici/tori, ma solo in virtù della propria genialità, sono la norma.
Ognuna di queste dinamiche etiche ed estetiche, fra le tante da discutere, ci porta alla descrizione di un mondo di per sé giusto, positivo, immutabile e soprattutto finale, incapace di immaginarsi al futuro e che quindi necessita di appoggiarsi alla nostalgia di altri decenni del Novecento per trovare senso e giustificazione. La più grande prova di questa traiettoria discorsiva è incarnata proprio dall’epilogo della saga Avengers; con una chiara metafora della crisi climatica i due film ci presentano un villain neo-malthusiano: Thanos, che nella sua tirannica onestà, pone la distruzione di metà della vita dell’universo (un insieme di apartheid climatico e soluzione finale) come risposta alla scarsità delle risorse. Il piano del titano è inaccettabile e ingiustificabile, ma qual è la risposta a una simile barbarie? Il martirio cristologico del buon capitalista Tony Stark, che morendo santifica l’esistente lasciando le/i sopravvissute/i e resuscitate/i a godersi un mondo che è bello così com’è. E la crisi ecologica? Dimenticata, rimossa e negata, sostituita da un funerale celebrativo con tutte/i presenti che non ha nulla da invidiare agli episodi di natale di molte soap opera televisive. Non un cenno a un antagonismo presente nel corpo sociale, non una vaga metafora alle lotte ecologiste sono spese in questi capitoli di chiusura, che nella loro monumentale debolezza dimostrano l’inconsistenza del modello economico e sociale senza futuro di cui si fanno indirettamente paladini.
Detto questo, non bisogna paternalisticamente ridurre il Mcu a prodotto immondo dell’ideologia borghese e negare ogni possibilità per un uso dialogico ed eticamente produttivo dei testi filmici in connessione al variabile capitale culturale di comunità di spettatrici/tori, come dimostrato ampiamente, ad esempio, dagli studi di Henry Jenkins. Tantomeno sembra opportuno ricorrere a disfunzionali distinzioni fra cinema popolare e d’élite, utili solo a consolidare situate costruzioni di classe (come sosteneva Pierre Bourdieu), quanto, piuttosto, combattere per quello che Mark Fisher indicava come un nuovo «modernismo popolare», non intrappolato nei meccanismi facili del pastiche e della nostalgia per il passato perduto. Rimane essenziale, però, anche affrontare le dinamiche espressive di ogni esperienza filmica, discuterne le specifiche potenzialità etiche o, al contrario, le trappole morali e immaginative che essi pongono. Come ricordava ancora Fisher, abbiamo bisogno di raccontare un altro mondo e immaginare nuovi futuri, anche attraverso la cultura audiovisiva di massa, ma non pare possibile trovarne molti fra le stantìe, luccicanti e nostalgiche immagini dell’universo Marvel. Per farlo bisognerebbe, invece, liberarsi da quella scomoda e claustrofobica divisa che ognuno di noi porta addosso, quella dell’eroismo individuale, per nulla eccezionale, che ci chiude in corpi atomizzati e identificati separandoci dalla vera forza mutante e affermativa che si esprime nel nostro essere collettività in divenire.
*Francesco Sticchi, PhD in Film Studies, lavora come Associate Lecturer alla Oxford Brookes University, si occupa del rapporto fra cinema e filosofia combinando teoria della mente incarnata e pensiero spinozista.
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