
Metalmeccanici, il contratto decisivo
Il settore presidiato da Fiom, Fim e Uilm mantiene ancora una collocazione decisiva nel mondo del lavoro e del conflitto di classe. La piattaforma dello sciopero del 14 gennaio può consentire una forte unità delle diverse componenti
Uno sguardo alla tavola periodica di Mendeleev permette di scoprire che, nel mondo a noi conosciuto, larga parte degli elementi sono metallici o metalli di transizione. Uno sguardo al mercato del lavoro permette di scoprire che in Italia una consistente fetta della popolazione attiva è coperta dal Ccnl metalmeccanico.
La metalmeccanica nasce per l’appunto come settore della lavorazione dei metalli: accomuna gli impianti siderurgici alle fabbriche in grado di produrre macchine, apparecchi e mezzi di trasporto, nonché alle officine artigianali.Sono metalmeccanici poi i tecnici che mettono le mani (con guanti in nitrile) sui macchinari di ospedali e aziende sanitarie ben lontane dalla realtà della fabbrica. Adottano inoltre il Ccnl metalmeccanico studi di progettazione o aziende che (perlomeno nell’Europa occidentale) hanno compiuto una transizione dalla produzione di hardware a software, come Ibm, assieme a numerose società di consulenza informatica, più o meno grandi. Una multinazionale come Accenture, con il suo logo sfavillante tra i grattacieli delle grandi città, non ha decisamente l’aspetto di Mirafiori, eppure i suoi dipendenti sono inquadrati come metalmeccanici.
In numeri i metalmeccanici legati alle officine, che si tratti di industria o di artigianato, sono attorno ai 2 milioni, quelli legati all’informatica sono circa mezzo milione, su una popolazione attiva di 23,7 milioni. Stando all’Inps, si tratta del secondo Ccnlpiù diffuso in Italia, seguendo il 17,55%, la fetta più larga, del contratto del commercio.
Il tema rimasto in sospeso in questi mesi è proprio questo: il destino contrattuale di due milioni e mezzo di persone. Il Ccnl metalmeccanico è scaduto nel corso del 2024 e la trattativa per il rinnovo sembra essersi arenata, fino alla rottura del tavolo da parte dei sindacati a fine novembre.
Ieri, oggi…
Nel corso del Novecento, in Italia come nel resto dei paesi industrializzati, i metalmeccanici hanno rappresentato un’avanguardia dei lavoratori organizzati, grazie al ruolo di primaria importanza che gli immensi stabilimenti siderurgici e automobilistici rappresentavano per l’economia nazionale. Qualsiasi interruzione volontaria del processo produttivo – che fosse uno sciopero di massa, a scacchiera o a singhiozzo – era in grado di causare ingenti danni, fornendo agli operai modalità e occasioni con cui farsi ascoltare. Alla capacità di agire sul posto di lavoro, legata a una volontà di incidere su specifiche condizioni lavorative, si accompagnava una visione più ampia, un desiderio di trasformare la società intera, un’idea politica condivisa oltre i confini delle fabbriche.
La vulgata contemporanea afferma che i metalmeccanici, e in generale il movimento operaio, sono stati sconfitti dalla storia. Delocalizzazioni, primato della finanza e varie controriforme del lavoro sembrano aver piegato irrimediabilmente quel fronte, per cui i metalmeccanici non possono esercitare lo stesso potere conflittuale di un tempo, con un tasso di sindacalizzazione attestato da Federmeccanica attorno al 30%. Culturalmente poi, gli operai – viene ribadito dai vari opinionisti della destra mediatica – votano a destra e non sopportano gli stranieri.
Per quanto indeboliti rispetto a un tempo, i metalmeccanici rimangono pur sempre la spina dorsale delle mobilitazioni odierne. Possiamo vederlo, ad esempio, esaminando l’ultima mobilitazione riuscita, lo sciopero generale del 29 novembre 2024 indetto da Cgil e Uil contro la manovra finanziaria del governo. Si è parlato di un 70% di adesione complessiva e, andando a vedere i numeri settore per settore, ritroviamo i più alti tassi di adesione proprio nella metalmeccanica, a fronte di una piattaforma di convocazione dello sciopero apertamente politica.
Si sono registrati tassi di adesione allo sciopero dell’85% alla Ducati di Bologna, del 75% alla Brembo di Bergamo e alle Acciaierie d’Italia a Genova, del 79% all’Ariston di Ancona; dell’85% alla Marcegaglia di Mantova, del 74% alla Bosch di Bari, del 90% alla Electrolux di Pordenone, del 95% alla Ast di Terni – tutte aziende imponenti, con migliaia di dipendenti. L’Italia rimane un paese industriale e senza i numerosi lavoratori dell’industria è difficile che le mobilitazioni risultino efficaci. Chiunque abbia preso parte a una delle 43 piazze convocate lo scorso 29 novembre può averne avuto l’ennesima riprova: lo spezzone dei metalmeccanici è sfilato in ciascun corteo, nutrito e composito, molto spesso multietnico (giusto per smentire le bugie televisive, i lavoratori dell’industria si sono adattati già da decenni all’integrazione di stranieri nei propri ranghi, dimostrandosi ben più aperti culturalmente rispetto ai portavoce della destra).
Una delle critiche più più frequenti è che i sindacati (e in generale la sinistra) difendano soltanto gli interessi dei lavoratori già tutelati e garantiti, a fronte di un esercito di precari o poveri affatto rappresentati, per i quali il diritto allo sciopero non è nemmeno contemplato. Una simile critica – poco credibile se proveniente dalla destra mediatica, eppure al contempo parzialmente vera – viene presa sul serio dalla piattaforma che Fim, Fiom e Uilm hanno presentato al tavolo della trattativa con le associazioni datoriali, Federmeccanica e Assistal. Il documento unitario si pone infatti l’obiettivo di superare la frammentazione dell’attuale mercato del lavoro, eliminando le forti disparità tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B o C che sussistono all’interno delle stesse aziende metalmeccaniche.
Da un lato si chiedono misure per stabilizzare i precari: oggi un’azienda (grazie al Jobs Act del 2015) può impiegare una quantità di dipendenti forniti dalle Agenzie del lavoro pari al 50% del proprio personale, per periodi indefiniti, a volte anche per anni, senza garanzie di assunzione. Dall’altro lato si chiedono garanzie salariali per i lavoratori delle ditte vincitrici di appalto, che nelle grandi aziende coprono servizi come pulizie, mensa, magazzino o vigilanza; gli appalti generalmente vengono vinti al ribasso, grazie a tariffe stracciate che si traducono inesorabilmente in stipendi considerevolmente inferiori ai minimi contrattuali della metalmeccanica.
Inoltre, viene avanzata una richiesta di aumenti salariali che oltrepassino la quota di stipendio erosa dalla recente inflazione, puntando quindi ad aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori rispetto agli anni antecedenti all’aumento generalizzato dei prezzi. Su questo punto specifico, i metalmeccanici sono l’unica categoria ad aver avanzato una richiesta che supera il recupero dell’inflazione in fase di rinnovo del Ccnl e si può affermare che in questo giocano un ruolo di avanguardia, come è stato altre volte in passato.
Un’ultima richiesta viene mossa su un tema discusso apertamente nel resto dei paesi a capitalismo avanzato, eppure considerato ancora un tabù in Italia: la riduzione dell’orario di lavoro settimanale. Si propone di passare a 38 ore, a parità di stipendio, con l’obiettivo di raggiungere nel giro di pochi anni il traguardo delle 35 ore.
A tutte queste richieste avanzate dai sindacati finora gli industriali hanno risposto picche. Lamentano che larga parte delle aziende soffra di margini operativi risicati e non possa permettersi aumenti o stabilizzazioni, per quanto la quantità di somministrati (stando alle loro indagini interne) risulti estremamente bassa. Rispetto alla richiesta della riduzione di ore di lavoro, mantengono una ferma contrarietà e propongono anzi un arretramento in termini di tempo libero: vorrebbero imporre ai dipendenti che non usufruiscano dell’intero ammontare di ferie e permessi entro l’anno di maturazione, che l’azienda possa disporre delle ore rimanenti a propria discrezione.
Questo atteggiamento da parte degli industriali ha spinto i sindacati ad allontanarsi dal tavolo della trattativa e a indire due giornate di sciopero, per il 13 dicembre e per il 14 gennaio. La prima giornata di mobilitazione è stata un successo per il fronte sindacale: l’adesione è stata massiccia in tutta Italia, così come elevata era stata l’approvazione della proposta in fase assemblare, spalleggiata dal 99% dei votanti. In particolare, nella provincia di Vicenza, dove hanno sede gli stabilimenti produttivi di Federico Visentin, attuale presidente di Federmeccanica, nelle aziende si sono raggiunti picchi di adesione allo sciopero del 90%.
Resta da vedere come andrà la mobilitazione del 14 gennaio, se gli atteggiamenti al tavolo subiranno dei mutamenti o meno. A differenza di quanto accaduto in passato, stavolta non può essere firmato alcun rinnovo senza la partecipazione della sigla comunemente ritenuta più combattiva, la Fiom Cgil. Per essere considerato valido, l’accordo può essere sottoscritto soltanto dalle organizzazioni che abbiano il 50% + 1 della rappresentatività e, per numero di iscritti e per voti ottenuti alle elezioni Rsu, la Fiom da sola conta al 50,95%. Fim e Uilm non possono firmare separatamente e sono vincolate a percorrere lo stesso pezzo di strada della Fiom.
Nei conflittuali anni Settanta, il periodo di massima avanzata in termini di diritti sociali in Italia, le tre sigle confederali percorsero un cammino unitario come Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici, fungendo da pungolo democratico all’intero movimento sindacale e alla politica del tempo. Quei giorni ormai ci appaiono lontani, ma i sindacati che vi presero parte si ritrovano a operare nuovamente insieme, oggi come allora.
…e domani?
Nel corso del Novecento i metalmeccanici, inserendo le rivendicazioni lavorative in un progetto più ampio di trasformazione della società, hanno avuto una visione politica che trovava espressione in più forme di organizzazione collettiva: sindacato, partito e associazioni. Oggi quella costellazione di riferimenti è chiaramente andata in frantumi e i margini d’azione ne risentono, per quanto ardite possano essere le rivendicazioni mosse dal sindacato nella propria autonomia.
In assenza di quelle coordinate, d’altronde, il sindacato si scontra con i propri limiti nel coinvolgimento dei lavoratori e delle lavoratrici. Nel settore metalmeccanico riesce ancora oggi a mobilitare iscritti e simpatizzanti, in larga parte operai, incontrando invece maggiori difficoltà a integrare nei propri ranghi gli impiegati, molto più numerosi rispetto ai decenni passati (circa metà del totale, ormai), nonché i lavoratori slegati dai contesti produttivi, menzionati sopra.
Per inquadrare il discorso anche in termini generazionali, è difficile per tutte le categorie intercettare i più giovani: come emerso da un report della Fondazione Di Vittorio al congresso della Cgil di Rimini del 2023, il 43% degli under-35 non aderisce a una sigla sindacale proprio per una mancata consapevolezza del ruolo del sindacato. Il dato generale è che tendenzialmente ci si avvicina al sindacato soltanto in età più matura, una volta che si è acquisita maggiore conoscenza del mondo del lavoro e dei conseguenti diritti. Alcune federazioni stanno lavorando su questo fronte per invertire la tendenza: sono in cantiere una serie di inchieste volte a identificare i bisogni più sentiti dalle giovani generazioni, proprio con l’obiettivo di coinvolgerle sindacalmente fin dai primi anni di vita lavorativa.
È facile riconoscere nelle attuali mobilitazioni un richiamo alle lotte del passato, legate all’immaginario della grande fabbrica.Ma per chi non ha legami con quel passato – per motivi generazionali o di mansioni – risulta invece difficile sentirsi interpellato, si pensi al mezzo milione di metalmeccanici che lavorano come informatici.
Nella società contemporanea il loro lavoro può rivelarsi il più delle volte cruciale: per intenderci, le multinazionali informatiche forniscono servizi digitali alle banche e ai gruppi industriali più importanti del nostro paese. I pagamenti o altre operazioni finanziarie possono dipendere dalle loro righe di codice, dal loro pronto intervento in caso di necessità a qualsiasi ora del giorno e della notte. Conosciamo dalla storia la paralisi che un’acciaieria in sciopero può diffondere nell’intera industria, nei prossimi anni probabilmente impareremo a riconoscere il peso di uno sciopero da parte degli informatici.
Programmatori e lavoratori tecnologici in generale hanno già iniziato a sindacalizzarsi in giro per il mondo, negli Stati uniti hanno dato origine alla Tech Workers Coalition e anche in Europa muovono i loro primi passi. A poche migliaia di km da noi, in Spagna, il sindacato cugino della Cgil, Comisiones Obreras è riuscito nel 2023 a mobilitare i dipendenti delle grandi multinazionali informatiche, spingendoli allo sciopero. A differenza dell’Italia, in Spagna gli informatici non rientrano tra i metalmeccanici e la battaglia per il riconoscimento dei loro diritti è appena cominciata (hanno conquistato nel loro contratto il diritto a lavorare meno di 12 ore al giorno, per intenderci…). Rappresentano, a ogni modo, un segmento di lavoratrici e lavoratori specializzati che in questi anni comincia a esercitare una certa conflittualità, aspetto che – presto o tardi – potrebbe manifestarsi anche dalle nostre parti.
Il rinnovo di un Ccnl che riguarda due milioni e mezzo di persone spinge il sindacato a rappresentare le ragioni di mondi profondamente diversi tra loro. La proposta che forse più di tutte raccoglie un consenso trasversale tra le varie anime dei metalmeccanici – tra gli operai come tra gli impiegati riluttanti a farsi coinvolgere, o tra i più giovani e i più specializzati – è la riduzione dell’orario di lavoro settimanale. Una simile battaglia può rappresentare il tema attorno a cui – in un contesto diverso dal passato e in transizione – il sindacato può ritrovare grinta e linfa vitale, estendendo il proprio bacino di mobilitazione.
Nel 1919, dopo un lungo periodo di mobilitazioni, i metalmeccanici furono i primi a ottenere in Italia la giornata lavorativa da 8 ore, un traguardo destinato a estendersi nel tempo ad altre categorie, a farsi tesoro comune per ampie fasce della popolazione lavoratrice. Più di 100 anni dopo quella storica conquista vedremo se anche la lotta dei nostri giorni porterà i suoi frutti.
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