L’utopia concreta del Cile di Allende
Cinquant'anni fa il colpo di stato di Pinochet, sostenuto dagli Stati uniti, interrompeva l'esperimento della via cilena al socialismo
Vale la pena morire per le cose senza le quali non vale la pena vivere.
Salvador Allende
«Es la hora de los hornos y no se ha de ver más que la luz» («È l’ora dei forni e non si deve vedere altro che la luce») recita la frase del poeta e rivoluzionario cubano José Martí riportata come citazione al principio dell’indimenticabile messaggio di Ernesto Che Guevara – in prossimità della spedizione boliviana – alla prima Organizzazione di Solidarietà dei popoli di Africa, Asia e America Latina (Ospaaal, nota come Tricontinentale).
La Tricontinentale che si tiene in coincidenza del settimo anniversario della rivoluzione (gennaio 1966) avrebbe proclamato il «diritto inalienabile dei popoli a godere della piena indipendenza politica e a ricorrere ad ogni forma di lotta, compresa la lotta armata, necessaria ad acquisire tale diritto». All’incontro partecipano oltre cinquecento delegati di ottantadue paesi provenienti da tre continenti e i maggiori leader rivoluzionari del Terzo mondo, tra cui il guerrigliero guatemalteco Luis Augusto Turcios Lima delle Fuerzas armadas rebeldes (Far), il rivoluzionario venezuelano Luben Petkoff delle Fuerzas armadas de liberación nacional (Faln), il guerrigliero brasiliano Carlos Marighella, il socialista cileno Salvador Allende, il guineano Amílcar Cabral, leader del Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo Verde (Paigc). Il Comandante Che Guevara è il grande assente. Nei mesi successivi, quando giungerà notizia della sua presenza nelle Ande boliviane, Herbert Marcuse soffermerà le sue riflessioni sui protagonisti delle lotte rivoluzionarie, in particolar modo sul «carattere utopico delle loro richieste […]; comunque si possa chiamare la loro azione, una rivolta, o una rivoluzione, essa costituisce oramai un punto di svolta. […] In una parola essi hanno tolto l’idea di rivoluzione dal continuum della repressione, e l’hanno posta nella sua dimensione autentica: quella della liberazione».
Gli echi della rivoluzione cubana e della morte di Che Guevara entrano nei profondi cambiamenti provocati dalle lotte sociali che investono il 1968, incidendo nelle dinamiche politico-sociali dei paesi sudamericani. Questo ciclo storico termina con il colpo di Stato di Santiago del Cile dell’11 settembre 1973. L’esperienza del gobierno popular è infatti destinata a divenire una pietra miliare nella lotta rivoluzionaria di tutti i popoli e nella storia del Novecento, tanto che, come ha scritto Enzo Traverso, «fino al golpe cileno del 1973 il socialismo rimase all’ordine del giorno, non un sogno proiettato in un lontano futuro».
«La historia es nuestra, y las hacen los pueblos»
«Avevano sognato che si poteva vivere in piedi. Avevano sognato che il destino dell’uomo non poteva essere sempre un castigo. Avevano sognato che la felicità di tutti era possibile. Avevano sognato di creare una legge giusta, davanti alla quale saremmo stati tutti uguali. E avevano osato far diventare realtà i sogni, perché quelli di cui sentiamo la mancanza, senza tante storie né pavoneggiamenti, avevano raggiunto la dimensione superiore dell’essere umano, per questo ne sentiamo la mancanza: perché erano rivoluzionari». Luis Sepúlveda descrive le speranze di quei mille giorni, che rappresentano la leva della grande mobilitazione di massa che inizia a montare nel corso dei sei mesi di campagna elettorale, sostenuta da 15.000 comitati di Unidad Popular che si attivano per i 4.000 km di lunghezza del Cile e che conducono alla sorprendente vittoria di Salvador Allende il 4 settembre 1970.
In queste elezioni si verifica l’ingresso prepotente della democrazia di massa nel voto, con donne, operai, studenti, analfabeti, di cui il compañero Presidente è il rappresentante più autorevole e riconosciuto. «Con un gesto di imperdonabile condotta, il popolo cileno elegge presidente Salvador Allende», scriverà ironicamente Eduardo Galeano.
Il Cile di Salvador Allende lancia un messaggio al mondo: il popolo è divenuto governo, è il momento di «cambiare il regime capitalista, per aprire il cammino al socialismo» tramite la «partecipazione dei lavoratori, con particolare attenzione agli operai e ai contadini, a tutti livelli». Per la prima volta nella storia cilena il popolo ha preso nelle proprie mani il suo avvenire e il programma politico della Unidad Popular offre le premesse per far sì che diventi il protagonista del proprio futuro. Il gobierno popular, ovvero il governo del popolo e per il popolo, non è solo un accordo meramente elettorale, uno slogan propagandistico, ma la condizione necessaria per la trasformazione rivoluzionaria della società in un’ottica marxiana. In quei mille giorni il popolo, con le sue numerose sfaccettature, diventa il vero soggetto della Storia.
In Cile si vive un’accelerazione della storia. «Se mi chiedi cosa sta succedendo in questo paese, ti direi onestamente che in Cile è in atto un processo rivoluzionario. E abbiamo persino chiamato la nostra rivoluzione un processo. Un processo non è ancora una rivoluzione. Si deve essere chiari. Un processo è un percorso, è una fase che inizia». La verità è una «virtù rivoluzionaria», e Allende chiarisce i caratteri della «via cilena al socialismo». Non una dittatura del proletariato, non una rivoluzione antidemocratica, ma un graduale «processo» di costruzione di una società socialista all’interno, e nel rispetto, delle «sovrastrutture di stampo borghese»: «[…] il nostro compito è definire e mettere in pratica la via cilena al socialismo, come un nuovo modello di Stato, economia e società, con al centro l’uomo, i suoi bisogni e le sue aspirazioni. Per questo è necessario il coraggio di chi ha osato ripensare il mondo come progetto al servizio dell’uomo. Non ci sono esperienze precedenti che possiamo usare come modello; dobbiamo sviluppare la teoria e la pratica di nuove forme di organizzazione sociale, politica ed economica, sia per rompere con il sottosviluppo che per la creazione [della società] socialista». Questa è l’utopia concreta di Salvador Allende, i principi su cui si fonda la «via cilena al socialismo». Una rivoluzione autenticamente democratica, popolare, pacifica, che mira all’emancipazione dell’essere umano e alla piena affermazione dei diritti dei popoli.
La nazionalizzazione di rame, acciaio, ferro, salnitro e carbone, l’avanzamento della riforma agraria, il riconoscimento dei diritti del popolo mapuche, la costruzione di 158 mila abitazioni per famiglie disagiate, il rafforzamento della sanità pubblica, la costruzione di consultori in ogni cittadina, il rafforzamento della tutela dei diritti dei lavoratori, il mezzo litro di latte al giorno garantito a tutti i bambini fino a quindi anni di età, donne incinte e balie su tutto il territorio nazionale, sono alcune misure che qualificano il gobierno popular.
«Esiste la libertà in un paese in via di sviluppo?»
Non solo fronte interno. La politica allendista ha una proiezione internazionale, e rimane memorabile l’intervento del presidente Allende all’Assemblea generale delle Nazioni unite del 4 dicembre 1972 – che gli tributa un’ovazione unica –, nel quale sembra riprendere e rilanciare le istanze che circa vent’anni prima avevano infiammato i paesi del Terzo mondo nel corso della conferenza afro-asiatica di Bandung: «Il nostro non è un problema isolato o unico. È la manifestazione locale di una realtà che ci travolge, che abbraccia il continente latinoamericano e il Terzo Mondo. Con intensità variabile, con peculiarità nazionali, tutti i paesi periferici sono esposti a qualcosa di simile. Il senso di solidarietà umana che prevale nei Paesi sviluppati deve far sentire la sua ripugnanza perché un gruppo di imprese potrebbe interferire impunemente nelle dinamiche più vitali della vita di una nazione, fino a turbarla totalmente. […] Il mondo economicamente in via di sviluppo sta diventando sempre più consapevole delle proprie specificità e dei suoi diritti. Richiede equità nel trattamento e riconoscimento del suo legittimo posto sulla scena mondiale. I motori di questa trasformazione sono stati, come sempre, i popoli, nella loro progressiva liberazione per diventare soggetti della storia». In sostanza Allende intende spezzare il giogo dell’imperialismo che per decenni ha sottomesso e dissanguato l’economia cilena impedendo di espandersi su altri mercati internazionali e di uscire dal vincolo della «dipendenza», tipica dei cosiddetti paesi sottosviluppati. Il Cile drammaticamente ripropone alla riflessione teorica e all’azione politica l’enorme questione del come un’economia dipendente possa fronteggiare la «voracità dell’imperialismo» nella battaglia per la conquista dell’indipendenza, condizione e momento contestuale del processo dello sviluppo, che ha il suo pilastro nella radicale riforma della struttura sociale interna, generatrice della dipendenza e quindi del sottosviluppo.
La visione globale allendista aggiorna le battaglie rivoluzionarie del socialismo latinoamericano, allarga l’orizzonte politico delle sinistre cilene, oltrepassa i confini del Cono Sur in un’ottica di liberazione continentale, di superamento della divisione bipolare e di democratizzazione dei rapporti internazionali. Ma aver conquistato il governo non significa aver raggiunto pienamente il potere.
Le divisioni interne alla coalizione di Unidad Popular, i piani eversivi finanziati e sostenuti dagli Stati uniti di Richard Nixon e Henry Kissinger, la politica filo-golpista delle forze di opposizione, la volubilità del capitalismo dipendente, l’ostruzionismo da parte degli organismi dello Stato, il boicottaggio delle multinazionali, il tradimento dei vertici delle Forze armate rappresentano solo alcune sfaccettature delle difficoltà che cerca di superare il presidente Allende.
«Il golpe in Cile è già in marcia». Il 10 settembre, a Washington, l’ambasciatore Nathaniel Davis incontra Henry Kissinger che lo aggiorna entusiasta. Le speranze e i sogni di quella generazione di cileni con il futuro in pugno che aveva intonato verso il cielo «Venceremos, venceremos», vengono spezzati dal golpe dell’11 settembre 1973, il più cruento che il subcontinente avesse mai conosciuto fino a qual momento, che interrompe violentemente l’esperienza costituzionale del governo di Unidad popular. La Giunta militare istituzionalizza un vero e proprio Stato del terrore, imponendo un regime autoritario e aprendo alla feroce e sanguinaria dittatura che sarebbe durata per diciassette anni (1973-1990), caratterizzata da assassini, sparizione forzate, detenzioni arbitrarie e torture. Non c’è dubbio che l’11 settembre 1973 rappresenti una cesura, la fine di un’epoca e segni l’inizio della stagione buia per l’America Latina. Il colpo di Stato è un tornante della storia latinoamericana del XX secolo, un monito per gli altri governi democratici e progressisti latinoamericani a non seguire la «via allendista al socialismo». Gabriel García Márquez ne La verdadera muerte de un presidente consegnerà alla storia la figura esemplare e coerente di Salvador Allende: «il dramma ha avuto luogo in Cile, con grande dispiacere dei cileni, ma deve passare alla storia come qualcosa che è inevitabilmente accaduto a tutti gli uomini di questo tempo e che è rimasto nelle nostre vite per sempre».
*Andrea Mulas, studioso di storia dell’America Latina, è ricercatore indipendente della Fondazione Basso. Tra le sue più recenti pubblicazioni, L’altro settembre. Allende e la via cilena al socialismo (Bordeaux, 2023) e La storia spezzata. Cile 1970-1973 (Nova Delphi, 2023).
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