Moriremo retequattristi?
Il canale berlusconiano delle soap-opera e delle televendite da qualche anno è diventato un contenitore di talk-show politici. È il laboratorio del senso comune costruito dalle destre al potere
C’è un fuoco di sbarramento comunicativo che prepara da anni quotidianamente il terreno alla destra di Giorgia Meloni e che l’ha accompagnata al potere. Proviene dalla televisione. Cioè un media dell’altro secolo ancora egemone presso buone fette della popolazione italiana, seppure in chiave postmoderna. È un miscuglio di allarmi securitari e ideologia proprietaria, messaggi xenofobi e occhieggiamenti al cospirazionismo anti-vaccinista o alle galassie no euro. Chiameremo questo fenomeno retequattrismo. È il punto di connessione tra l’immaginario berlusconiano e la guerra civile culturale condotta dalla destra, tra la propaganda televisiva e l’ideologia reazionaria.
Tra realtà e rappresentazione
Il termine retequattrismo non è frutto di analisi massmediologiche né deriva da ricerche di scienziati della comunicazione. Chi scrive lo ha imparato dai tweet di Sergio Scandura, giornalista di Radio radicale impegnato quotidianamente a contrastare la «Vandea retequattrista» (cit.) sul fronte siciliano dei porti, degli sbarchi dei migranti e delle «emergenze invasione» costruite ad arte nel corso di questi anni. Questo fatto è già di per sé significativo: un cronista sul campo che misura giorno per giorno la distanza tra la realtà dei fatti e la rappresentazione mediatica mainstream ha individuato un fenomeno e ha avvertito l’urgenza di identificarlo, di dargli un nome. L’etichetta di retequattrista poteva sembrare soltanto una boutade da social, un modo per sintetizzare via Twitter una galassia di grammatiche e linguaggi. Invece funziona come traccia di analisi del senso comune costruito dalla destra al potere.
Genealogia
Rete 4 compie quest’anno quarant’anni. Fu fondata nel 1982, agli albori dell’emittenza televisiva privata italiana. La quota di maggioranza apparteneva all’editore Mondadori (64%). Da subito, tuttavia, il canale soffrì la concorrenza con il berlusconiano Canale 5. Il momento simbolico e concreto del collasso dell’intrapresa mondadoriana nell’etere arrivò nel 1983, quando Mondadori si imbarcò nell’acquisto a un prezzo esorbitante della serie-tv di provenienza statunitense Venti di Guerra, che venne lanciata con dispendioso battage pubblicitario, Canale 5 sbaragliò la concorrenza con la soap opera pruriginosa (si parlava degli amori di un parroco) Uccelli di Rovo, anch’essa prodotta dagli americani della Abc. A quel punto Berlusconi acquistò per 130 miliardi di lire Rete 4, che portava in pancia un ricco portfolio di telenovelas frutto della partnership con i brasiliani di Rede Globo. Nella divisione del lavoro mediatico di Fininvest (poi Mediaset), Canale 5 gioca la parte della rete ammiraglia, quella dei grandi show e delle produzioni generaliste di punta, la scanzonata Italia1 si rivolge al pubblico di bambini e adolescenti, con cartoni animati, telefilm e teen-movie e Rete 4 fa un tutt’uno con i centrotavola dei salotti e i divani ancora foderati di plastica davanti alle televisioni accese dei nonni: appare da subito pensata per il pubblico femminile e per la parte più anziana dell’audience, si impegna a co-produrre telenovelas ad hoc con emittenti sudamericane (dalla collaborazione con l’Argentina arriva Manuela), ai tele-venditori spetta il compito di intrattenere il pubblico tra un tele-romanzo e l’altro. Nel 1990 entra in vigore la controversa Legge Mammì, che fotografa il duopolio Rai-Fininvest e riconosce alle emittenti berlusconiane la possibilità di trasmettere in diretta. Di contro, ogni canale ha l’obbligo di produrre un proprio telegiornale. Il primo giugno del 1991 debutta il Tg4, che può essere considerato il primo notiziario televisivo del berlusconismo. Nel giro di pochi mesi, il Tg viene affidato a Emilio Fede, che è volto noto del giornalismo Rai ma costretto alle dimissioni dall’azienda pubblica quando viene denunciato per gioco d’azzardo.
L’era di Emilio Fede
Silvio Berlusconi entra nell’agone politico nel gennaio del 1994. La discesa in campo coinvolge inevitabilmente la sua potenza mediatica. Il Tg4 di Emilio Fede si caratterizza senza convenevoli come l’organo di propaganda del berlusconismo arrembante. Prende parte in forma esplicita, caricaturale. «La sua devozione nei confronti dell’editore è così palese ed esagerata – sintetizza Aldo Grasso nella sua Enciclopedia della Televisione (Garzanti, 1996) – da apparire più tollerabile dell’atteggiamento di quei giornalisti Fininvest che fingono invece distacco ed obiettività: di fronte allo spettatore, Fede non si maschera». In realtà, la propaganda smaccata di Emilio Fede alza l’asticella del tollerabile, crea precedenti e sedimenta linguaggi e codici destinati a durare fino ai giorni nostri. Fede storpia i nomi degli avversari del giorno (pratica ormai diffusa trasversalmente), scatena campagne ad personam, costruisce a tavolino le notizie e contribuisce a cambiare l’agenda setting. Il mix di soap opera, tele-vendite e propaganda tipico della Rete 4 di questa fase rende l’idea della dimensione totalizzante della propaganda, capace di attraversare la sfera dell’informazione, quella dell’intrattenimento e quella del marketing. Bisogna aggiungere che agli occhi della gran parte dei telespettatori, il contraltare a Fede è rappresentato da Striscia la notizia, cioè dal tg comico campione di ascolti di Canale 5, considerato interprete dello spirito del tempo del ventennio berlusconiano: un combattimento tra galli provenienti dallo stesso pollaio, due telegiornali in forme diverse iperbolici, fortemente messi in scena, che esondano le regole del genere promettendo la verità dietro la recitazione. Se è vero, come sostiene Aldo Grasso, che Fede scegliendo di essere fazioso getta la maschera, è vero anche che Fede nel giro di poco tempo diventa una maschera, un personaggio da cui ci si aspettano determinate gag.
Dalle soap opera all’infotainment
Il destino di Fede è legato a doppio filo a quello del suo editore. Quando Silvio Berlusconi comincia a cedere il passo, più per cedimento fisico che per processi politici, il direttore del Tg4 è costretto a farsi da parte, anche lui peraltro invischiato nelle squallide vicende di festini di dubbio gusto a uso di uomini di potere quasi ottuagenari. Sia che Berlusconi che Fede, tuttavia, subiscono il passaggio d’epoca quando la politica e lo spettacolo si fondono in forme nuove. Non si tratta più (soltanto) di fare propaganda agli spettatori delle telenovelas: è il momento della spettacolarizzazione della politica, della messa in scena del duello e dei dibattiti. Questo è il format che ha segnato la fine della Prima Repubblica, che ha restituito il microfono alla gente tramite i collegamenti con le piazze inferocite contro i politici e che ha veicolato i principali messaggi dell’anti-berlusconismo.
Il serial-leader
Il palinsesto della Rete 4 di Emilio Fede rimanda direttamente alla capacità di Berlusconi al suo apogeo di presentarsi come un personaggio di una delle telenovelas che ha contribuito a produrre. Berlusconi è un serial-leader, vista la tendenza di proporre una narrazione che si riproduce puntata dopo puntata, una serie le cui stagioni sembrano scritte apposta per superare la distinzione tra il corpo naturale e il corpo politico del sovrano, secondo la nota teoria elaborata da Ernst Kantorowicz sulla scorta dei documenti dei giuristi inglesi e francesi del Medioevo a proposito della sovranità monarchica (cui fa riferimento anche Sara Farris in apertura di questo numero di Jacobin Italia a proposito del femonazionalismo di Giorgia Meloni). Il corpo di Berlusconi, sostiene il sociologo Federico Boni coniando una categoria terza che trascende la distinzione tra naturale e politico, è un corpo spettacolare: si basa sulla messa in scena che trascende la distinzione tra sfera secolare e sfera temporale, tra pubblico e privato (Federico Boni, Il Superleader, Meltemi, 2008). Tutto ciò è destinato a produrre effetti anche nella sfera dell’informazione-spettacolo che era appannaggio della sinistra televisiva. Possiamo individuare il momento preciso in cui la maionese impazzisce, in cui il corpo spettacolare del serial-leader di Arcore fa irruzione nell’arena televisiva par excellence dell’antiberlusconiamo e apre il primo squarcio del retequattrismo per come oggi lo conosciamo.
Il Retequattrismo come malattia senile del berlusconismo
È il 10 gennaio del 2013, quando Berlusconi al disperato inseguimento del centrosinistra capitanato da Pierluigi Bersani accetta di partecipare a Servizio pubblico, il programma di Michele Santoro in onda in prima serata su La7. Come è noto, finirà per far saltare il programma con una gag semplice, rimasta nella memoria collettiva: pulisce platealmente con un fazzoletto la sedia sulla quale era seduto Marco Travaglio, il giornalista ospite fisso del programma che rappresenta più di ogni altri la linea della guerra per procure (della repubblica) all’imprenditore di Arcore. È esattamente in quel momento, che si svolge mentre il M5S macina consensi e si prepara a cambiare la storia della comunicazione politica del paese, che si capisce che il corpo spettacolare dell’uomo delle televisioni private che da vent’anni sta monopolizzando la vita politica è più forte anche dell’informazione spettacolo dei suoi oppositori. E che, laddove la costruzione del senso comune berlusconiano era costruita sulla scorta di una rigida divisione tra spettacolo (le soap opera) e propaganda (Emilio Fede), è possibile oltrepassare quella barriera. Da questo punto di vista, i programmi di informazione spettacolo che pervadono ormai da qualche anno e praticamente ogni sera il palinsesto di Rete 4 sono la malattia senile della televisione berlusconiana, una deriva in grado di riprodurre il berlusconismo televisivo seguendo automatismi che si perpetuano ormai con logiche autonome, a volte anche divergenti dagli interessi del Berlusconi politico. È solo così che possiamo spiegare il motivo per cui il retequattrismo riproduca l’agenda di Lega e Fratelli D’Italia, profetizzandone di fatto il successo elettorale, più che quella che si presenta ancora «moderata» e «popolare», della Forza Italia dell’ormai socio di minoranza Berlusconi.
Il Retequattrismo come fase suprema dell’informazione-spettacolo
I programmi condotti da Paolo Del Debbio (tra i promotori di Forza Italia e assessore alla sicurezza nella giunta di centrodestra milanese di Gabriele Albertini), Nicola Porro (bocconiano già portavoce del ministro iperliberista Antonio Martino) o Mario Giordano (ex direttore dell’house organ berlusconiano Il Giornale ora a capo delle strategie e dello sviluppo dell’informazione Mediaset) formalmente danno voce a tutte le posizioni politiche, ma vengono confezionati in modo da indirizzare il dibattito su contenuti ben precisi. Il modo in cui lavorano è ben rappresentato nel volume Caccia al Nero (Chiarelettere, 2022), diario in prima persona di un redattore retequattrista costruito sulla scorta della testimonianza di alcuni redattori. In un misto di disillusione, cinismo e disperazione alienata tipica della generazione precaria, si racconta il mondo di coloro i quali sono costretti a mettere in scena un paese messo sotto assedio dai rom, vessato dalle truffe dei percettori del reddito di cittadinanza, oggetto dell’invasione dei migranti. «Ovviamente non credevano a una virgola di ciò che facevano – si legge a un certo punto – crederci sarebbe stato da folli, vedendo ciò che accadeva nel dietro le quinte. Lo facevano e basta, con lo stesso grado di coinvolgimento emotivo di un operaio mentre aziona la pressa».
Non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: è giusto riconoscere il salto di qualità dell’informazione retequattrista. Ma è opportuno intravedere i tratti di continuità con quanto proviene dagli altri canali. Da questo punto di vista, il retequattrismo rappresenta la fase suprema della logica degli infotainment, contiene in forme esasperate tratti presenti in programmi che sono pensati da autori tutt’altro che assimilabili al berlusconismo. Ciò è acuito dal fatto che gli infotainment sono il format ideale nell’era della post-verità perché, come spiega uno che è passato dal situazionismo alle tv commerciali (per approdare al cospirazionismo) come Carlo Freccero «se la notizia non è più oggetto di approfondimento sarà allora gestita per stabilire con il pubblico un rapporto di intrattenimento» (Televisione, Bollati Boringhieri, 2013). Questo ci fa cogliere la reazione tra la cultura retequattrista e la grande mutazione del digitale. Per descriverla conviene fare un paragone con il grillismo, il fenomeno che ha rappresentato l’irruzione della rete nella politica dei partiti. Il Movimento cinque stelle delle origini ha rappresentato l’utilizzo dei social da parte di un personaggio tv, l’occupazione dello spazio digitale da parte di un migrante catodico come Beppe Grillo, che con metodi e forme tipicamente neotelevisivi ha reso virale il suo messaggio, in un paese che si illudeva di passare direttamente dal berlusconismo al grillismo. Il retequattrismo descrive il movimento inverso: è la messa in scena televisiva del rumore bianco dei social, l’uso della tv per rastrellare e amplificare i tratti più reazionari della rete.
*Giuliano Santoro, giornalista, lavora al manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (Castelvecchi, 2012 e 2014), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo, 2015).
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