Lo spettro della redistribuzione
Il dibattito in corso sul redditometro nega anche la sola possibilità di misurare le sperequazioni tra ricchezza e contribuzione fiscale: lo Stato deve servire solo a garantire il mercato
La recente vicenda della reintroduzione del redditometro, pubblicato in Gazzetta ufficiale e poi un po’ goffamente sospeso dal governo, è indicativa di un sentire diffuso, costruito abilmente e/o subito.
Non si tratta qui di riflettere e rivendicare lo strumento in sé. Alcuni attenti studiosi del sistema fiscale, come Alessandro Santoro, affermano che il redditometro non sarebbe efficace per perseguire la giustizia fiscale per ostacoli pratici insormontabili. Egli sostiene, infatti, che confrontare i redditi con i consumi sarebbe idea semplice quanto impraticabile concretamente. Solo una ristretta gamma dei possibili consumi sono registrabili, in quanto detraibili, mentre la restante parte è pressoché impossibile da registrare su base individuale da parte di un’amministrazione finanziaria, nonostante siamo nell’era digitale. La stessa tracciabilità dei pagamenti elettronici, dunque dei consumi, è attualmente concretizzabile dal lato del venditore, ma non da quello dell’acquirente, ciò rende complesso accoppiare consumi e redditi personali. Santoro mette così l’accento sulla necessità di impegnarsi su un’analisi comparativa di redditi e patrimoni, legame più facile da verificare attraverso il nesso tra reddito e risparmio da un lato e formazione di patrimoni finanziari e immobiliari dall’altro. Forme di accumulazione che hanno una dimensione specificatamente individuale. D’altro canto ci sono impostazioni provenienti anche dall’interno dell’Agenzia delle entrate che sostengono che un uso massivo dei dati è possibile e quindi anche sul versante dei consumi è pensabile una ricerca corretta, evitando un uso distorto dei dati in termini di controllo improprio.
Ma non è questa la sede per addentrarsi sulla complessa partita fiscale. Mi interessa invece riflettere sul dibattito che scaturisce ogni qualvolta si accenna a una redistribuzione di ricchezza attraverso la via fiscale. L’ultimo esempio risale a maggio del 2022, quando l’allora segretario del Pd, Enrico Letta, aveva proposto che la tassa di successione per i patrimoni superiori ai 5 milioni passasse progressivamente dal 4 al 20%. Un contributo che avrebbe potuto rappresentare una dote di 10 mila euro ai giovani maggiorenni e che avrebbe coinvolto solo l’1% dei contribuenti in Italia. Misura, dunque, con modeste ricadute economiche e sociali ma, tant’è, ha scatenato anatemi da ogni dove, come se la gran parte dei cittadini fosse diventata milionaria. Al punto che l’allora presidente Mario Draghi chiuse la discussione affermando che non era «il momento di prendere soldi ai cittadini, ma di darli»! I cittadini assunti a categoria astratta, indistintamente bisognosa di risorse pubbliche anziché di essere vessata dallo Stato con nuove tasse, seppur mirate.
Oggi per il ritorno del redditometro è stato scomodato il concetto di «Grande fratello fiscale», di «Stato guardone». Parole che fanno seguito a quelle utilizzate in precedenza dalle forze di governo, quali «pace fiscale», «fisco amico» fino alla clamorosa battuta della presidente del consiglio Meloni che ha definito le tasse «pizzo di Stato». Un attacco non a un potenziale aumento di tasse, ma a qualsiasi principio di riequilibrio della pressione fiscale e dunque a qualsiasi principio di giustizia fiscale. Come se il sistema fiscale non avesse alcuna funzione non solo nel consentire una spesa pubblica necessaria (salvo quando bisogna salvare finanza ed economia), ma neppure come riequilibratore delle disfunzioni create dal mercato.
Viene, dunque, negata qualsivoglia funzione al prelievo fiscale e si prepara il terreno politico e culturale per l’applicazione della flat tax. Strumento che presuppone a monte il fatto che le tasse siano solo un indispensabile effetto collaterale della necessità di avere uno Stato forte unicamente in chiave pro-sistemica, cioè utile a puntellare i meccanismi di funzionamento del libero mercato. Perché di questo si parla quando si nega anche la sola possibilità di misurare le sperequazioni tra ricchezza e contribuzione fiscale. Un conto è riflettere su quale strumento possa risultare più efficace in una misurazione finalizzata a ottenere giustizia ed equità, un altro è negare persino il principio di dover misurare le sproporzioni e sperequazioni esistenti.
Chi paga le tasse
Eppure sarebbe proprio da queste ultime che bisognerebbe partire: capire chi sono i contribuenti e se e in che misura contribuiscono al fabbisogno economico e sociale del paese. Diverse statistiche a riguardo indicano che poche sono le fasce di contribuenti significative. Tra le tasse dirette, la principale è costituita dall’Irpef, che risulta prevalentemente a carico di pochi. Un Rapporto del Cnel calcola che nel 2022 il 44% dei contribuenti ha fornito oltre il 92% delle risorse, mentre il restante 56% solo il 7% per un ammontare complessivo di 175 miliardi di euro. Apparentemente un paese con larghe fasce di poveri escluse dal fornire un contributo in termini di tassazione. Ma in quel 44% dovrebbero essere addensate le classi più ricche. Poi si scopre che oltre il 33% del gettito dell’Irpef è fornito dai redditi che vanno da 29.000 a 55.000 euro. I redditi che vanno dai 55.000 ai 100.000 euro forniscono il 18%, mentre dai 100 ai 200.000 l’11%, dai 200 ai 300.000 poco sopra il 3% e oltre la fascia che supera i 300.000 fornisce circa il 7%.
Nonostante l’impossibilità di misurare con precisione la ricchezza attraverso l’Irpef, chi paga le tasse si inserisce in un sistema che risulta progressivo per le fasce economicamente più deboli, poi vi è una pancia di contribuenti medi e, infine, i più ricchi che danno un contributo che rischia di essere inversamente proporzionale ai propri redditi. Che vi sia un sistema progressivo amputato lo si deduce anche dal fatto che il 55% dell’Irpef proviene da lavoratori e lavoratrici dipendenti, 30% dai pensionati (contributo in crescita) e 12% dagli autonomi. In buona sostanza il sistema grava principalmente sul contributo del mondo del lavoro. La percentuale restante è generata da fonti quali capitali o fabbricati.
Se poi si analizza il sistema fiscale nel suo complesso in Italia, cioè comprensivo delle tasse indirette, quelle che gravano indistintamente su ogni cittadino a partire dall’Iva sui consumi, si scopre, come evidenziato da uno studio congiunto dell’Università Sant’Anna di Pisa e Milano-Bicocca, che il meccanismo è solo blandamente progressivo per il 95% più basso della distribuzione del reddito e diventa addirittura regressivo per il 5% dei contribuenti più facoltosi.
Dati che fanno il paio con quanto si è affermato in maniera macroscopica, per esempio, negli Stati uniti, dove una ricerca dal titolo The Triumph of Injustice ha calcolato che nel 2018 le 400 famiglie più abbienti del paese hanno avuto un’aliquota nelle imposte del 23%, mentre quella meno abbienti ne hanno avuto una del 24%, un punto superiore. Ma si sa che il denaro non fa la felicità.
Chi non paga le tasse
L’economista Thomas Piketty sottolinea, inoltre, come il passaggio di patrimoni senza una dovuta tassazione è la principale causa di accumulo di differenze socio-economiche. Una sorta di effetto palla di neve che finisce per negare radicalmente i presunti principi meritocratici a cui dovrebbe dare spazio il libero mercato. C’è, poi, un’elevata evasione fiscale concentrata in particolare nei professionisti e nei lavoratori autonomi, non nelle multinazionali come si potrebbe ritenere. Una ricerca dell’università Milano-Bicocca afferma che l’evasione annuale degli autonomi è pari a 31 miliardi, cioè al 69% del gettito atteso. Mentre l’Atlante del mondo offshore calcola l’evasione delle multinazionali verso i paradisi fiscali in Italia in 7 miliardi (di cui il 90% in paesi dell’Unione europea).
Il contenimento dell’evasione delle grandi imprese è anche il risultato di una progressiva e generalizzata riduzione di aliquote e di pressione fiscale su capitali e redditi d’impresa. Le tasse che attualmente le imprese pagano, non sul lavoro, sono andate via via alleggerendosi. I grandi capitali e le grandi imprese, dunque, generalmente pagano le tasse poiché sono irrisorie, tanto da rappresentare una quota degli introiti irrilevante, se paragonata a quella versata dai restanti soggetti contribuenti. In definitiva avviene il contrario di quanto annunciato con la flat tax: meno evasori sì, ma meno introiti per le casse statali. L’incentivo a evadere scompare in quanto le tasse diventano ultraleggere.
Tax the rich
Recentemente un manifesto firmato da 134 economisti italiani ha proposto un’agenda TaxTheRich. Le principali voci sono: un’imposta progressiva sui grandi patrimoni da applicarsi allo 0,1% della popolazione più ricca, cioè ai titolari di patrimoni netti superiori a 5,4 milioni di euro, l’aumento del prelievo sulle grandi successioni e donazioni, l’introduzione di ulteriori scaglioni e aliquote marginali Irpef. L’agenda prevede inoltre un ampliamento della base imponibile dell’imposta sui redditi delle persone fisiche a tutti i redditi da lavoro e ai redditi da capitale finanziario, con la conseguente abolizione dei regimi sostitutivi (che consentono imposizioni minori). Il manifesto, infine, propone un’azione di «pre-redistribuzione» da parte dello Stato per prevenire a monte un’iniqua distribuzione di potere e di esiti economici sui mercati. Le politiche pre-redistributive dovrebbero accompagnare un rafforzamento dell’azione redistributiva dello Stato stesso attraverso un maggiore prelievo fiscale sui contribuenti più ricchi.
Insomma almeno un inizio di ragionamento che prova a invertire quel senso comune diffuso che anche a sinistra per troppo tempo non si è provato a scalfire, giocando troppo spesso sulla difensiva quando invece gli argomenti per ricompattare politicamente e culturalmente una gran fetta di cittadini ci sarebbero eccome. Anziché accodarsi sul «No alle tasse» sarebbe da costruire una campagna con numeri alla mano per tassare i ricchi e gli evasori, per difendere l’impiego sociale della sfera pubblica e il welfare.
*Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, collabora con il manifesto ed è autore di saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre, 2014) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023).
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