Lo spirito sovversivo del carnevale
Interrompendo per un giorno i ruoli imposti, il carnevale svela la possibilità di mondi totalmente differenti da quello in cui viviamo. E può diventare un antidoto al mantra dell’assenza di alternative
Il carnevale […] non è una festa che si offre al popolo, ma una festa che il popolo offre a se stesso.
Così Goethe commentava l’esperienza avvolgente del carnevale romano, dalle pagine memorabili del suo Viaggio in Italia. Siamo nel 1787, e per almeno un secolo ancora Roma rimarrà tra le regine indiscusse delle sfilate in maschera. E d’altra parte è proprio a Roma che il carnevale sembra aver conosciuto i natali: la vulgata lo vuole erede diretto dei Saturnalia e Baccanalia antichi, feste di fertilità e rinascita nel cuore dell’inverno, successivamente inglobate dal calendario cristiano. Per il Medioevo e per tutta l’Età Moderna, il periodo che va da Natale al mercoledì delle Ceneri sarà il periodo di carne-vale, in cui si può mangiare e bere senza ritegno, avere costumi più liberi in fatto di sesso e facezie, e darsi insomma alla pazza gioia in attesa dei giorni di magra quaresimali.
Sia come sia, queste ricorrenze non sembrano più incidere sul calendario. Ma c’è stato un tempo in cui lo spirito del Carnevale che respiravano Goethe, Dumas e altri illustri viaggiatori europei trapelava ancora dalle pagine dei taccuini ed esprimeva stupore e meraviglia per i cortei variegati e gli scherzi licenziosi. Li portava addirittura a dire – di città come Napoli, ad esempio – che “il resto dell’anno trascorre nel ricordo dell’ultimo carnevale, e l’altra metà nell’attesa di quello successivo”.
Fino alle soglie del Novecento, il carnevale è stata una ricorrenza esplosiva, un momento – scrive Bachtin in L’opera di Rabelais e la cultura popolare – di “interruzione temporanea di tutto il sistema ufficiale, con i suoi divieti e le sue barriere gerarchiche. Per un breve lasso di tempo la vita usciva dal suo binario abituale, legalizzato e consacrato, per penetrare nella sfera della libertà utopica”.
Uno stato di sospensione, dunque, di interruzione della temporalità standard, della quotidianità asfittica, uno sfondamento e un’eccedenza verso qualcosa di liberatorio e utopico insieme. Il suo spirito ambivalente, aggressivo e giocoso, si contrappone alla Quaresima, ma anche al resto dell’anno. È una festa per natura mobile, mutevole, pronta a prendere la forma delle esigenze di chi la vive, ad adattarsi ai luoghi e ai tempi di chi la abita. Un momento immaginifico, capace di rinsaldare le comunità e allo stesso tempo di sgretolare le identità individuali, con le loro distinzioni rigide e binarie: donna-uomo, uomo-animale, animale-vegetale. Nel carnevale, tutto scivola in un’indistinzione feconda, in cui si recupera la libertà del possibile. Così dicono gli storici dei carnevali passati. Ma oggi è ancora così?
Un carnevale particolare
La risposta è meno semplice di quanto potrebbe sembrare. O forse una risposta non esiste affatto, dato che ogni carnevale è diverso – e se è vero che tutti i carnevali si somigliano, ciascun carnevale è felice a modo suo.
C’è però un carnevale che può essere preso a paradigma di tanti carnevali popolari che affollano la penisola. Si svolge tra le vele di Scampia, da ben trentasette anni – da quando cioè Felice Pignataro e Mirella La Magna decidono di dar vita a qualcosa di nuovo e colorato nel grigiore del cemento della periferia napoletana. Nel 1981 Felice e Mirella fondano un’associazione, il Gridas, acronimo di Gruppo di RIsveglio DAl Sonno – “della ragione, che genera mostri” – e nel 1983 organizzano, insieme ad altre realtà della zona, il primo carnevale del quartiere. Un carnevale nato per opporsi alle logiche consumistiche che si erano intrufolate nelle feste dei bambini, con le gare per “la maschera più bella” organizzate da privati nella palestra della scuola.
“Queste festicciole rappresentavano la negazione di tutto ciò che deve essere la scuola: la scuola deve mettere tutti sullo stesso piano; e soprattutto deve dare gli strumenti per costruire le cose, non certo spingere al comprarle!”. Così racconta Mirella alle telecamere di Scampia Felix, documentario del 2017, voluto e girato dalla stessa Gridas per la regia di Francesco di Martino, che prova a raccontare cosa significa carnevale oggi, e cosa significa soprattutto a Scampia – nella terra che “non è solo di camorra”, come ci tengono a precisare i protagonisti.
La storia di Scampia è simile a quella di tante periferie metropolitane – delle borgate romane di Pasolini, ad esempio, oggi nuove centralità del nulla – una storia fatta di ampi spazi sterrati, di campagna divorata e risputata città. A Scampia, grazie alla legge 167 del 1962, le case popolari degli anni Cinquanta e Sessanta, circondate da parchi, scuole, panchine e viali alberati, sono state affiancate da casermoni di cemento armato, dalle famose vele.
Il progetto originale, si sa, voleva la costruzione di una piccola città nella città, una città modello. Come è accaduto ad altri luoghi dello stivale – Tor Bella Monaca, tanto per dirne uno – il programma è rimasto incompiuto. E così, privati di servizi, spazi e immaginazione, sono rimasti solo i palazzi grigi e spenti, nel mezzo del niente. “Non c’era nemmeno un negozio”, racconta ancora Mirella. “Per trovare un alimentari dovevi camminare sei, settecento metri. La gente ha iniziato a vendere le cose in casa, più che altro per fare un favore alla collettività. Ma così è arrivata anche la criminalità”.
Allora fare un corteo di carnevale significava recuperare a questa festa popolare il suo significato antico, e restituire il quartiere ai suoi abitanti: “per un giorno all’anno possiamo andare a spasso per il quartiere, per strade che non sono più le strade della camorra, ma un luogo nostro, vivibile”, continua Mirella.
Con la faida tra gli Scissionisti e il clan dei Lauro del 2004 l’Italia scopre l’esistenza di Scampia. Nella guerra di camorra restano sul campo diciassette morti innocenti, vittime collaterali. Le vele entrano nel novero dei monumenti più fotografati d’Italia, set di film e serie tv. La criminalità non scompare, si sposta solo un po’ più in là, lasciando intatto il deserto.
Per fortuna il quartiere aveva già iniziato a sviluppare degli anticorpi, e dopo il 2004 non fanno che moltiplicarsi. Ad esempio il lavoro di relazione, tassello fondamentale per trasformare spazi grigi e abbandonati in spazi carnevaleschi: “Nessuno parla mai del buono che c’è a Scampia, parlano solo di Gomorra. Nessuno viene a vedere il lavoro che facciamo”, lamenta Emma Ferulano dell’associazione Chi rom… e chi no – Chikù. Per diversi anni il corteo di carnevale si è concluso al campo rom: una realtà radicata, presente sul territorio da molto prima che venissero costruite le vele. “Con il carnevale, spesso raggiungono il campo persone che non ci erano mai entrate prima, che anzi non avevano mai pensato di entrare in un campo rom in vita loro. È uno shock culturale, ma li porta a scoprire che, in fondo, non è poi un luogo così assurdo”.
A Scampia come altrove, il carnevale fa da raccordo tra gruppi, tra pezzi che la quotidianità e le differenze sociali tendono a sparpagliare. La sua carica espressiva, la forza dell’indistinzione che porta con sé, mescola le carte e cambia le regole del gioco. Oggi come ieri, apre squarci di realtà.
Un antidoto al realismo
“Se parli di Scampia fa più rumore, anche se qui abbiamo gli stessi problemi di tantissime altre parti d’Italia”, spiega Gianluca della BandaBaleno, la murga di Napoli. Le diseguaglianze economiche, la disoccupazione, l’assenza dello Stato e della politica, l’abbandono urbanistico e sociale, una scuola che non funziona: problemi diffusi, che accomunano la periferia partenopea a tante altre realtà d’Italia.
Problemi pesanti, da cui si può partire per trovare soluzioni; a patto, però, di operare su di loro il processo trasformativo e rigenerativo del carnevale. Franco Vicario, del Gridas, spiega che il carnevale di Scampia non assomiglia alle feste commerciali, ma è “un carnevale di critica sociale, in genere sull’ultimo anno di merda che si è vissuto […] non è un rito, né una tradizione: è una sintesi politica”.
Nella sede del Mammut, centro territoriale di Scampia, ogni anno piccoli e grandi passano i giorni più freddi d’inverno a costruire i carri e le maschere che verrano utilizzate durante la sfilata. Di norma ci sono due carri: uno rappresenta il polo positivo e l’altro il polo negativo di un tema deciso collettivamente. Nel 2017, anno in cui è stato girato Scampia Felix, il carro positivo era la “barca della cultura”, piena di bambini di tutti i colori, che veleggiava verso l’orizzonte; il carro negativo era la “macchina della scuola” – “che non funziona”, tengono a precisare, la scuola tritacarne “che distrugge la creatività di ragazzi e ragazze costringendoli a omologarsi”.
“Qui non è come a Viareggio”, continua Gianluca, “che sei spettatore della sfilata, guardi i carri costruiti dagli altri. Qui sei sempre attore, e i carri li hai fatti tu”. Questa è una delle caratteristiche storiche del carnevale, che “si può considerare”, scrive Burke in La cultura popolare europea, “alla stregua di una colossale rappresentazione teatrale, in cui le strade principali e le piazze si trasformano in palcoscenico, la città in un teatro senza pareti e gli abitanti in attori e spettatori che osservano la scena dal balcone”. Fra attori e spettatori non c’è una vera distinzione, e l’indifferenza di ruoli porta con sé un’attivazione permanente, l’impossibilità di mantenere un atteggiamento passivo – verso il carnevale in primo luogo, e verso il mondo che lo circonda.
Visto così, il carnevale è quasi una necessità umana – quella di usare la creatività e la capacità immaginativa per trasformare la realtà, o quantomeno immaginarne un’altra se quella che viviamo non ci sta bene. Una necessità così intima da esondare nel tempo ordinario: è il caso dei murales di Felice, che negli anni Settanta iniziò a dipingere le pareti dei casermoni di cemento con immagini e figure, inondando tutto di carnevale.
I murales ebbero tanto successo che Felice e il Gridas iniziarono a coinvolgere le scuole nell’ideazione e nella realizzazione degli affreschi. Felice – spiega sempre Mirella – procedeva in tre fasi. Prima, con i bambini e le bambine, metteva a fuoco il problema, con i suoi lati negativi e le sue difficoltà; poi si insieme a loro si immaginava “il mondo come lo vorremmo”. In mezzo fra i due poli disegnavano la soluzione, composta da tutti loro che si danno la mano, in cerchio, danzando – come un girotondo.
I murales mettono in evidenza un altro aspetto centrale del carnevale: lo spirito carnevalesco non si limita affatto a ribaltare la realtà, a metterne in scena l’esatto contrario, ma ne squarcia il velo d’inevitabilità e ne rivela la natura arbitraria e convenzionale. Il carnevale svela la possibilità di mondi altri, totalmente differenti da quello in cui viviamo oggi, e ci coinvolge attivamente nella loro ideazione e realizzazione, anche solo in potenza. A suo modo, con l’esplosione anomala di colori e la rottura dei ruoli imposti, con la sua carica d’ebbrezza e di gioia incontrollata capace di alimentare immagini e utopie, il carnevale è un vero e proprio antidoto al mantra dell’assenza di alternative – un antidoto al realismo capitalista.
Far saltare il tappo
Certo, il carnevale non è una panacea. Da molti è stato letto come “valvola di sfogo” del mondo pre-moderno: di fronte a ingiustizie e diseguaglianze pesanti e pesantissime, al popolo veniva concesso di essere “re” per un giorno, sbeffeggiare i potenti e vessarli come loro vessavano gli altri, ma nel tempo e nello spazio limitato della festa. Per certi versi, il carnevale era uno strumento di controllo sociale, in cui la sospensione di determinati tabù non faceva altro che sottolinearne la valenza.
Non sempre il gioco funzionava a dovere. La forza trascinante del carnevale, che tutto distrugge e tutto rinnova con i suoi riti bacchici e apotropaici, era talmente pervasiva da infiammare gli animi oltre il consentito e costringere le autorità a porvi un freno. Non è affatto vero che “a Carnevale ogni scherzo vale”. A volte, il tappo della pentola saltava per aria, e i riti popolari si trasformavano in tumulti. Lo testimoniano i numerosi editti che, nel corso dei secoli, sono stati emanati in tutta Europa per proibire il porto d’armi nei giorni di festa. In periodi di crisi o carestia, infatti, era facile che le popolazioni sfiancate trasformassero gli scherzi festosi in vere e proprie rivolte, in cui gli spettacoli dei “finti assedi” diventavano assedi reali a governatorati e affini. La festa era lo schermo che permetteva al malcontento di uscire alla luce, di traboccare e invadere le strade.
Non sorprende che negli anni della rivoluzione francese il carnevale fosse molto apprezzato. Le stampe dell’epoca dei giorni di festa riportano nobili a cavallo dei popolani, seguiti da popolani a cavallo dei nobili: il capovolgimento sovversivo tipico del carnevale, che il processo rivoluzionario aveva esteso a tutto il calendario. Il mondo si era rovesciato per davvero, la terra era il regno della Cuccagna, e sulle stampe di cui sopra campeggiava il motto: “Sapevamo che sarebbe arrivato il nostro turno”.
In questo senso il carnevale è profondamente ambivalente: può essere uno strumento di distrazione, un panem et circensem, la ricreazione che prima o poi finisce. Oppure può essere una forza che rinnova, che seppellisce un mondo per resuscitarne un altro – ma solo se riesce a esondare e invade lo spazio della norma, diventando permanente.
Il carnevale di Scampia permane e si fa costituente nel momento in cui, per dirla con Franco, “restituisce identità a un quartiere”, al di là delle etichette imposte dalle fiction mainstream. “Che hanno fatto solo danni”, gli fa eco Rosario Esposito La Rossa dell’associazione Vodisca, “che impongono una moda, ma non portano a una riflessione critica sulla camorra”. Riflessione che invece sostiene le associazioni di chi da Scampia non scappa, di chi resta, e lì costruisce una nuova identità, collettiva, plurale, così diversa dall’identità delle cosche – rigida, maschile, prescrittiva. Attraverso il caledoscopio del carnevale l’identità si fa mutevole e multiforme, si lega al passato e allo stesso tempo guarda in avanti.
Ciro Corona di (R)esistenza anticamorra, che lavora in una scuola abbandonata e confiscata alla mafia, la riassume così: “Siamo figli dei partigiani, e per questo resistiamo. Siamo abituati ad avere a che fare con i fallimenti, non ci fanno paura. Certo, magari arrivi la mattina che ti hanno scavato la fossa, e vengono i boss a minacciarti. Ma poi ci sono i ragazzi usciti di galera, che ti ringraziano perché li aiuti a riscattare il futuro, o quelli che vengono ad aiutarci da tutta Italia, che quando arrivano sono paralizzati dai pregiudizi e quando se ne vanno piangono di nostalgia. E che tornano ogni anno per Carnevale”.
Scrive ancora Bachtin che con la festa, con la risata carnevalesca, ciò che si esprime è soprattutto la vittoria sulla paura, che “non significa la sua eliminazione astratta, ma è la sua sconsacrazione e, nello stesso tempo, il suo rinnovamento, la sua trasformazione in gioia: l’inferno si è frantumato, e si è sparpagliato come un corno dell’abbondanza”. È la risata il vero contraltare delle passioni tristi che annichiliscono le nostre vite. E il carnevale, ancora oggi, serve a ricordarcelo.
*Gaia Benzi è attivista e ricercatrice di letteratura italiana. Ha scritto per Micromega, Dinamopress, CheFare e Nazione Indiana.
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