
L’onda nera non c’è stata
In Spagna la guerra lampo culturale della destra non prevale anche e soprattutto perché la mobilitazione del variegato fronte progressista è stata ben più forte del previsto
L’onda di ultradestra si infrange in Spagna. In un campo politico ormai caratterizzato da un bipolarismo all’italiana, le elezioni finiscono in un sostanziale pareggio tra il blocco di destra e quello di centrosinistra.
Il Partito Popolare di Alberto Núñez Feijóo è il primo partito, con il 33% dei voti, ma la destra radicale di Vox si ferma al 12,4%, e la maggioranza assoluta per costruire un governo di destra, conti alla mano, non c’è. Il backlash reazionario che doveva spazzare via l’esperienza della coalizione tra i socialisti e Unidas Podemos si è infranto su una serie di resistenze più forti del previsto. Ribaltando i pronostici di quasi tutti i sondaggi, il Psoe del presidente uscente del governo, Pedro Sánchez, porta a casa il 31,7% dei voti, a cui si somma il 12,3% di Sumar, la nuova coalizione di sinistra guidata dalla ministra del lavoro Yolanda Díaz. Nei Paesi Baschi, per la prima volta nella storia, la sinistra indipendentista di Eh Bildu è la forza più votata, a dodici anni dalla fine dell’attività armata dell’Eta e a cinque dal suo scioglimento. E l’indipendentismo catalano ha in mano i destini del governo spagnolo: nessuna maggioranza è possibile, infatti, senza il voto, o almeno l’astensione, dei catalanisti di centro-destra di Junts per Catalunya, pur sconfitti localmente.
Un governo di destra appare al momento poco probabile; possibile un nuovo esecutivo progressista, ma aleggia il rischio di un ritorno alle urne. A dodici anni dalla rivolta del 15-M, i tentativi di restaurazione del vecchio ordine consensuale bipartitico, pur non privi di successi, continuano a essere frenati dalla polarizzazione tra un asse progressista traballante ma ampio e una destra reazionaria sempre più feroce ma che fatica ad allargare le proprie basi sociali.
L’onda nera
Doveva essere il trionfo dell’ultradestra. Gli occhi di buona parte del mondo erano concentrati da tempo sull’appuntamento elettorale spagnolo. I pronostici erano chiari: il primo governo di coalizione dai tempi della Seconda Repubblica pre-Guerra Civile, l’unico caso in Europa di una socialdemocrazia al governo in coalizione con la sinistra radicale, era destinato a essere spazzato via dall’ondata reazionaria. I risultati concreti portati a casa dal governo Sánchez nella lotta alla precarietà e al carovita, ovviamente nei limiti del quadro di compatibilità Ue-Nato, si sono scontrati con una fortissima offensiva di culture war della destra, orientata principalmente su campi come la questione di genere, l’ambiente e la lotta al terrorismo.
La destra spagnola è sempre stata un’anomalia nel campo, pur mal frequentato, dei liberal-conservatori europei. Il Pp, erede del franchismo, ha tradizionalmente integrato al suo interno la destra radicale, anestetizzandone i tratti più visibilmente incompatibili con la democrazia. La nascita nel 2013 di Vox, scissione a destra del Pp, ha liberato quei settori dal guinzaglio della rispettabilità borghese, provocando poi uno slittamento a destra dello stesso Pp, nella competizione-collaborazione con Vox. Il risultato, nell’ultimo anno e mezzo, è stata l’emersione di un fronte di ultradestra trumpian-meloniano, caratterizzato da una retorica violentissima contro gli avversari e dalla scelta di ignorare quasi completamente i temi socio-economici per concentrarsi, appunto, su genere, ambiente e lotta al terrorismo.
Il simbolo più evidente di tutto ciò è stato il manifesto esposto da Vox a giugno nel centro di Madrid. Sotto la scritta «Decidi cosa importa», una mano con al polso i colori della bandiera spagnola gettava nella spazzatura una serie di simboli: un emblema femminista, il logo di «Agenda 2030» (gli obiettivi Onu per lo sviluppo sostenibile, finiti al centro, in Spagna, delle teorie del complotto globale ambientalista), la bandiera Lgbt+, quella indipendentista catalana, il logo del movimento delle occupazioni abitative e, ovviamente, l’immancabile bandiera rossa con falce e martello. Comunisti, femministe, ecologisti, occupanti di case, gay, indipendentisti: questi i nemici scelti dall’ultradestra, a cui Vox contrapponeva «Libertà, sicurezza, frontiere, famiglia, agricoltura, industria». L’abc della guerra culturale all’americana.
Del resto, nel maggio scorso, la presidentessa della regione di Madrid Isabel Díaz Ayuso, esponente del settore più reazionario del Pp e protagonista di una disastrosa gestione della sanità, in particolare durante la pandemia, è stata rieletta al termine di una campagna in cui si è parlato più di Eta che, appunto, di sanità. Il gruppo armato basco, lo ricordiamo, ha ucciso per l’ultima volta in Spagna nel 2009, ha cessato l’attività armata nel 2011, ha consegnato le armi nel 2017 e si è ufficialmente sciolto nel 2018. Ma, nel 2020, l’astensione di Eh Bildu, coalizione della sinistra indipendentista basca di cui fanno parte anche gli eredi di Batasuna, sciolto d’autorità nel 2003 con l’accusa di essere il braccio politico dell’Eta, fu decisiva per la fiducia al governo Sánchez, e da allora alcune storiche politiche repressive, come l’allontanamento dei detenuti appartenenti all’Eta dai Paesi Baschi, sono state allentate. Tanto è bastato, in un paese in cui la lotta al terrorismo ha segnato generazioni e in cui il processo di pace con l’Eta non ha mai coinvolto apertamente la popolazione, per permettere ad Ayuso di accusare Sánchez di governare «in coalizione con quelli che hanno portato il terrore in tuta la Spagna per romperla e farla finita con la democrazia».
In queste settimane, del resto, lo slogan più usato dalla destra nei confronti di Sánchez è stato: «Que te vote Txapote», letteralmente «che ti voti Txapote», ex dirigente dell’Eta, tuttora in carcere per una serie di omicidi, recentemente trasferito in un carcere basco. L’uso della tragica memoria del conflitto armato basco, ovviamente, fa l’occhiolino alla reazione contro la più recente ondata indipendentista, quella catalana, i cui leader sono stati indultati nel 2021. Dopo decenni in cui la cosiddetta «politica di stato», cioè la gestione dei conflitti con i nazionalismi periferici, era sistematicamente concordata tra Pp e Psoe, la scelta del governo progressista (in buona parte per pagare le cambiali del voto di fiducia del 2020) di mantenere un atteggiamento più dialogante ha permesso alla destra di soffiare sul fuoco del nazionalismo centralista.
Ma il tema su cui la destra si è scatenata con maggiore ferocia è stato senza dubbio quello di genere. La riforma della legislazione penale sulla violenza sessuale, ribattezzata «Solo sì è sì» dalla ministra dell’uguaglianza Irene Montero (dirigente di Podemos) e le controversie giudiziarie legate alla sua applicazione sono state il pretesto per una campagna d’opinione che ha mirato dritto al cuore e ai genitali del maschio di mezza età in crisi, convinto che le femministe «si siano spinte troppo oltre» e che ormai «non si possa più dire/fare nulla». Montero, pur non esente da errori e ingenuità, si è trovata a essere il capro espiatorio dell’antifemminismo, massacrata mediaticamente ogni giorno, fino a essere sostanzialmente sconfessata dallo stesso Sánchez e non ricandidata nelle liste della sinistra.
La mappa elettorale mostra una netta vittoria della destra nella Spagna rurale, fuori dalle grandi città, dove i progressi civili e sociali di questi decenni (fin dal matrimonio egualitario legalizzato sotto Zapatero nel 2005) sono stati vissuti con fastidio da una parte della popolazione, e dove lo strapotere mediatico della destra incide fortemente, innestandosi su una tradizione cattolica e conservatrice che non va sottovalutata.
In un Pp come sempre spaccato dalla guerra tra bande, il leader Feijóo, ex presidente della Galizia, si è posto come volto moderato della destra, finendo però per appropriarsi, in campagna elettorale, del repertorio ferocemente reazionario di cui sopra e lanciandosi anche, nel dibattito con Sánchez, in una serie di attacchi diffamatori che si sono dimostrati dei boomerang, richiamando l’attenzione di stampa e avversari sui suoi scheletri nell’armadio, come la lunga frequentazione con un narcotrafficante ai tempi del governo galiziano.
Il clima di queste settimane ha ricordato a molti le elezioni presidenziali Usa del 2020 o il referendum sulla Brexit del 2016. Ma il risultato è stato diverso. Il Pp ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti e dei seggi, passando dal 20,8% del 2019 al 33% di ora, e da 89 a 136 seggi al Congresso, ma questo risultato è stato ottenuto in gran parte a discapito del resto della destra. Ciudadanos, che nel 2019 aveva preso il 6,8% e 10 seggi, stavolta non si è neanche presentata alle elezioni, e Vox, che quattro anni fa aveva portato a casa il 15,1% e 52 seggi, è crollata al 12,4% e 33 seggi. Se nel 2019 la destra poteva contare su 151 seggi, stavolta è arrivata a 169: la maggioranza assoluta, fissata a 176 deputati, resta lontana. L’ondata nera, pur impressionante, si è infranta a pochi metri dalla riva. E in quel bell’ambientino che è il Pp, iniziano a volare i coltelli: sotto il comizio di commenti ai risultati elettorati di Feijóo, a Madrid, la base popolare gridava: «Ayuso, Ayuso», indicando nella presidentessa di Madrid la prossima leader, ancora più a destra, del partito trumpiano spagnolo.
Resistenze: Psoe, sinistra, indipendentismi
Se ciò è avvenuto, se la Spagna non è passata in poche ore dal governo più a sinistra d’Europa a quello probabilmente più a destra, è stato anche e soprattutto perché la mobilitazione del fronte progressista è stata ben più forte del previsto. Dopo la sconfitta alle elezioni regionali e amministrative di maggio, il presidente del governo Pedro Sánchez aveva deciso di dimettersi, anticipando le elezioni, previste per dicembre, al 23 luglio. Un’accelerazione che ha dato la scossa a vasti settori di popolazione, messi di fronte alla scelta concreta, qui e ora, tra una continuazione dell’esperienza progressista e un governo Pp-Vox. In un’ennesima edizione della sua notevole capacità di rovesciare le battaglie perse, Sánchez è riuscito a incrementare il consenso del Psoe rispetto al 2019 sia in termini di voti (dal 28% al 31,7%) sia di seggi (da 120 a 122).
Quella di anticipare le elezioni è stata una mossa spregiudicata e cinica, che ha messo in grossa difficoltà il complesso e conflittuale campo della sinistra, e favorito nettamente la logica del «voto utile» ai socialisti contro la minaccia della destra. Il capo del governo ha condotto una campagna elettorale indubbiamente efficace, oscillando tra prese di distanza dalle componenti di sinistra del suo governo (in particolare la già citata Irene Montero) e uscite battagliere contro la destra mediatica. Altrettanto efficace è stato il ruolo in campagna elettorale dell’ex presidente José Luis Rodríguez Zapatero, che ha girato il paese mettendo la sua popolarità al servizio della battaglia contro la destra. Non è un caso che proprio la figura di Zapatero abbia funzionato: di fronte a una destra feroce e divisiva, a una politica polarizzata e violenta, funziona, in molti settori della popolazione, l’evocazione di un’epoca più tranquilla, più «normale», meno «eccezionale». È stata una campagna quasi prodiana, quella del Psoe, basata sull’idea di non tornare indietro, come propone la destra, ma di continuare un progresso tranquillo e senza sbalzi, al sicuro dagli avventurismi della sinistra radicale.
E non è un caso che, anche a sinistra, il profilo scelto per questa campagna, portata avanti esplicitamente in coalizione col Psoe, invece che in competizione come in passato, sia stato quello soft e rassicurante proposto dalla ministra del lavoro Yolanda Díaz. «Abbiamo detto per tutta la campagna che c’era gente molto preoccupata nel nostro paese – ha esordito Díaz commentando i risultati – Credo che stasera la gente vada a dormire più tranquilla». Tutt’altro che tranquilla è stata la genesi di Sumar (Unire), la piattaforma con cui Díaz ha messo insieme sia le forze che nel 2019 si erano coalizzate in Unidas Podemos (Podemos e Izquierda Unida), sia chi all’epoca vi si era scisso (Más País, dell’ex numero due di Podemos Íñigo Errejón) sia formazioni locali di sinistra (Chunta Aragonesista, Coalició Compromís, Catalunya en Comú).
Yolanda Díaz, giuslavorista di formazione comunista, faceva parte di Izquierda Unida fino al 2019, quando fu nominata ministra del lavoro del governo di coalizione come indipendente. La popolarità conseguita in particolare in seguito alla riforma del lavoro convinse il fondatore e leader di Podemos e della coalizione Unidas Podemos, Pablo Iglesias, a proporla come suo successore sia nel ruolo di vicepresidente del governo sia di leader della coalizione, dopo la sconfitta alle regionali di Madrid nel 2021. Ma la scelta di Díaz di non limitarsi a fornire un nuovo volto, meno logorato dalle battaglie interne ed esterne rispetto a quello di Iglesias, a Unidas Podemos, bensì di voler costruire una nuova piattaforma più ampia, l’ha messa nel tempo in aperto contrasto sia con Iglesias (oggi commentatore radiotelevisivo e direttore di Canal Red) sia con la direzione di Podemos. Nel conflitto che ha lacerato la sinistra spagnola negli scorsi mesi ci sono componenti strategiche (Díaz propone un profilo politico meno barricadero e più rassicurante, in particolare verso il Psoe e i media, rispetto a Iglesias e Podemos) come di potere (diversi soggetti della sinistra spagnola, che hanno subito per quasi un decennio l’egemonia a tratti spietata di Podemos e del suo gruppo dirigente, non hanno perso l’occasione per vendicarsi, ora che i rapporti di forza sono cambiati), e a lungo è sembrata inevitabile una spaccatura. L’accelerazione elettorale imposta da Sánchez e il rischio di vittoria dell’ultradestra hanno forzato un accordo, che ha fortemente ridotto il ruolo di Podemos, uscita con le ossa rotte dalle amministrative di maggio, rispetto agli indipendenti in quota Yolanda Díaz e ad altre componenti, ma ha permesso a Sumar nel sul complesso di arrivare poco dietro a Vox, pur peggiorando il risultato ottenuto da Unidas Podemos e dalle altre forze di sinistra nel 2019 (dal 14,95% al 12,26% dei voti e da 38 a 31 seggi).
Di certo, la coppia Sánchez-Díaz si è posta per tutta la campagna elettorale come un ticket, un blocco consolidato. Sembra passata un’era geologica da quando, nel 2019, Sánchez rifiutava anche solo di discutere un governo di coalizione con la sinistra, e in Podemos si teorizzava il «sorpasso» sul Psoe. Questa immagine di un fronte progressista coeso contro la destra, seppur politicamente problematica per chi crede in un ruolo critico e trasformativo della sinistra anche dentro un’alleanza di governo, è risultata tremendamente efficace sul piano elettorale, mobilitando un elettorato fino a pochi mesi fa logorato e disilluso tra tre anni di governo per nulla facili, all’esterno come all’interno.
Di fatto, gli elettori si sono trovati di fronte due coalizioni all’italiana, seppure la legge elettorale spagnola, come tutte le altre vigenti in Occidente tranne quelle italiane degli ultimi decenni, non preveda coalizioni pre-elettorali. Il risultato elettorale ha rafforzato Pp e Psoe ai danni di Vox e Unidas Podemos-Sumar, mostrando che il sistema presenta evidenti segnali di restaurazione del bipartitismo che ha dominato la politica spagnola dagli anni Ottanta al 2015. D’altra parte, i due partiti maggiori restano ben lontani dalla capacità di governare da soli, come facevano un tempo, e vivono entrambi in una simbiosi competitiva con un alleato a cui hanno in qualche modo delegato una parte di interessi e temi.
Nelle elezioni spagnole si è giocata, in piccolo, la partita politica di quest’epoca, almeno a livello europeo: da una parte una destra mainstream che ha definitivamente abbattuto ogni arco costituzionale, teorizza e pratica l’alleanza organica con le destre fasciste e post-fasciste (non a caso Feijóo si è dichiarato favorevole all’ingresso di Fratelli d’Italia nel Ppe, in piena campagna elettorale) e scommette sulla potenzialità mobilitativa della culture war per legare a sé pezzi delle classi subalterne; dall’altra, socialdemocrazie la cui credibilità è stata devastata dalla svolta neoliberista degli anni Novanta e dalla gestione in termini di austerity della crisi economica, che tenta con difficoltà di costruire un asse progressista con le sinistre radicali emerse proprio dalla disillusione verso la gestione della crisi. Doveva essere uno sfondamento dei primi sui secondi. Non è avvenuto.
A frenare la destra, sul piano dei seggi, sono state anche le sinistre indipendentiste, seppur più quella basca che quelle catalane. Nei Paesi Baschi, Eh-Bildu, referente elettorale della sinistra abertzale (patriottica) esclusa dai giochi all’epoca del conflitto armato, è, per la prima volta, il primo partito basco, superando i nazionalisti moderati del Pnv. Un segnale di uscita progressiva dal conflitto che va seguito con attenzione. In Catalogna, crollano tutti gli indipendenti, da quelli di sinistra (Erc passa da 13 a 7 seggi, la Cup da 2 a 0) a quelli di centro-destra (Junts passa da 8 a 7 seggi), a vantaggio di un trionfo socialista nella regione. E ora, numeri alla mano, la coalizione Pp-Vox vale 169 seggi, e quella Psoe-Sumar-indipendenti di sinistra-Pnv-Bng ne vale 172. Nessuno arriva ai 176 necessari per la maggioranza assoluta, a tutti servono i voti, o quantomeno l’astensione, di Junts per Catalunya, per governare. Difficile che ciò avvenga a vantaggio di una destra che del contrasto all’indipendentismo catalano ha fatto un elemento identitario, ma per nulla scontato che avvenga in senso opposto.
L’incarico di chiedere la fiducia, in ogni caso, andrà per prima cosa, con ogni probabilità, a Feijóo, e solo in seconda battuta, in caso di insuccesso, a Sánchez. In un’altra fase, si sarebbe usciti dallo stallo con un accordo Pp-Psoe, o per permettere un governo di minoranza o addirittura per una grande coalizione. Ma la polarizzazione di questi mesi rende questo scenario pressoché fantascientifico, anche se non vanno sottovalutate le pressioni mediatiche, di potere e internazionali che da domani sicuramente verranno messe in campo in questa direzione. Lo scenario di una ripetizione elettorale tra qualche mese, che permetta ai due grandi partiti di erodere ulteriore consenso agli alleati, e giocarsela in una specie di ballottaggio, non è per nulla da escludere.
In ogni caso, le elezioni di domenica non hanno chiuso il ciclo politico aperto con la crisi economica e il 15-M, mantenendo la fine del bipartitismo e la forte polarizzazione, ma ne hanno ulteriormente ridotto l’ambizione. Di sicuro, la sinistra del 2023 è molto più concentrata a difendere la democrazia dall’onda nera che a essere un agente di trasformazione radicale nel sistema.
Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino, 2019).
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